Energia e potere mondiale
di Giuseppe Sacco

Pubblichiamo l’intervento di Giuseppe Sacco al convegno organizzato dalla Fondazione Ideazione in occasione della presentazione del libro “La politica energetica nel novo contesto internazionale”.

L’evoluzione della situazione internazionale, nei sei mesi trascorsi da quando, a Gubbio, ebbi l’occasione di fare il punto sui nuovi termini della questione energetica mondiale all’indomani del colpo inferto agli Stati Uniti, e venti giorni dopo l’inizio della guerra afgana che a tale attacco aveva fatto seguito, non è stata nel senso di maggiore stabilità e di maggiori certezze. Al contrario, la crisi dell’autunno-inverno 2001-02 si è rivelata una vera manna per gli estremisti di ogni bordo, tanto che molti altri paesi – l’ultimo in ordine di tempo l’India, che lo sta facendo mentre parliamo – hanno tentato – come dicono gli Americani – “of hitchiking the terror car”, di ottenere un passaggio sul treno del terrore, cioè di internazionalizzare conflitti locali attribuendo ai loro avversari l’etichetta di “terroristi islamici”, e di offrirsi all’America per svolgere in tali nuovi conflitti il ruolo tenuto dall’Alleanza del Nord nella guerra afgana. Di fatto, hanno cercato di farsi spalleggiare dagli Usa in guerre volte a ottenere obiettivi che con i problemi generali dell’ordine mondiale non hanno niente a che fare. Si è fatto così più grave il riscjio di un confronto tra Occidente ed Islam, per evitare il quale la diplomazia di Colin Powell aveva egregiamente lavorato prima e dopo l’attacco all’Afghanistan. E con esso anche il rischio di una confronto tra paesi esportatori ed importatori di energia, per evitare il quale l’Opec, dopo l’11 Settembre, aveva imposto grande lentezza e cautela alle proprie reazioni alle oscillazioni del mercato del petrolio.

Nessun continente appare purtroppo estraneo a questo confronto, che da molte parti ha pericolosamente evocato l’idea dello “scontro di civiltà”. L’Europa con i suoi milioni di immigrati islamici, la Russia con la sua irrisolta questione di frontiera con il mondo turco ed iranico, la Cina travagliata dal problema del separatismo del Sinkiang e dall’eterno attrito tra l’espansionismo dei Cinesi d’oltremare e dei Malesi islamici in Asia sud-orientale, l’India ancora alle prese con il Pakistan e con la propria incapacità di accettarne l’esistenza, cioè con l’irrisolta eredità della propria genesi al termine del dominio britannico, l’Africa dove il dinamismo e l’attrazione dell’Islam si scontrano con le tradizioni animiste e la più lenta e difficile penetrazione cristiana: tutte le parti del mondo hanno questioni aperte con il miliardo e passa di seguaci della predicazione di Maometto. Persino l’Australia, a parte il problema degli immigrati, avverte la vicinanza dell’Indonesia, paese islamico ed in forte espansione demografica, e teme la minaccia che tale vicinanza fa pesare sui suoi spopolati territori dell’Ovest. E persino in Sud-America le conseguenze politiche ed economiche, oltre a quelle geopolitiche – come è di moda dire oggi tra coloro che non conoscono il significato di questa parola –, dei conflitti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale fanno sentire i loro effetti. In tutto il mondo, infatti, si avvertono le ripercussioni della tendenza dell’Amministrazione Bush-Cheney ad eliminare – o almeno di ridurre fortemente – la dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio arabo.

Questo tentativo di rivoluzionare i mercati mondiali della più importante materia prima, deriva dalla non facile situazione politica interna in cui sembra trovarsi il governo del principale produttore mondiale, l’Arabia Saudita. In un primo tempo, dopo l’11 settembre, Riad è parsa presa tra due fuochi, e costretta a destreggiarsi un po’ troppo tra l’alleanza con l’America e le simpatie islamiste di gran parte della sua opinione pubblica, sottolineate dal fatto che ben 15 su 19 dei terroristi dell’11 settembre erano suoi sudditi. Successivamente, però, prendendo al balzo l’occasione offerta dall’aggravarsi della tragedia palestinese, il Regno wahabita ha tentato di alleggerire la propria situazione internazionale con un’audace iniziativa diplomatica, il cosiddetto “piano di pace saudita”. Facendosi garante delle forniture petrolifere dell’Occidente esso ha in un certo senso fatto valere l’arma del petrolio, anche se per rafforzare i propri rapporti con Washington, ed in maniera decisamente contraria a come hanno proposto di usarla Iraq e Iran, che spingono invece a favore del boicottaggio degli USA. E la forza che quest’arma mantiene si è ben vista all’incontro tra Bush e il Principe ereditario Abdullah alla fine dell’aprile 2002, dove di fatto l’America si è dovuta piegare, e ha dovuto rinunciare ad una azione immediata contro l’Irak. Ridurre il potere che il mercato del petrolio attribuisce all’asse Arabia Saudita-Kuwait, sarebbe quindi assai utile, in termini di potere mondiale, per Washington. Ma ciò implica due mosse, in entrambe delle quali l’America Latina è pienamente coinvolta: la sostituzione di almeno una parte del petrolio proveniente dalla penisola arabica con idrocarburi importati dai paesi del continente americano, e la rottura del potere dell’Opec sui prezzi mondiali dell’energia.

Autarchia continentale?
Va notato immediatamente, relativamente alla prima di queste due mosse, che uno sviluppo dell’import americano dal Canada e dall’America Latina costituisce un obiettivo fin troppo ambizioso. Nel 2001, gli Stati Uniti hanno già acquistato dal continente americano quasi metà (42%) di tutte le loro importazioni di idrocarburi. Di questo, circa il 15% proviene dal Canada, e non sembra certo facile accrescere ancora questa quota, a meno di non sfruttare, attraverso un processo costoso e altamente inquinante, i vasti giacimenti canadesi di sabbia impregnata di bitume. Un altro 27% del petrolio bruciato dagli Americani proviene da Messico, Venezuela e Colombia. Ed è la produzione e l’export di questi paesi che gli Stati Uniti avrebbero oggi bisogno di accrescere, per eliminare o ridurre in maniera significativa quel 13% delle loro importazioni di petrolio provenienti dall’Arabia Saudita. Da qualche tempo, il Messico è il paese cui guardano non solo gli importatori, ma anche le majors della produzione petrolifera. Ed il loro interesse è diventato assai concreto da quando il Messico ha rotto con una tradizione che ha fatto della società di Stato PeMex il monopolista del petrolio, e ha reso legalmente possibile l’esplorazione e la ricerca di metano da parte dei privati, in questo paese un tempo caratterizzato da un forte nazionalismo economico.

Non va infatti dimenticato, e gli Americani lo hanno ricordato a lungo, che nel 1938 il Messico compì un vero e proprio atto rivoluzionario con l’espropriazione delle compagnie americane del petrolio, ed osò reagire al blocco degli acquisti americani addirittura caricando nei propri porti petroliere che battevano la croce uncinata. Da allora il modello messicano di sviluppo è stato a lungo un modello chiuso e fondato sulla proprietà pubblica del settore energetico . Tale nazionalismo, tuttavia, si è ancora manifestato di recente con un voto del Senato che ha bloccato l’apertura ai privati della produzione di elettricità. Anche oggi, nonostante questa rivoluzionaria liberalizzazione, una politica che voglia aumentare il flusso tra Messico ed USA deve tenere conto del fatto che il Messico esporta già l’86% della propria produzione petrolifera verso gli Stati Uniti.

Per di più, l’unica regione del Messico in cui sembra esistere un forte potenziale– ed in cui le compagnie straniere dovrebbero concentrarsi – è lo Stato del Chiapas, che (risorse sottomarine a parte) è già il secondo produttore all’interno della Federazione messicana. Ma si tratta di un territorio dove negli ultimi otto anni la ribellione del cosiddetto “esercito zapatista”, guidato dal famoso subcomandante Marcos, ha reso praticamente impossibile anche l’attività di esplorazione. Tutta l’area di giungla che copre il sud-est del Chapas e la contigua regione del Petén in Guatemala, dove pure ci sono importanti risorse petrolifere, è da sempre mal controllata dai rispettivi governi. E’ vero che con l’elezione del Presidente Fox è stato avviato un negoziato con Marcos e gli zapatisti. Ma contemporaneamente è stata posta in atto una collaborazione con gli Stati Uniti per formare i corpi speciali dell’esercito messicano, nella previsione che, per sfruttare le rimanenti risorse energetiche del paese, sarà necessario riconquistare militarmente una parte del territorio nazionale. Ed in ciò la condizione del sud del Messico comincia a presentare aspetti che ricordano – fortunatamente, per ora assai da lontano – la tragica situazione colombiana.

Quest’ultimo paese, la Colombia, terzo esportatore latino-americano di petrolio verso gli USA, sembra andare in direzione nettamente contraria ai desideri di Washington in materia di petrolio. Gli inconcludenti negoziati, all’inizio del 2002, tra il governo del Presidente Pastrana e la guerriglia sono degenerati in scontri ancora più aperti, nell’ingresso di reparti dell’esercito nella cosiddetta “zona smilitarizzata”, nonché in una serie di rapimenti ed assassini, anche clamorosi, che hanno riproposto in maniera drammatica il problema della violenza che caratterizza il paese fin dal 1948. Gli ultimi sviluppi offrono il quadro di una situazione assai allarmante, e che corrisponde molto da vicino al concetto di “Stato fallito”. La Colombia appare come una specie di Somalia latino-americana, in cui sono attivi vari movimenti di guerriglia, ideologicamente sia di sinistra che di destra. Il principale è il FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias Colombianas), con circa 17.000 uomini in armi, nato negli anni 60 dall’unione di diversi movimenti contadini che chiedevano la riforma agraria e la fine delle politiche liberiste. Ma importantissimo è anche il ruolo delle Autodefensas Unidas de Colombia (AUC) guidate da un cittadino italiano, Salvatore Mancuso, esponente degli allevatori di bestiame che il governo non riesce a proteggere dalla guerriglia, e che mettono in campo una forza para militare comparabile a quella del FARC. Tutti i movimenti sono fortemente nazionalisti, ed esplicitamente contrari all’export di energia. Oggetto di continui attentati sono perciò non solo i pozzi, ma soprattutto gli oleodotti. Una di queste pipelines, quella di Cano Limon, ha subito, nel solo 2001, 130 atti di sabotaggio.

Il risultato è stato, tra il 1999 e il 2001, una netta diminuzione dell’export di petrolio, il che autorizza a previsioni pessimistiche. E siccome le informazioni su quanto le compagnie siano riuscite ad investire in esplorazione ed in nuovi pozzi sono riservate ed abbastanza contraddittorie, il futuro del settore appare molto incerto. È un fatto però che da anni in Colombia le compagnie petrolifere operano in condizioni pressoché impossibili, al punto che le stesse perforazioni non sono fatte secondo i criteri che sarebbero dettati dalla geologia e dalla tecnica, ma avvengono secondo inclinazioni che consentono di raggruppare le bocche di molti pozzi in un’unica località che viene fortificata e difesa da reparti dell’esercito colombiano, finanziati ed equipaggiati dalle compagnie petrolifere . Secondo alcuni calcoli, la situazione sarebbe così grave che l’export potrebbe cessare del tutto nei prossimi anni, ed addirittura che la Colombia potrebbe diventare importatore di petrolio già nel 2004. È evidente che non si potrà far conto sulle riserve colombiane, se non a lungo termine, e a patto di impegnare truppe americane per il controllo del territorio. Uno spiegamento di forze americane in Colombia comparabile, ma assai più ampio, di quello già in atto nelle Filippine diventa perciò assai probabile, e tra qualche anno, se effettivamente gli USA saranno riusciti a stabilire il controllo del territorio, la Colombia potrà sfruttare appieno il suo grande potenziale petrolifero, e dare il proprio contributo a ridurre la dipendenza USA dalle risorse del Medio Oriente.

Il Venezuela – secondo esportatore latino-americano di petrolio verso gli USA, e quarto esportatore mondiale – non ha problemi comparabili a quelli della Colombia, La sua collaborazione risulta comunque indispensabile per la strategia post-11 settembre di riduzione della dipendenza energetica dell’America dall’OPEC e dai paesi arabi. Questo attore cruciale della partita petrolifera ha però, problemi di ordine politico, internazionale ed interno, come si è visto con gli eventi di metà aprile 2002, quando un golpe ha brevemente allontanato dal potere suo primo Presidente di sangue indio, Hugo Chavez, che aveva abbandonando il sistematico non rispetto venezuelano dei limiti di produzione fissati dall’OPEC, e fatto del Venezuela il paese leader della strategia del cartello petrolifero destinata – coinvolgendo anche la Russia dal lato dei paesi esportatori – a tenere alto il prezzo degli idrocarburi. Il trionfale ritorno al potere del presidente Chavez – anche se ha portato alla guida della PDVSA, la società petrolifera dello Stato venezuelano, un vero esperto accettato da tutti, ed ha consentito la ripresa a pieno ritmo delle esportazioni verso gli Stati Uniti – costituisce un indubbio punto a sfavore della strategia di autarchia energetica continentale dell’Amministrazione Bush.

Questa vicenda ci ha toccato più da vicino di quanto non accada di solito per questioni sudamericane, in quanto ha mostrato ancora una volta la grave disfunzionalità della politica energetica europea, quando la Spagna – più sensibile alle proprie nostalgie imperiali che alle sue gravi responsabilità comunitarie – si era affrettata, senza né consultare, né nulla comunicare ai partners della UE, ad inviare segnali di amicizia al regime golpista. Per di più, lo stesso Aznar si è dimostrato incapace di correggere questo errore. Anzi, nell’incassare, trentacinque giorni dopo il fallito golpe, l’umiliazione di dover accogliere trionfalmente Chavez el indio a Madrid, al vertice tra Unione Europea ed America Latina, ha mancato anche dell’accortezza politica di accennare al fatto che il progetto americano di realizzare una sorta di autarchia petrolifera del continente americano non può in nessun modo interessare l’Europa.

Spezzare le reni all’Opec?
Per quel che riguarda, invece, la seconda mossa della strategia energetica di Washington – la rottura del potere politico dell’Opec – la partita che unisce petrolio e potere mondiale si gioca tra molti attori, che possono essere raggruppati per semplicità in tre gruppi. In primo luogo l’Opec, poi l’insieme dei paesi formato dalla Russia e dagli Stati ex-sovietici dell’Asia centrale (attorno alle cui risorse ruota l’intero progetto di ridurre il ruolo saudita) che ancora oggi dipendono, per le loro esportazioni, dagli oleodotti sotto controllo di Mosca . Ed infine gli altri produttori che non fanno parte del cartello, tra cui i più importanti sono la Norvegia ed il Messico. Le ragioni della forte influenza dei non-membri sul funzionamento dell’Opec sono evidenti. L’Opec esportava, all’indomani dell’11 settembre, solo una quota relativamente piccola dell’offerta mondiale. Dopo i tagli di 3,5 milioni di barili al giorno effettuati nel corso del 2001 al fine di sostenere il prezzo spinto al ribasso dalla crisi economica, più un altro milione e mezzo di barili tolti dalla produzione a fine anno, i paesi membri del cartello nella primavera del 2002 esportano appena ventuno milioni di barili su un totale mondiale di settantacinque milioni. Ogni ulteriore taglio della quota Opec finirebbe perciò per influire poco sull’offerta mondiale, e quindi di avere uno scarso effetto al rialzo, ma di incidere molto di più -in negativo- sulle entrate dei paesi Opec.

Per questo motivo il cartello ha segnalato alla fine del 2001 la propria disponibilità ad un’azione di difesa dei prezzi, attraverso la già citata riduzione della produzione di un milione e mezzo di barili al giorno, solo a condizione che anche i produttori non Opec collaborassero, anche se in maniera piuttosto simbolica. Il contributo dei vari soggetti restava infatti fortemente squilibrato. L’ultimo taglio Opec prevedeva un milione e mezzo di barili in meno nell’offerta del cartello contro cinquecento mila barili da parte di alcuni produttori non Opec, in rappresentanza di quell’insieme di produttori che copre i restanti tre quarti dell’offerta mondiale. Di questo mezzo milione di barili, centocinquantamila avrebbero dovuto essere tagliati dalla Russia, che ha accettato solo dopo un lungo e complesso tira e molla, ed a condizioni che in realtà non consentono di evitare che qualcuno venda al di là della propria quota. Il Messico poi ha accettato di ridurre le proprie esportazioni ma non la propria produzione, mantenendo così la possibilità di costituire delle riserve, oppure di esportare maggiori quantitativi di prodotti raffinati.

La Russia ha mostrato una forte renitenza ad allinearsi con gli altri produttori in gran parte per fattori politici, dato che essa vuole essere un alleato dell’Occidente anche in questo campo, tanto che Putin ha garantito, in maniera assai formale, in un discorso pronunciato davanti al Bundestag a Berlino, che il flusso del petrolio sarebbe continuato. In realtà la Russia sembra aver acquisito il ruolo di vero e proprio “ago della bilancia petrolifera”. Quello dell’Opec e del petrolio è un fronte sempre aperto per il mondo occidentale, importatore netto di energia, e ancora di più per i paesi di nuova industrializzazione come la Cina, dove gli idrocarburi mancano in maniera ancora più grave, ed è un fronte fortemente esposto ai contraccolpi dei conflitti che sistematicamente scuotono i rapporti tra Occidente e mondo islamico, come di nuovo accade nei primi anni del nuovo secolo.

In un momento in cui l’Opec ha tenuto deliberatamente separata la questione del prezzo del petrolio dai due conflitti contemporanei dell’Afghanistan e della Palestina, la Russia, secondo esportatore mondiale di idrocarburi, è venuta a trovarsi in una posizione assolutamente determinante. In linea di principio, in quanto esportatore, Mosca ha un forte interesse ad un prezzo alto del petrolio. Ogni aumento o diminuzione di un dollaro al barile significa per la sua bilancia dei pagamenti circa un miliardo di dollari all’anno in più o in meno. Ma la Russia – dopo il saccheggio operato da Eltsin, Chubais e dai loro compari “oligarchi”, è anche fortemente indebitata, e quindi dipendente dalle grandi organizzazioni finanziarie internazionali.

Tali organizzazioni – come si è visto nel caso dell’Argentina, la cui crisi ha lasciato tutti indifferenti, mentre l’attenzione per la Russia era assai grande – sono assai sensibili agli interessi dei paesi occidentali e fortemente influenzati da questi. E per i grandi paesi industriali, un dollaro in più o in meno nel prezzo del petrolio significa circa dieci miliardi di dollari che rimangono presso i paesi consumatori o che vengono trasferiti ai paesi produttori di petrolio. E siccome quelle occidentali sono poi le economie più dinamiche del sistema internazionale, un dollaro in più o in meno nel prezzo del petrolio significa quindici miliardi di dollari in meno o in più nel prodotto mondiale. L’Occidente è perciò non solo in grado, attraverso la gestione del debito russo, di influire fortemente sul comportamento del Cremlino nei confronti dell’Opec, ma è anche fortemente interessato a farlo.

Anche fattori politici, e non strettamente economici, sono però in gioco in questa complessa partita. Così, il rinnovo a fine marzo 2002 della cooperazione Russia-Opec, con il mantenimento dei livelli di produzione del primo trimestre 2002 , è parso un segnale importante, anche perché è avvenuto in maniera meno laboriosa della decisione precedente, quella del taglio della produzione per il primo trimestre del 2002. Questa decisione non sarebbe dettata da motivi tecnici (dato che la ripresa dei prezzi era già avviata) ma dalla brutta sorpresa che il Cremlino ha avuto nel vedere la presenza di militari americani nelle gole della Georgia. La Russia è stata fortemente offesa dall’attivismo e dall’unilateralismo americano, anche perché è stata informata del dispiegamento degli “istruttori militari americani” solo pochissimi giorni prima che ciò avvenisse. E per di più lo ha saputo dagli Americani, e non dai Georgiani, che Mosca considera invece come facenti parte della propria sfera di influenza.

C’è quindi stato un risultato nelle strategie economiche di questa mossa americana sullo scacchiere puramente politico-militare: un brusco riavvicinamento all’Opec nel corso delle trattative per il rinnovo dei tagli di produzione, il cui accordo scadeva il 30 marzo. Il prezzo del petrolio ne ha subito risentito, con un forte balzo verso l’alto. Si incominciano cioè a vedere le risposte del sistema economico internazionale all’attivismo unilaterale americano, quando questo si traduce non solo in parole, ma in fatti: un esempio dei più generali problemi che si pongono in un mondo in cui la concentrazione della potenza militare non coincide con la distribuzione della potenza e degli interessi economici. Una controprova di questo meccanismo si è avuta tre mesi dopo, al momento di decidere il livello delle esportazioni russe per il terzo trimestre del 2002. La decisione di Mosca è intervenuta però dopo il viaggio di Berlusconi in Russia e la partecipazione alla riunione di Reijkiavik, e nell’imminenza del Summit NATO di Pratica di Mare (maggio 2002). E, guarda caso, stavolta la Russia, abbandonando la solidarietà tra i produttori di petrolio, ha annunciato la fine dei tagli all’estrazione di greggio.

Ogni riduzione della produzione degli esportatori non Opec - come esplicitamente dichiarato da Messico e Norvegia, cioè gli altri importanti esportatori non OPEC - dipende dalla decisione di analoghi tagli da parte del governo russo. Nell’attuale struttura dell’economia russa, il governo è però talora più debole degli “oligarchi” che si sono impadroniti delle risorse energetiche delle ex URSS. Per gestire una politica energetica pubblica, lo Stato russo ha dovuto perciò ristabilire il proprio controllo sulle società petrolifere, in modo tale che la vicenda dell’OPEC, e la possibilità di continuare a gestire il prezzo del petrolio è venuta ad invertire, in una certa misura, il processo di privatizzazione, ed a confondersi con le lotte interne alla Russia, e con il tentativo di Putin di ridare potere allo Stato e di limitare quello di soggetti economico-politici che ormai giocano soprattutto in una logica multinazionale ed hanno potenti amici in Occidente.

Se i Russi, e con loro gli altri produttori non OPEC, decidessero di non seguire più in avvenire la linea del sostegno ai prezzi decisa dal cartello, i paesi industrializzati, e in primo luogo gli USA, sarebbero naturalmente assai in debito nei confronti di Mosca, perché i bassi prezzi dell’energia sono stati l’unico aspetto positivo della cattiva situazione congiunturale che ha caratterizzato tutto il 2001, ed un loro aumento allontanerebbe le speranze di ripresa. La tentazione di una politica petrolifera che trasformi la Russia in un fornitore in grado di controbilanciare i Paesi islamici, ed avvicini ancora di più le due ex potenze rivali, è quindi assai forte sia a Mosca che a Washington, e può essere danneggiata solo da un eccessivo dinamismo unilaterale degli USA che spinga il Cremlino a decidere secondo una logica diversa, puramente economica.

I paesi più danneggiati da un tale sviluppo sarebbero naturalmente i membri dell’OPEC, ed in primo luogo l’Arabia Saudita. Non che la Russia possa davvero sostituire il Regno wahabita come protagonista del mercato petrolifero mondiale. Le riserve di idrocarburi recuperabili nell’immenso territorio dell’ex-Unione Sovietica sono infatti incomparabilmente più ridotte di quelle del Golfo Persico, che rimane perciò – nel lungo periodo – la cassaforte energetica del pianeta. E a ciò si aggiunge, nell’immediato, tutta una serie di ostacoli obiettivi – in particolare impianti tecnicamente obsoleti e molto malandati – ad un forte aumento dell’export russo di petrolio. Ma nel medio periodo, se ben giocate politicamente, le carte energetiche della Russia possono rivelarsi decisive, e per i prossimi cinque o dieci anni – un tempo lunghissimo nel gioco internazionale della potenza – potrebbero bastare a sottrarre all’OPEC la sua centralità e gran parte del potere che tuttora essa detiene sul mercato internazionale degli idrocarburi.

Riad e gli altri membri del cartello potrebbero però a loro volta contrattaccare, ma in maniera assai diversa da quella fino ad ora seguita e che è consistita nel tagliare collettivamente la produzione per spingere in alto i prezzi. Oltre ad essere poco incisiva, come abbiamo già visto, questa strategia renderebbe necessario un accordo che non c’è tra produttori (perché hanno interessi diversi), ed una fortissima disciplina. L’Arabia Saudita poi, non può ulteriormente tagliare la propria produzione per motivi tecnici dato che i quantitativi di petrolio e quelli di gas estratti dai pozzi sono abbastanza vincolati e sul gas è fondata non solo tutta la produzione di energia elettrica dell’Arabia Saudita, ma anche la desalinizzazione dell’acqua che consente al paese di vivere.

Riad dovrebbe perciò trovare una strategia di reazione completamente diversa, e, nell’immediato, potrebbero farlo in una maniera che sarebbe ben accetta ai consumatori occidentali, ma devastante per la Russia. Con un aumento di produzione i Sauditi potrebbero infatti far cadere i prezzi, e tenerli tanto a lungo al di sotto del costo di estrazione del petrolio russo (che è di poco meno di 10 dollari il barile, contro circa 2 nel Golfo persico) da spezzare il fragile benessere di cui la Russia ha goduto negli ultimi tempi, e che Putin ha saputo tanto abilmente sfruttare sia per mantenere quel minimo di consenso interno di cui non può fare a meno, sia per giocare le proprie carte sullo scacchiere centro-asiatico. Una riflessione approfondita, sotto il profilo dell’interesse europeo, di queste delicate questioni è sinora mancata. Svolgerla sarà una delle funzioni che l’Osservatorio sulle Politiche dell’Energia assegna se stesso. Ma è di immediata intuizione che, così come l’autarchia energetica del Nuovo Mondo è da considerare come una strategia a noi estranea – di cui vanno però prese in attenta considerazione le conseguenze –, l’Europa mantiene un forte interesse ad un funzionamento dei mercati mondiali dell’energia che non venga distorto da fattori strategici o da obiettivi di potenza.

Proprio per la chiara sproporzione tra la sua rilevanza economica mondiale, e il “posto all’ombra” che inevitabilmente le tocca nell’attuale contesto politico internazionale, l’Europa non può disinteressarsi né ai destini dei paesi produttori di petrolio del Medio Oriente (a ancor meno impegnarsi in strategie ad essi ostili), né vedere il suo grande vicino del’est, la Russia, trattato più come una pedina che come un attore importante sullo scacchiere internazionale. Certo, la Russia non è più la superpotenza imperiale che essa un tempo è stata, ma rimane una importante potenza europea, ed un partner che peserà nel processo di rinnovamento e di unità del Vecchio Continente.

24 maggio 2002

gsacco@luiss.it

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