Globalizzazione e partecipazione
di Pier Paolo Baretta
A sostegno della tesi che propone la partecipazione dei lavoratori
alla vita e alle scelte dell'impresa vi è una abbondante
letteratura ed una memoria storica che coinvolge filoni culturali
del mondo del lavoro, anche molto diversi tra di loro per gli
esiti ideologici o politici ai quali sono approdati, ma tutti
orientati da una visione evolutiva del capitalismo. Si pensi alle
origini del movimento operaio quando, sia pure in una logica
difensiva, si affermarono forme importanti di mutualità e di
attività economiche vere e proprie. La storia dei fondi di mutuo
soccorso e la straordinaria avventura della cooperazione sono
stati anticipatori di un'idea di capitalismo nel quale i
lavoratori contano davvero, in prima persona e in quanto persone.
Idea alternativa ad una concezione di capitalismo fondato sulla
pionieristica, ma totalizzante, figura del "padrone"; alternativa,
inoltre, anche alla concezione comunista per la quale, più che il
lavoratore, conta per lui lo Stato; o a quella del "capitalismo
compassionevole". Ricordo, ancora, il filone culturale nordico
dell'autogestione (Meidner e il suo "capitalismo senza padrone"),
o la ben conosciuta cogestione tedesca. Penso alla dottrina
sociale della Chiesa, al socialismo di inizio secolo o, infine, a
tutto il filone corporativo che ha dato vita all'identità di una
parte della destra.
Il bisogno di partecipazione trova, comunque, un'attualità urgente
ed inesorabile oggi, nell'epoca storica della globalizzazione.
Sotto i nostri occhi le opportunità straordinarie ed inedite della
dimensione globale sono troppo spesso offuscate dalle forme
ingiuste e drammatiche con le quali la mondializzazione avanza.
Dobbiamo anche, con tristezza, riconoscere che troppe volte il
permanere di situazioni estreme trova avallo in alcune scelte
sbagliate e miopi che sono state compiute da grandi organismi
internazionali quando intervengono a…"sostegno" dell'economia dei
paesi emergenti. Al contempo la fragilità delle istituzioni
politiche mondiali rende esplicito ed urgente il problema della
governance e del modello economico e sociale. Viviamo, infatti, in
una società complessa, nella quale la cittadinanza non si
esaurisce nello scambio/scontro tra salari e profitti, ma in un
delicato equilibrio di convivenze e di relazioni, individuali e
collettive, sia dentro che fuori il lavoro. Viviamo in una libera
e moderna economia di mercato protesa verso forme sempre più
sofisticate di competizione, basate sul massimo dell'efficienza e
dello sviluppo tecnologico. In questo contesto la forma più matura
per realizzare un modello economico e sociale che affermi
giustizia, uguaglianza e solidarietà, senza rinunciare allo
sviluppo economico ed al benessere materiale è, senza dubbio, la
democrazia economica e la partecipazione dei lavoratori alla vita
dell'impresa.
Sia la old che la new economia sono, infatti, ad un bivio. Proprio
le periodiche oscillazioni spettacolari degli indici borsistici
dimostrano, particolarmente dopo l'11 di settembre, che lo
sviluppo economico non può seriamente affidare il potere sul
destino delle imprese ad un modello basato quasi esclusivamente
sugli esiti dei mercati finanziari, anziché alle intelligenze
progettuali e produttive. Soru sostiene che la proprietà delle
imprese di Internet è di chi ci lavora, perché il prodotto
immateriale è la conoscenza e l'intelligenza; nella multimedialità
il prodotto è plasticamente rappresentato dai contenuti; nella
logistica è l'intelligenza organizzativa che fa la differenza;
nelle imprese di produzione di beni e servizi è sempre più la
qualità che determina il successo. Provocatoriamente e
paradossalmente si potrebbe affermare che una buona democrazia
economica ed una buona partecipazione tutela il mercato libero ma
reale di più del Down Jones o del Nasdaq. Per realizzare
un'economia di mercato, per gestire la competizione globale della
produzione, della finanza, per… fare futuro non c'è, allora, solo
la scuola di Chicago, ma anche le teorie economiche dei premi
Nobel A. Sen e Stiglitz.
Tra antagonismo consumato e partecipazione
mancata
Da questa visione generale discende la natura culturale e politica
dell'approccio partecipativo alla competizione economica. Non si
tratta, dunque, di un'impostazione difensiva, protezionista; al
contrario, è aperta al cambiamento sociale ed incide sul futuro
assetto dei rapporti tra capitale e lavoro. Questione attuale
anche nel nostro paese. Dobbiamo, infatti, riconoscere che in tema
di relazioni sindacali siamo in mezzo a un guado. Da un lato
assistiamo ad una crisi evidente del modello antagonista. Esso,
anche se riscuote ancora un discreto consenso sia nel fronte
sindacale che imprenditoriale e, ahimè, anche nella politica,
dimostra, in pratica, di non essere in grado di rispondere, né per
le imprese né per i lavoratori, alle sfide che derivano dalla
modernità. Rispetto ad alcune situazioni come, ad esempio, nel
Terzo mondo, dove la battaglia sociale e sindacale è ancora
direttamente intrecciata con la lotta per la libertà o i diritti
fondamentali di accesso alla vita, prima ancora che alla
cittadinanza, l'antagonismo è, purtroppo, talvolta la sola
risposta di fondo che si può dare. Ma, in una società democratica,
come la nostra, a fronte di una matura realizzazione di conquiste
sociali consolidate negli stessi ordinamenti, a fronte di una
pluralità dialettica di istituzioni e rappresentanze, si rende
necessaria una risposta più alta, più elaborata e complessa dello
scontro sociale o, addirittura, di classe.
Anche quando queste conquiste sociali fossero messe in discussione
- e una nutrita schiera di liberisti ci prova -, la complessità
intrinseca alle società industriali evolute o perfino post
industriali, rende la risposta propria del modello antagonista una
risposta bloccata, insufficiente, inadeguata a cogliere queste
complessità e a farle evolvere verso una governance positiva.
Serve, invece, elaborare una risposta riformista e partecipativa.
Ma bisogna riconoscere, anche, che alla crisi del modello
antagonista (non del conflitto! Questa distinzione va fatta sempre
perché vi è molta strumentalizzazione su questo punto: il
conflitto è una condizione di normalità democratica) si
contrappone una preoccupante fragilità della democrazia economica.
Le cause di questa fragilità sono molteplici. Quello che mi
interessa evidenziare, in questa sede, è che questo stare in mezzo
al guado, tra antagonismo consumato e partecipazione mancata, non
produce né lo scenario che molti sperano, ovvero la
desertificazione delle regole sociali e l'avvento
dell'individualismo più esasperato, né, al contrario, quanto
sperano i vari Bertinotti, ovvero l'avvio di un ciclo di lotte
contro la globalizzazione. Il rischio è l'avvento di una palude di
indifferenza e corporativismo, che sarebbe la peggiore soluzione
alla crisi di rappresentanza e di identità che sia il lavoro che
il capitale attraversano.
In questo scenario va rafforzato il tentativo europeo di competere
sul piano internazionale con un proprio modello sociale. Va
riconosciuta l'audacia, se si pensa al modello americano o a
quello di molte economie emergenti, della scelta europea di
affermare la propria capacità competitiva globale senza rinunciare
ad un modello sociale fondato sulla collaborazione, o - per dirla
meglio con un'espressione europea, meno gradevole linguisticamente
in italiano, ma più efficace - sul "partenariato" tra gli attori.
Il dibattito europeo sulla partecipazione economica ha avuto varie
fasi di avvicinamento: dal primo Rapporto Pepper del '91 alle
Raccomandazioni del '92, all'ultimo Rapporto Pepper del '97 che,
per la prima volta, introduce il concetto di azionariato
collettivo. Inoltre, ricordo il Rapporto Davignon. Ma, negli
ultimi tempi, i processi di integrazione monetaria e politica (non
dimentichiamo che si sta discutendo di una Costituzione!) stanno
determinando un'accelerazione normativa che produrrà una vera e
propria rivoluzione organizzativa.
Basti come esempio l'intreccio tra la direttiva sulla società
europea e quella sull'Opa. E' ragionevole, infatti, pensare che il
recente fallimento della direttiva sull'Opa europea sia solamente
un fallimento congiunturale. Ma, allora, quando alla Società di
statuto europeo, già approvata ed in via di trasposizione nei
diversi Stati membri, si affiancherà l'Opa europea, avremo
operante un nuovo sistema di regole che, scavalcando i singoli
diritti nazionali e le relative Autorità di regolazione dei
mercati, anzi obbligandoli ad un adeguamento forzato del loro
diritto societario, consentirà, non solo una nuova organizzazione
delle società per azioni, delle società anonime, delle società di
capitali, ma anche una loro nuova contendibilità sovranazionale.
Sono molte le direttive europee già entrate nella nostra vita
quotidiana in punta dei piedi. La legge italiana sulla parità
nasce dalla trasposizione di una direttiva europea; così come il
decreto 626 sulla sicurezza, così come la legge sui Cae. A ben
vedere si tratta di una strumentazione che, mentre afferma dei
diritti, favorisce una prospettiva di rapporti non solo negoziale,
ma anche di tipo partecipativo. Oltre alla società europea è
stata, nelle settimane scorse, approvata la direttiva sulla
consultazione ed informazione ed è in revisione quella sui Cae. Si
sta discutendo, inoltre, di responsabilità sociale delle imprese e
di partecipazione finanziaria dei lavoratori.
Sulla base di questo scenario continentale è urgente avviare,
anche in Italia, un percorso concreto di iniziative culturali,
contrattuali e legislative di sostegno destinate a far sì che la
"democrazia economica" diventi centrale nelle scelte di sistema
del paese, motivata dalla rapidità e la profondità con la quale
sta evolvendo il modello capitalistico. Basti pensare che il
mastodontico processo di privatizzazioni avvenuto in Italia (per
la verità più radicale rispetto a Francia e Germania) non è
evoluto verso quell'idea di capitalismo diffuso sulla quale, negli
scorsi anni, si è molto discusso. Mentre la finanza prendeva il
ruolo improprio di unico metro di paragone della salute e dello
sviluppo delle imprese (il caso Telecom basta per tutti!), che
ruolo hanno avuto il capitalismo diffuso, i piccoli azionisti e l'azionariato
dei dipendenti? Una nuova stagione di privatizzazioni è alle porte
e riguarderà sia le aziende di servizi municipalizzate, sia le
grandi utilitis. E' un'occasione da non perdere.
Ma vi è un'ulteriore riflessione che ci fa sostenere che è attuale
occuparsi di democrazia economica e modelli partecipativi. Essa si
muove dalla constatazione che l'organizzazione capitalistica del
lavoro sta cambiando profondamente. E' in atto una tendenza,
maggioritaria in tutti i settori della produzione, dai servizi
alla scomposizione del ciclo produttivo. Nelle poste, come nelle
banche, nelle telecomunicazioni, nei trasporti, nel
manifatturiero, nonché nella pubblica amministrazione: le imprese
si aprono e si chiudono come fisarmoniche a seconda della musica
che suonano i mercati. I processi di esternalizzazione,
out-sourcing, sono all'ordine del giorno ed indicano, ormai, un
modello produttivo a rete che se allunga la catena del valore,
talvolta interrompe quelli dei diritti. Può la democrazia
economica rispondere a tale problematica? Io penso di sì. Accanto
ad un'esplicita battaglia per la salvaguardia dei diritti
elementari e ad un'irriducibile capacità contrattuale sui processi
aziendali e sulle condizioni materiali, si deve sviluppare un
sistema complesso finalizzato a saldare tra loro i diversi anelli
di questa frantumata catena, attraverso una rete di regole fondate
sul principio della consultazione-partecipazione. Questioni come i
comitati di consultazione e vigilanza nelle capogruppo, con poteri
di intervento sull'intera rete, strutture efficaci di
bilateralità, azionariato collettivo, fondi, organizzazioni
indipendenti di controllo (esempio: "I consumatori"), sono
tasselli che rafforzano il tentativo di orientare positivamente lo
sviluppo e la riorganizzazione capitalistica per garantirne la
trasparenza.
Corresponsabilità e mission aziendale
Contemporaneamente gli imprenditori, mentre operano per frantumare
l'assetto produttivo delle loro imprese per sfruttare al massimo i
vantaggi derivanti dalla flessibilità (e più esternalizzano più il
problema della competizione si acuisce perché si finisce per
inseguire una competizione da costi insostenibile!), più chiedono
al lavoratore, di qualsiasi settore, di qualsiasi livello - sia
esso l'impiegato di concetto o il lavoratore di terzo livello alla
catena o sia esso il coordinato continuativo - di vivere il suo
lavoro non semplicemente come l'offerta della sua forza lavoro, ma
come se dovesse contribuire con qualcosa in più, con un'idea di
corresponsabilità, di farsi parte della "mission" aziendale.
Insomma, le imprese più stringono ed esasperano il gioco
competitivo, talvolta mettendo a rischio il sistema dei diritti,
più chiedono ai lavoratori di lavorare come se fossero dei soci.
Ma continuano a trattarli come dei salariati! Di fronte a questa
clamorosa contraddizione del sistema capitalistico post fordista
si apre il vero dibattito sul futuro delle relazioni industriali.
Vi è chi ne approfitta per calcare la mano sul primo dei due
aspetti ed inseguire un'esasperata logica competitiva, anche a
discapito di un equilibrato modello sociale. Non vi è in questa
strada spazio per la partecipazione.
Vi è anche chi, come la Cgil ed una parte della sinistra, si ferma
e vede solo il lato oscuro della "forza": la crisi del sistema di
garanzie e tutele. Separa i destini del lavoro da quelli
dell'impresa rinchiudendosi nell'antagonismo. Io penso che bisogna
assumere in pieno la sfida che deriva dal governare questa
imponente trasformazione, pari solo, se non per alcuni aspetti
addirittura superiore, alla prima rivoluzione industriale per i
suoi aspetti sociali e all'introduzione del taylorismo per i suoi
aspetti organizzativi e per le conseguenze sul lavoro e la vita
delle persone. In sostanza si tratta di comprendere la realtà
storica oggettiva nella quale viviamo per rovesciare i termini
classici dell'approccio autaritario-rivendicativo sul quale si è
fondata l'organizzazione e l'emancipazione del lavoro nel secolo
scorso. Per dirla nel modo più semplice possibile: tu,
imprenditore, mi chiedi di lavorare con lo stesso atteggiamento e
la stessa disponibilità di un socio, ma discuti dei miei diritti e
delle mie prestazioni come se fossi un subalterno, un dipendente,
un salariato. Io, lavoratore, ti rispondo che ci sto ad assumermi
le responsabilità e gli oneri che derivano dall'essere "socio", ma
ti chiedo che questa condizione nuova mi venga riconosciuta, ti
chiedo di entrare nel gioco. L'impresa diventa anche mia, con
tutte le variabili, i limiti, le regole e le condizioni che
insieme definiremo.
Si può, in definitiva, sostenere che nelle sfide della modernità
globale è possibile affermare un nesso logico ed organizzativo,
una proprietà transitiva tra: sfida competitiva = qualità del
prodotto e del processo = responsabilità = partecipazione. Se si
osserva, anche al di fuori degli orizzonti produttivi, i problemi
della vita collettiva e dell'organizzazione sociale contemporanea:
dall'ordine pubblico all'immigrazione, al governo delle metropoli,
ai servizi alla persona e alla collettività emerge, mi sembra,
un'esigenza di ordine e di qualità non risolvibile esclusivamente
con l'autorità (che ci vuole e deve essere meglio organizzata), ma
anche con l'autorevolezza, che deriva da una visione della
democrazia diffusa e del coinvolgimento responsabile dei…
cittadini-utenti-clienti-soci ecc. La democrazia economica e la
partecipazione affermano, in sostanza, una tesi sulla società, ne
implicano una visione e un modello di riferimento. Sono, quindi,
tesi non solo sul lavoro, la sua emancipazione e i suoi diritti,
ma anche sulla democrazia, sul capitalismo, sulle forme e
l'organizzazione della vita moderna. Non si tratta né di
corporativismo, né di socialismo, né di autogestione:
semplicemente, si tratta di partecipazione.
7 giugno 2002
(da ideazione 3-2002, maggio-giugno)
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