La share economy è la vera terza via
di Renato Brunetta


All'interno del dibattito tra differenti modelli sociali, lo strumento della partecipazione dei lavoratori all'impresa può assumere un ruolo nevralgico. I successi del capitalismo anglosassone in termini di crescita del reddito e di performance aziendali impongono una riflessione all'Europa. Che, appesantita da vincoli troppo rigidi e da un eccesso di intervento pubblico, viaggia a velocità troppo lenta per tenere il passo di quella americana. Occorre quindi guarire dall'euro-sclerosi, caratterizzata da alti tassi di disoccupazione e bassa crescita del reddito. In primo luogo per ragioni di equità, visto che per distribuire ricchezza bisogna prima produrla. Il costo crescente della protezione sociale in società avanzate e in via di invecchiamento impone un maggiore dinamismo della nostra economia se vogliamo mantenere gli standard sociali attuali (e magari migliorarli, in paesi come il nostro dove sono tuttora insufficienti a proteggere milioni di esclusi). Come si fanno quindi a conciliare le ragioni della solidarietà, caratteristica fondante del modello sociale europeo, con quelle dell'efficienza? Un nuovo modello di relazioni industriali, imperniato sullo sviluppo delle forme partecipative, potrebbe rappresentare la quadratura del cerchio. Come peraltro suggerisce il Libro bianco del governo sul mercato del lavoro (2001). Una Terza Via che alle forme vaghe e socialdemocratiche della stakeholders society descritta da Anthony Giddens contrappone modelli concreti di shareholders society coerenti con i principi del mercato. Con l'espressione "partecipazione dei lavoratori all'impresa", si intende sia il coinvolgimento nelle decisioni aziendali (power sharing), sia il concorso agli utili (profit sharing). La prima forma implica un modello partecipativo "forte", la seconda un modello "debole". Almeno in apparenza, perché poi le differenti modalità di applicazione determinano l'effettivo radicalismo dei modelli. Che hanno trovato una riformulazione teorica importante negli anni Ottanta, con la pubblicazione di The Share Economy (1984) di Martin L. Weitzman e di Agathotopia (1989) di James Meade.

Non che la letteratura sulla partecipazione fosse cosa nuova, anche perché applicazioni concrete non sono mancate (basti pensare al movimento cooperativo o al Mitbestimmung tedesco). Tanto che anche nella letteratura non specialistica ci si può imbattere in riferimenti interessanti, che riflettono un'ampia diffusione degli istituti partecipativi nel corso della storia moderna. Come emerge da un classico come Moby Dick di Herman Melville, per esempio, pubblicato nel 1851. Dove nel capitale del "Pequod", baleniera comandata dal capitano Ahab, "le quote…erano detenute da una folla di azionisti: vedove, bambini orfani e affidati alla legge, ognuno proprietario all'incirca del valore di una testa di trave, o di un piede di plancia o di un chiodo o due della nave". A Ismaele, l'io narrativo del romanzo, viene assegnata la trecentesima "pertinenza". Il suo compagno, Queequeg, che dà prova di essere un abile ramponiere, centrando alla perfezione una distante macchia di catrame, viene ingaggiato invece con la novantesima "pertinenza", quindi a condizioni molto più vantaggiose. Un sistema che quindi non discrimina perché l'animista Queequeg viene assunto dai quaccheri Peleg e Bildad a condizioni migliori del cristiano Ismaele. Ciò che conta è il merito individuale perché a ciascun lavoratore-capitalista conviene che il capitale frutti il più possibile.

Tuttavia, specie a sinistra, il filone della partecipazione è stato a lungo spiazzato dall'ascesa di quello marxista, che vedeva un conflitto inconciliabile tra capitale e lavoro. Tramontato il modello fordista, sul fronte della prassi industriale, e il modello marxista, sul versante teorico, lo schema partecipativo è tornato a ricoprire una nuova centralità. Dapprima, sul piano dell'elaborazione astratta, con le proposte di Weitzman e Meade, la prima una versione più liberale della shareholders society, la seconda una versione dalle suggestioni più socialdemocratiche. Nella Share Economy di Weitzman, i lavoratori ricevono una quota fissa di quanto ciascuno di essi produce in media, ai prezzi di vendita. La contrattazione tra sindacati e impresa quindi non verte più sul salario orario bensì sulla "quota di partecipazione". Se l'impresa assume un lavoratore addizionale, il ricavo sarà superiore al costo marginale in quanto i costi, cioè la retribuzione del nuovo lavoratore, sono solo una percentuale dell'incremento dei ricavi che ne deriva. E' pur vero che, dal momento che il ricavo marginale è inferiore al ricavo medio (la produttività marginale è decrescente), il salario medio per ciascun lavoratore decresce al crescere della forza lavoro. Tuttavia, la maggiore domanda che segue ad un più alto livello occupazionale complessivo (fattore macro) e il maggiore interesse dei lavoratori ai risultati dell'impresa (fattore micro) possono, secondo Weitzman, più che compensare l'effetto depressivo sui salari.

La Labour-Capital Partnership di Meade è uno schema molto più complesso e immaginifico, che tuttavia ha molti punti di contatto con quello di Weitzman. Nell'isola di Agathotopia, "il buon posto in cui vivere" (contrapposto all'inesistente Utopia, definita "il luogo perfetto in cui vivere"), tre sono le innovazioni fondamentali apportate rispetto al modello capitalistico classico. A livello di impresa il diritto di voto e di decisione è accordato sia alle azioni di capitale sia a quelle di lavoro, quest'ultime detenute dai lavoratori dell'azienda. Lo Stato lascia alle imprese private la gestione del capitale ma si appropria dei frutti, che distribuisce ai cittadini sotto forma di Dividendo Sociale. In tal modo viene corrisposto a tutti un reddito minimo, indipendentemente dall'attività svolta. Infine, una forte tassazione dei patrimoni ereditari va a finanziare ulteriormente le attività dello Stato e soprattutto a redistribuire la ricchezza secondo criteri di equità, garantendo a classi di reddito differenti livelli di partenza omogenei. Nel sistema capitalistico congegnato da Meade, i lavoratori possono contare su diverse fonti di guadagno. Che, oltre che da un salario "fisso", sono costituite dal Dividendo sociale, dal dividendo delle "azioni di lavoro" e infine dai profitti derivanti dalla proprietà di azioni di capitale delle partnership azionarie fortemente incentivate dal sistema fiscale di Agathotopia. La multiforme composizione del reddito consente una migliore diversificazione del rischio rispetto allo schema di Weitzman. Inoltre, per ovviare alla resistenza dei vecchi soci all'ingresso dei nuovi, Meade sostiene una discriminazione salariale a favore dei primi. Che andrebbe a compensare chi ha detenuto più a lungo le azioni di lavoro, sopportandone i relativi rischi. La pesante interferenza dello schema di Meade con l'assetto proprietario lo rende però estraneo ad una visione liberale della società, al contrario di quello di Weitzman. Temperato nei suoi aspetti più radicali, il mondo di Agathotopia può comunque offrire spunti validi per la realtà odierna.

Sia pure nella loro diversità, gli schemi teorici di Weitzman e Meade sono finalizzati allo stesso obiettivo: raggiungere la piena occupazione. Grazie al fatto che il costo del lavoratore addizionale è minore del ricavo addizionale da esso generato. Quindi, in tempi favorevoli l'impresa è incentivata ad assumere mentre nelle fasi congiunturali negative essa ha minore incentivo a licenziare. Un meccanismo che porta automaticamente alla piena occupazione, nel caso in cui l'adozione del modello partecipativo sia generalizzata. Perché questo accada (o almeno ci si avvicini) occorre però bilanciare la naturale miopia degli imprenditori e dei lavoratori insider con incentivi fiscali e normativi ad hoc. Se l'occupazione è ritenuta un bene pubblico, compito dello Stato deve essere quello di fare ciò che il singolo privato non è in grado di fare, cioè considerare l'aspetto macro del problema. Nel rispetto delle regole di mercato, naturalmente. Sotto la spinta del processo di globalizzazione, si chiede ai governi europei di rendere più flessibili i mercati del lavoro. Una inevitabile e per certi versi giusta sollecitazione che però non può determinare una cancellazione unilaterale dei diritti dei lavoratori, così come sono rimasti codificati per molti decenni. Come tale, darebbe luogo ad una lunga lotta d'attrito dagli esiti incerti. Se si vuole liberalizzare il lavoro in Europa, occorre mettere in cambio qualcosa sul piatto della bilancia. Un maggiore coinvolgimento dei dipendenti nell'impresa (sotto forma di profit sharing, power sharing o entrambi) appare l'univa vera Terza Via percorribile per conciliare l'efficienza del mercato con esigenze solidaristiche.

Perché ciò avvenga, l'adozione dello schema partecipativo deve avvenire solo dove sia giustificato dalla logica economica, a seguito della contrattazione tra le parti sindacali. Come già prevede la normativa comunitaria sui Comitati aziendali europei (Cae) del 1994. Primo tassello di una serie di provvedimenti presi a livello continentale per modernizzare le relazioni industriali, tra i quali i più importanti sono quelli sulla Società Europea e sull'informazione e la consultazione dei lavoratori. La direttiva sui Cae affida alle parti (direzione delle società multinazionali, a cui la normativa in questione si applica, e rappresentanza dei lavoratori) il compito di individuare composizione e funzioni del comitato aziendale europeo. Solo nel caso in cui non si trovi un accordo, si applicano le disposizioni previste dalla legge. Sono oltre 600 le intese firmate a livello aziendale fino ad oggi. Risultato che fa ritenere la direttiva sui Cae uno dei grandi successi della recente legislazione comunitaria (Commissione Europea, 2000). Anche perché in questo caso, a differenza della rigida regolamentazione comunitaria imposta dall'alto in altri campi, l'impianto giuridico si basa su "norme leggere" (soft laws), che rappresentano il passaggio dal cosiddetto management by regulation al management by objectives. In altre parole, si punta al risultato più che ai mezzi per raggiungerlo, in accordo con il principio di sussidiarietà, che lascia il potere decisionale al livello più basso possibile.

La tecnica giuridica comunitaria, esemplificata dalla direttiva sui Cae, è stata presa dal Libro bianco del governo sul mercato del lavoro (2001) come possibile modello di riferimento per la stessa legislazione italiana. Un suggerimento che oggi risulta più che mai attuale. Per almeno due ragioni. Si sta andando verso un progressivo decentramento della contrattazione, con più peso per il livello locale e quello aziendale. Gli accordi tra le parti non saranno più delle gabbie rigide (secondo il principio del one-fits-all) ma si aggiusteranno in modo differente alle varie specificità. Inoltre, in una stagione di rinnovata conflittualità, si può offrire ai sindacati la possibilità di assumere rilevanti responsabilità a livello d'azienda, anche sostitutive della potestà legislativa, nello spirito delle indicazioni contenute nel Libro bianco. Alla stagione della concertazione, dove ai sindacati si è data voce in capitolo su questioni che in una democrazia normale sono in generale di esclusiva competenza del Parlamento e del governo, farebbe seguito una stagione della partecipazione dove le rappresentanze dei lavoratori tornerebbero a svolgere un ruolo più vicino alla loro storia e alla loro missione. Un ritorno alle origini che dovrebbe essere avvertito dai sindacati stessi come necessario e non più eludibile. Anche per cogliere le occasioni che vengono offerte dai processi di trasformazione in corso, come la new economy e le privatizzazioni. Dove programmi di stock options che coinvolgano larghe fasce di dipendenti (esempio americano) e emissioni di azioni riservate agli impiegati (esempio britannico) sono strumenti per accelerare sulla strada del reale empowerment dei lavoratori. Evitando che la new economy coincida con fenomeni di precarizzazione di massa (come i call centers, come li conosciamo oggi) e che le privatizzazioni si traducano soltanto in una redistribuzione del potere all'interno di una ristretta élite. Dunque, a ciascuno il suo mestiere, per garantire all'Italia e all'Europa al contempo più libertà, più occupazione e più solidarietà.


7 giugno 2002

(da ideazione 3-2002, maggio-giugno)
 

 

stampa l'articolo