Solidarietà o statalismo?
di Antonio Martino
Queste pagine, frutto di riflessioni sviluppatesi negli anni,
erano state scritte come contributo alla campagna elettorale per
le elezioni politiche del 13 maggio dello scorso anno. Si
proponevano di illustrare la natura dei problemi che affliggono
l’assistenzialismo di Stato non solo in Italia, in vista delle
riforme che proponevamo in vista della nostra possibile vittoria
elettorale. Com’è ovvio, data la sua origine e il suo obiettivo,
l’analisi è presentata in forma semplificata, nell’intento di
richiamare l’attenzione su quelli che considero gli aspetti più
rilevanti degli errori del nostro welfare. Ma il tono non tragga
in inganno: non si tratta di un divertissement intellettuale.
Pubblicarle oggi, quando ci troviamo a dovere dare esecuzione ad
un preciso mandato popolare, può servire a ricordarci la gravità
del nostro impegno e le aspettative di cambiamento che la nostra
battaglia politica ha determinato. Com’è ovvio, non riusciremo a
risolvere in tempi brevi tutti i problemi del welfare – sono
ancora insoluti in tutto o in parte in quasi tutti i paesi
occidentali – ma può essere utile ricordare a noi stessi qual è la
direzione verso cui gli italiani ci chiedono di muovere. Anche se
riusciremo a realizzare solo un cambiamento parziale in questa
direzione, si tratterà comunque di un’autentica rivoluzione.
Per troppi anni “solidarietà” è stato uno di quei termini usati
con grande frequenza, specie dai politici, perché “suonava bene”,
aveva un connotato positivo, ma che non veniva quasi mai definito.
C’era soltanto la vaga presunzione che essere solidali
significasse prelevare quattrini ad alcuni cittadini (i
contribuenti) per destinarli ad altri cittadini, beneficiari di
quest’atto di solidarietà. Avendo assunto il termine un connotato
positivo, c’è stata negli ultimi decenni una nobile gara fra i
politici ad accrescere le spese destinate alla solidarietà, ad
allargare le dimensioni dello Stato sociale. Questa estensione è
stata particolarmente cara alle sinistre, che non hanno mai voluto
essere seconde a nessuno in fatto di generosità a spese dei
contribuenti. E alla fine ha prevalso l’assunto per cui un paese
sarebbe stato tanto più solidale quanto maggiore fosse il livello
di spesa pubblica da dedicare allo scopo. La conseguenza di questa
idea è che un paese sarebbe tanto più solidale quanto maggiore è
il numero delle persone che dipendono dalla carità pubblica per
andare avanti. In quest’ottica, il massimo della solidarietà
sarebbe la situazione in cui tutti dipendono dalla carità pubblica
per sopravvivere.
Noi siamo, invece, convinti che un paese è tanto più efficace e
solidale quanto maggiore è il numero di cittadini indipendenti,
che riescono ad andare avanti senza doversi affidare alla carità
pubblica, e che il massimo di solidarietà si abbia, in realtà,
quando nessuno dipende dalle elargizioni pubbliche. Accettando
questa seconda impostazione, si perviene all’ovvia conclusione che
1) un paese è tanto più solidale quanto maggiore è il numero di
persone che riesce a trovare un lavoro dignitoso che gli consente
di essere autosufficiente e, 2) che un sistema assistenziale che,
in nome della solidarietà, distrugge posti di lavoro, lungi
dall’essere solidale, è in realtà nemico della solidarietà “vera”.
Quello che ha prevalso in Italia negli ultimi decenni è stato,
appunto, un assistenzialismo di questo tipo, perché le imposte
necessarie a finanziare l’assistenzialismo di Stato hanno gravato
sulla busta paga dei lavoratori configurando un’autentica imposta
sull’impiego. La differenza fra il costo del lavoro (quanto il
datore di lavoro spende) e la remunerazione netta (quanto il
lavoratore incassa) – il cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo”
– è arrivato ad aggirarsi sul 50 per cento del totale. Questo
significa che per ogni milione di remunerazione netta al
lavoratore, il datore è stato costretto a pagare anche una
“penale” di un milione allo Stato. È come se lo Stato avesse detto
ai datori: «assumete pure, se volete, ma se vi permetterete di
farlo, per ogni milione versato al lavoratore dovrete pagare una
multa di un milione».
Le conseguenze di questa insensata punizione inflitta
all’occupazione sono state devastanti: un tasso di disoccupazione
a livelli elevatissimi, un tasso di occupazione fra i più bassi al
mondo, una percentuale di disoccupazione “cronica” sul totale
inaccettabile (il 70 per cento contro l’11 per cento degli Usa e
il 15 per cento del Giappone). Il risultato è stato che la
“solidarietà” all’italiana ha avuto come ovvia conseguenza il
fatto di avere creato un esercito di persone destinate a dipendere
stabilmente dalla carità pubblica perché il costo di questa si è
tradotta nella drastica diminuzione di opportunità di impiego
produttivo. Il welfare italiano è stato quindi fino ad ora la
causa del problema che avrebbe dovuto risolvere. Non sarebbe male,
quindi, ripensare a fondo l’intera questione.
L’incertezza ed il rischio sono caratteristiche ineliminabili
della nostra vita: qualsiasi attività comporta assunzione di
rischi. Quando attraversiamo la strada mettiamo inconsapevolmente
a confronto la probabilità di essere travolti da un’automobile con
l’importanza che attribuiamo al fatto di passare dall’altro lato
della strada. Se decidiamo di attraversare è perché riteniamo la
seconda considerazione più importante della prima. Tuttavia, com’è
ovvio, la maggior parte di noi preferirebbe ridurre al minimo o
eliminare del tutto il rischio dalla propria vita. Anche se si
tratta di un auspicio irrealizzabile, gran parte delle decisioni
di politica economica è ispirata proprio da quell’obiettivo.
L’avversione al rischio sono forse determinati dall’ansia, dalla
paura che la mancanza di certezze provoca in noi. Nell’osservare
l’organizzazione della società, ci spaventa e rattrista il destino
di quanti, senza loro colpa, vengono a trovarsi in condizioni di
vita che riteniamo inaccettabili. Non ci sembra “giusto” che ci
siano nostri concittadini ammalati privi di assistenza medica
adeguata, poveri che non riescono a soddisfare neanche bisogni che
ci appaiono elementari, giovani che non riescono a trovare lavoro,
anziani privi di mezzi di sussistenza. Si sono trovati in quelle
condizioni perché nel gioco della vita hanno estratto a sorte “una
carta bassa”, il rischio ha giocato a loro danno. E se la stessa
sorte fosse toccata a noi o ai nostri cari?
Non ci rassicura molto la constatazione che la probabilità di un
esito tanto triste sia bassa, nè che essa possa essere
ulteriormente ridotta grazie al nostro impegno: la situazione è
comunque inaccettabile, dobbiamo fare di tutto per eliminarla.
Questo sentimento diffuso e nobile ci spinge in molti casi ad
adoperarci in prima persona per alleviare le disgrazie dei nostri
simili attraverso attività caritatevoli. Ma anche questo “rimedio”
volontario, privato e diretto non appare sufficiente; nasce così
la richiesta di intervento pubblico, in assenza del quale si
ritiene che l’ammontare di mezzi volontariamente destinati allo
scopo si rivelerebbe inadeguato per la soluzione dei problemi. In
altri termini, riteniamo necessario che lo Stato faccia ricorso
alla coercizione per costringere la collettività a dare a scopi di
assistenza più di quanto darebbe spontaneamente. È questa l’idea
di base del welfare state. Le origini sono controverse: la tesi
sostenuta da diversi studiosi, secondo cui l’inventore
dell’assistenzialismo di Stato nella sua forma moderna sarebbe
stato Bismarck, che lo avrebbe introdotto (1881) per far perdere
terreno all’opposizione socialdemocratica, non è accettata da
tutti. Ma, anche se si preferisce credere che il welfare state
abbia avuto origini nobili, che sia nato cioè per la sincera
preoccupazione di venire incontro alle esigenze dei nostri
concittadini meno fortunati, il giudizio difficilmente potrebbe
essere oggi positivo.
Questo non perché la desiderabilità degli obiettivi dichiarati
dell’assistenzialismo sia venuta meno, ché anzi essa è ormai
generalmente riconosciuta, ma perché lo strumento si è rivelato
inadeguato allo scopo. Mentre il costo dei programmi di assistenza
pubblica, infatti, ha ormai raggiunto livelli astronomici,
compromettendo in molti casi la solvibilità dello Stato sociale, i
risultati sono stati assai deludenti: l’assistenzialismo di Stato
si è rivelato un pessimo affare, specie per coloro che si
riprometteva di aiutare: i poveri e i deboli, proprio quelli che
avrebbe dovuto liberare dalla paura. Il lettore, comunque, farà
bene a non dimenticare che quanto vale per l’Italia vale anche,
sia pure in misura diversa, per altri paesi: lo Stato
assistenziale è ovunque sotto accusa, sia per il costo eccessivo
che per i risultati ritenuti insoddisfacenti.
Il costo dell’assistenzialismo
Per avere un’idea delle dimensioni assolute e della crescita nel
tempo dell’assistenzialismo di Stato, può essere utile guardare
alla spesa per prestazioni sociali e alla sua evoluzione. Secondo
i dati ufficiali, dal 1974 al ’99 la spesa per prestazioni sociali
è aumentata di oltre ventiquattro volte in termini nominali,
passando dal dodici per cento a oltre il diciassette per cento del
Pil. In termini reali, tenendo conto cioè dell’inflazione,
l’incremento è stato del 174 per cento; in tutti questi anni,
oltre un terzo delle spese totali del settore pubblico è stato
destinato appunto a questo scopo. Anche se altre categorie di
spesa sono cresciute più rapidamente della spesa per prestazioni
sociali, non c’è dubbio che la crescita di questa spesa
costituisca una delle ragioni principali dell’iperfiscalità e
della conseguente disoccupazione, per non parlare della protesta
fiscale. Tanto per darne una illustrazione, nel ’99 la spesa per
prestazioni sociali è stata il cinquantasette per cento del
gettito combinato delle imposte dirette ed indirette!
E ancora: la crescita della spesa “sociale” è stata in passato
largamente responsabile del dissesto finanziario dello Stato: se
l’incidenza della spesa “sociale” sul prodotto interno lordo fosse
rimasta costante dal 1974 al 1991, nel 1991 il deficit pubblico
sarebbe stato inferiore alla metù del suo valore: 68.076 miliardi
anziché 151.242, il 4,77 per cento del Pil anziché il 10,6 per
cento. Sarebbe stata sufficiente una modesta misura di
contenimento della crescita della spesa sociale (non una riduzione
del suo valore assoluto) per dare un significativo contributo al
risanamento della finanza pubblica. Lo Stato assistenziale,
quindi, è arrivato a costare troppo. Tuttavia, se a fronte del
costo ingente dell’assistenzialismo di Stato si avessero risultati
incontestabili in termini di socialità, la difesa di questo tipo
di intervento sarebbe ancora possibile. Le cose, sfortunatamente
per i superstiti sostenitori del welfare state, non stanno in
questi termini.
Per quanto possa apparire incredibile a chi abbia riflettuto anche
solo per un istante sulla realtà della fornitura pubblica di
servizi e sul loro costo, c’è ancora chi si dice convinto della
natura “sociale” della spesa pubblica. Per difendere
l’assistenzialismo di Stato, secondo taluno, basterebbe il
richiamo all’articolo 2 della Costituzione, dove si accenna ai
«doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale». La tesi è che le spese assistenziali soddisfano nobili
esigenze di “socialità”. Evidentemente, qualcuno crede che
l’assistenzialismo sia “sociale”, serva cioè gli interessi dei
poveri. Sarà quindi meglio chiarire questo punto. Anzitutto, è
perlomeno dubbio che la spesa per prestazioni sociali sia
effettivamente motivata dal desiderio di migliorare le condizioni
dei meno abbienti. Infatti, alla domanda: «chi ha più bisogno di
assistenza, i ricchi o i poveri?» credo che tutti risponderebbero
che sono i poveri ad avere più bisogno di aiuto. Ma, se sono i
poveri ad avere più bisogno di aiuto, perché l’assistenzialismo di
Stato è aumentato al diminuire della povertà? Oggi il reddito
reale è enormemente più alto e più uniformemente distribuito che
in passato, eppure, come detto sopra, le spese per lo Stato
assistenziale non hanno smesso di crescere al crescere del
reddito. Sembrerebbe proprio che l’assistenzialismo pubblico tanto
caro alle sinistre non abbia avuto come fine quello di ridurre la
povertà.
Non basta. L’assistenzialismo di Stato di derivazione bismarckiana
è basato su una concezione paternalistica della povertà: lo Stato
individua alcuni bisogni ritenuti “essenziali” e si assume l’onere
di fornire, spesso in condizioni di monopolio, i relativi servizi
all’intera collettività. Indipendentemente da tante altre
possibili considerazioni, questo modo di affrontare il problema
della povertà è inefficiente, perché la ridistribuzione in natura,
dal momento che viola la libertà di scelta dei beneficiari,
ottiene, a parità di costo, un risultato inferiore dal punto di
vista del benessere di questi ultimi; o anche, se si optasse per
la ridistribuzione in moneta, si potrebbe conseguire un risultato
uguale a quello attuale con un esborso complessivamente minore. Se
a questo si aggiunge che il costo dell’assistenzialismo di Stato
grava su tutti, anche sui poveri, mentre i benefici vanno spesso a
tutti, anche a coloro che non sono poveri, ci si può rendere conto
del fatto che la “socialità” dello Stato assistenziale è perlomeno
dubbia, data la presenza di elementi regressivi di
ridistribuzione.
E ancora: dato che i servizi resi sono spesso assai
insoddisfacenti, il bismarckismo nostrano, introdotto da forze
politiche di centro-sinistra con il pretesto di garantire
“uguaglianza di accesso” a servizi pubblici essenziali, finisce
col realizzare una “ineguaglianza di uscita” dall’inefficienza
pubblica. In genere, solo i benestanti possono, infatti,
permettersi di pagare due volte gli stessi servizi, optando per la
fornitura privata. Inoltre, occorre tenere presente una lezione
ormai acquisita: lo Stato assistenziale costa enormemente più di
quanto rende, il che è ovvio sol che si ponga mente alle modalità
del suo funzionamento. Lo Stato, infatti, grava la collettività di
costi per poter distribuire benefici, sotto forma di “servizi
sociali”. Tuttavia, dal momento che il trasferimento ha un suo
costo, quello che la collettività riceve dallo Stato è sempre meno
di quello che la collettività deve pagare. Dal momento che è
presumibile che i “costi di trasferimento” siano crescenti al
crescere delle dimensioni dei programmi, la differenza fra costo
dell’assistenzialismo e benefici da esso resi aumenta al crescere
della “socialità”. In altri termini, dove vige l’assistenzialismo
una gran parte delle somme va, in vario modo, dispersa nei canali
burocratici, rappresentando una perdita netta per il Paese (ma non
per politici e burocrati) e non raggiungendo mai i beneficiari
dichiarati.
Ci limitiamo a un’illustrazione approssimativa ma importante e
relativa alla prassi dell’ultimo governo di centro-sinistra: se i
370.367 miliardi di spesa per “prestazioni sociali” nel 1999
fossero stati distribuiti al 25 per cento più povero dell’intera
popolazione (supponendo per assurdo che un italiano su quattro sia
povero), avrebbero trasformato l’Italia in un paese di soli
benestanti, consentendo di elargire un reddito aggiuntivo di quasi
26 milioni (25.955.000) all’anno ad ognuno dei 14.269.500 italiani
“poveri”: quasi 104 milioni (103.820.000) per ogni famiglia di
quattro persone. Anche se si tratta di un calcolo
sovrasemplificato, non c’è dubbio che esso illustra una
considerazione importante: se le risorse per anni destinate
all’assistenzialismo di Stato fossero state impiegate
effettivamente ed efficacemente per venire incontro ai bisogni dei
nostri concittadini meno fortunati, la povertà sarebbe oggi
scomparsa. Il fatto che la povertà non sia ancora scomparsa, nel
momento in cui illustra l’inefficienza dei programmi delle
sinistre, fa sorgere il dubbio che, in realtà, scopo vero
dell’assistenzialismo non fosse il benessere dei beneficiari. Del
resto, se scopo dell’assistenzialismo fosse quello di migliorare
le condizioni dei beneficiari dichiarati, si sarebbe ricorsi alla
ridistribuzione in moneta come al metodo più efficace.
E ancora: se l’assistenzialismo pubblico avesse avuto come scopo
quello di aiutare chi ne ha bisogno, lo Stato assistenziale
avrebbe dovuto adottare un criterio selettivo (dare solo a chi si
trova, per esempio, in condizioni di provata indigenza) non
universale. Così facendo, infatti, la riduzione del numero dei
beneficiari avrebbe consentito di massimizzare le dimensioni
dell’aiuto agli effettivamente bisognosi. Il criterio di
elargizione universale, invece, si è sostanziato nel conferimento
di benefici a tutti, anche ai ricchi, nel momento stesso in cui il
costo dell’assistenzialismo è pesantemente gravato su tutti, anche
sui poveri. È come se lo Stato avesse preso ai poveri per dare ai
ricchi con una ridistribuzione regressiva; in ogni caso non
sarebbe stato l’aiuto a chi ne ha bisogno a motivare
l’assistenzialismo universale.
Il punto fondamentale da tenere presente per capire la natura
dell'assistenzialismo di Stato è che esso è servito agli interessi
di burocrati e di politici legati all' "industria dell'assistenza"
molto più di quanto non agli interessi dei poveri. Questo spiega
perché si sia avuta crescita della spesa pubblica "sociale" al
crescere del reddito. Prendiamo il caso dell'assistenza sanitaria
pubblica.
Com'è noto, il servizio sanitario nazionale storicamente è stato
introdotto col nobile proposito di garantire a tutti, anche ai
meno abbienti, un'assistenza adeguata. Questo scopo non è però
stato realizzato: anche se non si condivide l'opinione espressa da
diversi organi di stampa, secondo cui il sistema delle Asl (ex-Usl)
costituisce "lo scandalo del secolo", non c'è dubbio che il fatto
che circa la metà degli aventi diritto all'assistenza pubblica
abbia comunque fatto ricorso a cure private fornisce una misura
del fallimento dell'operazione.
I più penalizzati dal sistema assistenziale sono stati proprio i
meno abbienti, che ne hanno dovuto sopportare una parte del costo
senza potersi permettere di rivolgersi ad alternative private
all'inefficienza pubblica. Solo i benestanti, infatti, hanno
sempre potuto disporre dei mezzi per pagare due volte l'assistenza
sanitaria: una volta con le imposte ed una seconda volta con il
costo delle prestazioni private o dell'assicurazione. Infine, il
finanziamento del servizio sanitario ha provocato negli anni il
risentimento dei contribuenti. Per rendersi conto delle dimensioni
della ridistribuzione non necessariamente progressiva che il
servizio sanitario nazionale ha comportato, invito il lettore a
immaginare uno scenario alternativo rispetto al passato prossimo
assistenzialista. Nell'analizzare il problema è bene tenere
distinti due aspetti diversi: il finanziamento del servizio, che
deve essere tale da garantire l'accesso anche ai meno abbienti, e
la sua fornitura, che deve essere quanto più efficiente possibile.
Cominciando col finanziamento, teniamo presente che l'assistenza
sanitaria pubblica non è mai stata "gratis", costando come
qualsiasi altro servizio. Il costo del servizio sanitario pubblico
ha raggiunto negli anni un livello di spesa annua superiore ai 130
mila miliardi. Una cifra non disprezzabile: circa 2.300.000 lire a
testa per ogni italiano, ricco o povero, giovane o vecchio,
pensionato o disoccupato, ecc. Se si fosse ottenuto un
dimezzamento di tale spesa, bloccandola a un valore massimo di 65
mila miliardi, si sarebbero "restituiti" gli altri 65 mila
miliardi ai contribuenti: ogni cittadino italiano avrebbe ricevuto
così un assegno di 1.150.000 lire, libero di spenderle come meglio
credeva. Oppure, si sarebbe potuto usare quel risparmio per
realizzare - già da anni - una riforma fiscale che avrebbe fatto
apparire moderata quella attuata da Reagan: quella cifra è infatti
superiore al 20 per cento dell'intero gettito delle imposte
dirette. (Tante altre cose si potevano realizzare con 65 mila
miliardi: si poteva, per esempio, costruire ogni anno 325.000
alloggi da 200 milioni l'uno, ospitando così un'intera città di
oltre un milione di abitanti!).
I restanti 65 mila miliardi di spesa sanitaria avrebbero potuto
essere devoluti al 20 per cento più povero della popolazione
italiana per garantire anche ai poveri l'accesso all'assistenza,
attraverso l'acquisto di un'assicurazione sanitaria privata che
avrebbe garantito la copertura di ogni tipo di spese mediche. La
cifra sarebbe stata, infatti, ampiamente adeguata, consentendo di
elargire ad ognuno degli 11.400.000 italiani "poveri" un assegno
di 5.700.000 lire, ben 22.800.000 lire per la famiglia media di
quattro persone. Con quella cifra i nostri "poveri" avrebbero
potuto dotarsi di assicurazioni sanitarie onnicomprensive,
adeguate a coprire qualsiasi spesa sanitaria e garantire quanto il
servizio sanitario nazionale si è guardato bene dall'offrire negli
ultimi decenni: un'assistenza medica di buon livello per tutti. Si
sarebbe potuto, poi, obbligare l'altro 80 per cento della
popolazione a stipulare un'assicurazione sanitaria con
caratteristiche di copertura fissate per legge, pagandola di tasca
propria (non dimentichiamo che tutti gli italiani riceverebbero,
in qualche forma, quella famosa restituzione di 1.150.000 lire a
testa, 4.600.000 lire per la famiglia media di quattro persone).
Un finanziamento di questo genere sarebbe convenuto a tutti: ai
poveri, che sarebbero stati dotati di una copertura assicurativa
adeguata tale da garantire loro libertà di scelta nel campo
dell'assistenza sanitaria; ai non poveri cui lo smantellamento del
servizio sanitario nazionale avrebbe consentito di "restituire"
reddito attraverso una autentica riforma fiscale e che sarebbero
stati liberati dalla necessità di pagare due volte l'assistenza
sanitaria.
Quanto all'efficienza, è evidente che i problemi sanitari sono
stati per un lungo periodo la conseguenza del fatto che i
fornitori del servizio hanno operato in condizioni di
irresponsabilità senza essere sottoposti alle regole della
concorrenza e non rispettando il vincolo del bilancio. Se avessero
dovuto finanziarsi sul mercato, coprendo i costi con gli incassi
per le prestazioni fornite, avrebbero avuto un incentivo poderoso
ad essere efficienti, correndo il rischio di perdere clienti a
favore dei loro concorrenti. Disponendo, invece, di un
finanziamento "a piè di lista", non hanno di fatto avuto nessuna
ragione per migliorare la qualità delle loro prestazioni.
Immaginate cosa fosse accaduto se il reddito del salumaio fosse
stato fissato dallo Stato e se fossimo stati costretti ad
effettuare tutti i nostri acquisti esclusivamente da lui, senza
possibili alternative.
Per ciò che riguarda la fornitura, quindi, sarebbe stato opportuno
privatizzarla del tutto e costringere gli operatori a rispettare
il vincolo del bilancio, finanziandosi esclusivamente con gli
incassi connessi alla fornitura del servizio. Se questo progetto
si fosse realizzato, tutti gli italiani avrebbero già goduto di
un'assistenza sanitaria davvero adeguata, cosa che oggi la nostra
spesa sanitaria non può fornire.
In realtà, il vantaggio non riguarderebbe proprio tutti, ed è per
questa ragione che quel progetto è stato di difficile
realizzazione. In un sistema come quello delineato, l'offerta di
servizi sanitari diverrebbe competitiva; le istituzioni relative
(ospedali, cliniche, laboratori di analisi, ecc.) verrebbero
disciplinate dalla concorrenza e dovrebbero far quadrare i
bilanci. I medici e tutti gli operatori sanitari capaci
guadagnerebbero forse più di adesso, i pigri e gli incapaci
dovrebbero modificare le proprie abitudini o cambiare mestiere.
Non ci sarebbe più burocrazia sanitaria e gli attuali burocrati
dovrebbero trovare lavoro altrove; nè ci sarebbero più prebende
per i politici della sanità, che si vedrebbero costretti a farne a
meno. Le frodi si ridurrebbero drasticamente (le compagnie di
assicurazione avrebbero interesse a vigilare per impedirle) e
quanti per anni si sono "guadagnati da vivere" truffando l'erario
nel settore della sanità sarebbero stati costretti a darsi ad
attività socialmente meno dannose.
Questo esercito di politicanti, burocrati inutili, operatori
sanitari pigri o incompetenti, e profittatori ha goduto di una
percezione corretta del proprio interesse: sapendo che la
trasformazione dell'assistenza sanitaria nel senso delineato, se
avrebbe giocato alla collettività, avrebbe comunque danneggiato il
loro interesse privato. Si trattava, del resto, di una lobby
potentissima, che difficilmente avrebbe reso possibile una seria
riforma del settore. In questa chiave risulta evidente che i
famosi 130 mila miliardi non erano affatto destinati
all'assistenza sanitaria della collettività, ma avevano invece
come scopo principale l' "assistenza" di politici e burocrati che
hanno vissuto a spese della sanità pubblica.
Le pensioni
Se è quindi ormai necessario e improrogabile che tutto
l'assistenzialismo italiano vada al più presto riformato, è
altrettanto vero che alcune riforme sono più urgenti di altre. E
la più urgente di queste riforme è senz'altro quella che ci viene
da anni inutilmente chiesta da tutti gli esperti del settore,
oltre che da organismi indipendenti, come il Fondo monetario, l'Ocse,
l'Ue, Bankitalia, ecc.: quella delle pensioni. Per quanto
riguarda, infatti, la sostenibilità del nostro sistema
pensionistico pubblico nella sua forma attuale - ferma restando
una fisiologica, anche se in verità assai contenuta, discordanza
di pareri - sembra ormai esserci un consenso assai diffuso: a meno
di dar vita a riforme radicali, quel sistema non è davvero più
sostenibile.
In aggiunta alla dubbia sostenibilità del sistema sociale
assistenziale, va detto che, prescindendo dagli aspetti
ridistributivi (per molti fortunati, la sua "generosità" è stata
per anni un'autentica manna dal cielo), il sistema a ripartizione
non costituisce affatto un buon affare: se gli interessati
avessero potuto impiegare liberamente le somme che sono ancora
costretti a versare al sistema pensionistico pubblico, avrebbero
ottenuto tassi di rendimento marcatamente maggiori. Secondo alcune
stime, il rendimento dell'impiego in azioni ed obbligazioni
sarebbe in media superiore di circa due volte e mezzo a quello del
sistema pubblico a ripartizione. E non mancano stime che
suggeriscono una differenza ancora più marcata. Per esempio, fino
al 1983 negli Stati Uniti era possibile uscire dal sistema
pensionistico pubblico (Social Security) ed optare per un fondo
pensione privato. Uno studio relativo a circa un milione di
lavoratori che hanno esercitato quella opzione8 mostra come i
lavoratori che hanno optato per il sistema privato godono di
pensioni da tre a sette volte maggiori di quelle dei pensionati
della Social Security.
Tutti questi dati non lasciano adito a dubbi: è innegabile che
l'impiego sul mercato del risparmio previdenziale è la via per
consentire di elargire pensioni molto più generose, a parità di
contributi, e di ridurre sensibilmente i contributi, a parità di
pensione. Per esempio, Jeremy Siegel della Wharton School10 ha
calcolato che fra il 1802 ed il 1992 l'investimento in Borsa negli
Stati Uniti ha fruttato un rendimento medio annuo reale (al netto
cioè dell'inflazione) del 7 per cento. E, com'è ovvio, questo
esclude gli anni più recenti, quando i rendimenti si sono rivelati
nettamente maggiori della media storica. A parità di benefici,
quindi, il costo del finanziamento verrebbe ad essere
sensibilmente minore: in base ad una ipotesi, la differenza
potrebbe rappresentare quasi i 2/3 dei contributi attuali. I
vantaggi del passaggio dal sistema pubblico a ripartizione ad uno
"privato" a capitalizzazione sarebbero enormi: aumenterebbe il
reddito disponibile, si ridurrebbero le aliquote marginali di
imposta, causa di notevoli effetti distorsivi, e diminuirebbe
l'imposta sull'occupazione responsabile principale dell'attuale
intollerabile tasso di disoccupazione. Infine, si potenzierebbe il
mercato finanziario con vantaggi notevoli per l'intera economia
nazionale. Secondo l'economista di Harvard Martin Feldstein,
"nessun paese sarebbe avvantaggiato più dell'Italia (dal passaggio
ad un sistema prevalentemente a capitalizzazione)".
L'assistenzialismo indiretto
Com'è noto una delle paure più diffuse in economia è quella
connessa all'occupazione, sia quella determinata dal timore di non
riuscire ad entrare nel mondo del lavoro sia quella relativa alla
stabilita dell'impiego. Questo induce a prendere in considerazione
in questo contesto l'intervento pubblico diretto in economia,
anche se non si tratta esplicitamente di un aspetto del "welfare
state". All'apparenza sembrerebbe, infatti, trattarsi di
assistenzialismo, di intervento cioè volto a ridurre incertezza e
paura, a vantaggio dei meno abbienti. Un'analisi spassionata del
fenomeno conduce però alle stesse conclusioni cui siamo pervenuti
in tema di sanità. L'intervento diretto dello Stato nell'economia
è stato, nel corso degli anni, variamente giustificato. La prima,
e più popolare, giustificazione, com'è noto, è stata quella
attinente alla necessità di "sostenere" l'occupazione, di "creare"
posti di lavoro. L'idea ispiratrice è stata che, in assenza di
intervento pubblico, il mercato avrebbe determinato livelli di
occupazione complessiva inaccettabilmente bassi.
Tale tesi, molto diffusa in passato, si è rivelata
pericolosissima, proprio perché plausibile: è stato detto che le
ipotesi sono come le calunnie, sono tanto più pericolose quanto
più sono plausibili. Si tratta di un classico esempio della
differenza fra effetti visibili ed effetti invisibili delle
decisioni di politica economica. L'intervento pubblico "crea"
posti di lavoro per quanti sono assunti nell'impresa in questione;
questo è l'effetto visibile. Ma chiediamoci anche da dove sono
venuti i quattrini con cui sono stati finanziati i "lavori
socialmente utili", la creazione di imprese pubbliche o il
ripianamento delle perdite di imprese passive; com'è ovvio, dalle
tasche dei contribuenti. Questi hanno avuto, quindi, meno soldi da
spendere, e sono stati costretti a ridurre i propri consumi e
risparmi. Sia la riduzione dei consumi sia quella dei risparmi si
sono sostanzialmente tradotti in una diminuzione di fondi al
sistema produttivo, con conseguente riduzione di posti di lavoro:
questo è stato l'effetto invisibile.
Il teorema corretto è, in realtà, il seguente: se l'intervento
pubblico può "creare" direttamente o indirettamente posti di
lavoro nel settore assistito (pubblico o privato), il suo costo ne
distrugge però nel settore privato (produttivo). Certo,
fortunatamente, anche nel piano teorico le opinioni
sull'intervento pubblico e l'occupazione si sono modificate negli
ultimi tempi, soprattutto per via della rapida crescita della
fiscalità. Il "cuneo salariale" cui si accennava prima - la penale
inflitta all'occupazione dagli oneri fiscali e contributivi
destinati a finanziare il welfare - ha messo in luce i meccanismi
attraverso i quali lo statalismo ha distrutto e continua a
distruggere posti di lavoro, chiudendo di fatto le porte del mondo
del lavoro ufficiale ai giovani che tentano di entrarvi.
Purtroppo, il contrasto fra la visibilità dell'occupazione
"creata" dall'intervento pubblico e l'invisibilità
dell'occupazione da esso distrutta permane, e si traduce nel fatto
che pochi si rendono conto dei danni determinati dallo statalismo;
e ancora oggi, a sinistra, c'è che crede che esso crei
occupazione.
Una seconda argomentazione a favore dell'intervento pubblico
diretto nell'economia è stata quella che, in Italia, si potesse
promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno. Ma anche questa è oggi una
tesi alquanto desueta: dopo i risultati a dir poco deludenti (il
tasso di disoccupazione al Sud è quasi quadruplo rispetto a quello
del Centro-Nord), chi continua a sostenere l'opportunità
dell'intervento pubblico come terapia per lo sviluppo delle
regioni meridionali appare quasi provocatorio.
Come meridionale, tuttavia, non posso tacere del danno enorme e
duraturo che lo statalismo ha prodotto per decenni all'economia
meridionale, distorcendo il sistema di incentivi e rendendo più
attraente per i nostri giovani la "sistemazione" nel settore
politico-parassitario a scapito di quello produttivo. Anche se di
difficile quantificazione, si tratta di un grave colpo inferto
alle potenzialità di sviluppo del Sud. Prendiamo, per esempio, i
cosiddetti "lavori socialmente utili" che hanno avuto origine nel
Mezzogiorno (in Sicilia sono stati creati da un articolo della
finanziaria regionale, i beneficiari vengono, pertanto, chiamati
"articolisti" e sono ancora un autentico esercito) e sono stati
poi esportati anche altrove. Il giovane che per anni ha percepito
un assegno, sia pure modesto, ha in realtà subìto un danno
permanente per una serie di ragioni. L'incentivo a cercarsi
un'occupazione produttiva è stato pesantemente ridotto: se,
infatti, trovava un lavoro perdeva l'assegno per il "lavoro
socialmente utile", ed è dubbio che, al netto di quello che
avrebbe perduto, il compenso per il primo lavoro giustificasse la
fatica di cercarlo.
In secondo luogo, l'interessato veniva convinto dalla
corresponsione dell'assegno che la sua occupazione era un problema
per lo Stato, per i politici, non certo per lui. E ancora, mentre
percepiva l'assegno, molto spesso svolgeva un altro lavoro, in
nero, guadagnando grazie alle due entrate più di quanto avrebbe
guadagnato con un lavoro ufficiale. Infine, ma si potrebbe
continuare a lungo, avendo percepito soldi dallo Stato per anni,
finiva col convincersi di avere semplicemente usufruito di un suo
diritto, di modo che finiva per pretendere (e non è detto che non
lo ottenesse) un "posto" stabile nell'amministrazione pubblica.
Aggiungendo danno al danno, il costo di questa devastante
operazione demagogica ha gravato pesantemente sui datori e sui
lavoratori del resto dell'economia, riducendo l'occupazione
produttiva. La morale è assai semplice: occupazione non significa
- come non poteva significare - percepire un reddito, significa
produrre un reddito. Perché l'occupazione possa essere stabile
deve essere produttiva. Se, col pretesto di creare occupazione,
destiniamo risorse a scopi improduttivi, impoveriamo il Paese,
sciupando risorse scarse che potrebbero essere utilizzate
proficuamente in altro modo. Non è un caso che dove l'intervento
pubblico diretto a creare occupazione è stato più largamente
usato, il Mezzogiorno, la disoccupazione è stata maggiore e lo
sviluppo economico è stato strutturalmente impedito.
Se, invece, di perseguitare ferocemente l'occupazione tassandola
in misura che non ha eguali nel mondo industriale, lo Stato avesse
consentito ai datori di assumere senza penali di sorta; se, invece
di soffocare sotto una montagna di adempimenti amministrativi le
iniziative imprenditoriali, le si fosse incoraggiate; se, ogni
qual volta si doveva dar vita ad un insediamento industriale si
fosse rinunziato a mettergli i bastoni fra le ruote in mille modi;
se, invece di punire il successo, tassandolo, e premiare i
fallimenti con le mille forme di "aiuti", si fosse consentito alle
imprese di operare in condizioni di piena responsabilità; se si
fossero fatte tutte queste cose, l'economia italiana avrebbe da
tempo creato in un batter d'occhio molte centinaia di migliaia di
nuovi posti di lavoro.
Tornando al filo principale del nostro discorso, vengo quindi a
quella che ritengo la spiegazione vera della esistenza di un toppo
largo settore pubblico in Italia. Anzitutto, una riflessione
ovvia: quello che conta veramente da un punto di vista economico
non è la titolarità dell'impresa, se pubblica o privata, ma la sua
gestione, se economica o anti-economica. Ora, se si volesse la
gestione economica di una data impresa, questa potrebbe benissimo
essere privata; se si vuole che sia pubblica, in altri termini, è
perché non si vuole che venga gestita economicamente.
È questo il fondamentale punto di partenza di qualsiasi analisi
seria delle motivazioni dell’intervento pubblico: si è voluta la
titolarità pubblica perché non si voleva la gestione economica. E
la ragione va ricercata nel fatto che la gestione anti-economica
dell’impresa significava che i fattori produttivi in essa
impiegati percepivano remunerazioni superiori al valore della
produzione complessiva. Come sostenuto da Leonard Read, quando uno
riceve un reddito che non produce, qualcun altro produce un
reddito che non riceve e non riceverà mai. La “pubblicità”
dell’impresa, in altri termini, è stato semplicemente un
espediente per ridistribuire reddito a favore dei fattori
produttivi ivi “occupati “.
I vantaggi che ognuno dei dipendenti dell’impresa pubblica passiva
ricavava dalla situazione sono stati notevoli, immediati e a lui
ben noti. I costi che tale situazione comportava per la
collettività sono stati, invece, scarsamente compresi e di lungo
respiro. Pertanto, nel contrasto fra l’interesse generale della
collettività e quello particolare dei pochi beneficiari, in Italia
per troppo tempo è stato quest’ultimo a prevalere. È stato per
questa ragione fondamentale, e non per le varie giustificazioni di
volta in volta addotte, che l’intervento pubblico si è diffuso,
che le imprese in esso operanti sono state inefficienti e che la
privatizzazione è stata così difficile da realizzare.
Vediamo di chiarire. Prendiamo come esempio un’impresa pubblica
che ha occupato 10.000 persone e realizzato perdite per, diciamo,
57 miliardi all’anno, perdite che sono state “ripianate” con una
sovvenzione pubblica. In una situazione del genere, ognuno dei
10.000 dipendenti ha ricevuto in media 5.700.000 lire all’anno di
reddito in più rispetto a quello che produceva. Se il costo di
tale operazione di “ripianamento” è stato distribuito “a pioggia”
sull’intera collettività nazionale, ognuno dei 57 milioni di
Italiani ha finito per sopportare un costo annuo di sole 1.000
lire. Ecco la prima asimmetria: ognuno dei dipendenti della
impresa pubblica passiva ha avuto molto da guadagnare da una
situazione simile (5.700.000 lire), mentre ognuno di coloro su cui
è gravato il costo ha, in realtà, sopportato una perdita
relativamente piccola (1.000 lire).
In secondo luogo, mentre è assai probabile che ognuno dei 10.000
beneficiari ha saputo esattamente quanto gli rendeva l’esistenza
della impresa pubblica, è perlomeno dubbio che lo sapessero tutti
i 57 milioni di italiani. In conseguenza di ciò, mentre coloro che
hanno finito per trarre vantaggio da questa situazione si sono
battuti fino allo stremo perché non venisse modificata, i
danneggiati non hanno fatto molto per cambiare le cose, sia perché
ognuno di essi sopportava una perdita modesta, sia perché è assai
probabile che nessuno sapesse come stavano le cose. Qualsiasi
riferimento a noti impianti siderurgici non è casuale.
Inutile aggiungere che questo tipo di situazione è stata
certamente conveniente per la classe politica, sia perché ne ha
accresciuto enormemente il potere, sia perché ne ha amplificato
l’immagine. Pensate alla enorme influenza che per anni ha
conferito ai politici la gestione di interessi colossali come
quelli del settore pubblico: la possibilità di favorire amici,
parenti e sostenitori con lucrose quanto poco impegnative
“sistemazioni”, per non parlare della inevitabile, sistematica
collusione fra interessi privati e pubblici. Ma, anche quando il
politico era certamente onesto sotto il profilo materiale e
personale, l’intervento pubblico gli offriva ugualmente qualcosa
di importante: l’immagine, la possibilità di dare l’impressione di
essere impegnato seriamente al perseguimento del bene comune, la
visibilità, che per il politico costituisse condizione essenziale
di sopravvivenza. Come diceva Napoleone, la causa vera della
rivoluzione francese fu la vanità, la libertà ne fu solo il
pretesto.
Allo stato attuale, la correzione di rotta, se le considerazioni
sin qui esposte sono vere, non poteva, non può, essere cercata,
come sosteneva la sinistra, in un management più efficiente: il
problema non è la qualità della gestione, ma l’assenza di corretti
incentivi. L’inefficienza dei paesi comunisti non era dovuta ad
incapacità di gestione: anche se l’Urss avesse avuto a
disposizione manager capaci, sarebbe stata ugualmente
spaventosamente inefficiente.
Sembra un paradosso, ma è un’ovvietà; un’economia di mercato
concorrenziale si basa infatti su un “meccanismo di filtro”: la
concorrenza spazza via le imprese inefficienti e lascia crescere
quelle più competitive. Le aziende gestite da manager incapaci non
sopravvivono, quelle guidate da gestori di successo prosperano.
Ancora più importante è il fatto che nel libero mercato a decidere
se un manager sia bravo o meno non è un organismo politico o
amministrativo (che non solo manca di criteri obiettivi di
valutazione, ma è anche sempre corruttibile), ma un meccanismo
impersonale come il mercato. Sono i clienti delle imprese ad
attribuire i “voti” nella pagella dei manager: acquistando o
rifiutandosi di acquistare il prodotto in questione determinano il
successo o il fallimento dell’impresa, la “promozione” o la
“bocciatura” del suo manager.
I manager incapaci, quindi, in un’economia libera vengono
costretti a cambiare mestiere. Possono continuare ad esistere solo
quando manca o viene reso inefficace il criterio di valutazione
del loro operato, cioè quando manca il mercato. L’esistenza di
manager capaci, quindi, è conseguenza del libero mercato e della
proprietà privata, che determinano anche l’efficienza complessiva
dell’economia. Il problema dell’efficienza, quindi, è un problema
di libertà: un’economia libera è anche efficiente, un’economia che
non è libera non può nemmeno essere efficiente11. Alla luce di
queste considerazioni, e dell’esperienza fallimentare del settore
pubblico, ci si rende conto della straordinaria validità
dell’affermazione fatta dalla signora Thatcher nel 1979, a
proposito di un Paese che si trovava allora in condizioni assai
simili a quelle dell’Italia di vent’anni dopo: «In Inghilterra
esistono due settori: il settore privato, che è controllato dallo
Stato, e quello pubblico, che non è controllato da nessuno».
Per quanto riguarda il nostro tema, l’aspetto da sottolineare è
che l’intervento pubblico in economia ha sempre rappresentato uno
strumento di ridistribuzione di reddito del tutto simile nella
sostanza, anche se non nelle motivazioni “ufficiali”, ai programmi
dello Stato assistenziale. Come questi ultimi, il suo vero scopo è
sempre stato il trasferimento di risorse dal settore produttivo
privato a quello politico-burocratico. Solo il futuro dirà se
prevarranno gli interessi della collettività alla gestione
razionale delle risorse o quelli dei gruppi di pressione volti al
mantenimento dello status quo.
Conclusione
La parabola storica dell’assistenzialismo di Stato non ci ha
comunque liberato dalla paura. Questo “fratello maggiore” che
avrebbe dovuto curarci se ammalati, provvedere alla nostra
vecchiaia, alleviare la nostra povertà, garantirci un’istruzione
qualificata, assicurarci un impiego, ha insomma miseramente
fallito i suoi obiettivi. Il timore di una vecchiaia priva di
mezzi non è stato esorcizzato dal sistema pensionistico pubblico:
anche se si prescinde dall’esiguità delle pensioni di Stato e dai
gravi dubbi sull’equità di un sistema in cui è spezzata la
relazione fra contributi pagati e pensione cui si ha diritto,
resta il fatto che il sistema pensionistico pubblico, basato sulla
ripartizione, versa in condizioni di assai dubbia solvibilità
attuariale. Il sistema a ripartizione (in inglese: pay as you go),
infatti, copre il costo della pensioni corrisposte con i
contributi pagati dai lavoratori attuali. Date le tendenze
demografiche in corso, il numero dei potenziali beneficiari va
aumentando, mentre si riduce quello di coloro su cui grava il
costo del sistema pensionistico. Nasce così la non infondata paura
che, quando sarà il momento, la pensione di Stato su cui avevamo
fatto affidamento non ci consentirà nemmeno il tenore di vita,
anche basso, che ci attendevamo. Se a questo si aggiunge che le
imposte che siamo costretti a pagare per coprire le spese dello
Stato assistenziale riducono la possibilità di provvedere col
nostro risparmio ad assicurarci una comoda vecchiaia, si
comprenderà come non sia infondata la tesi secondo cui
l’assistenzialismo di Stato ha accresciuto, non ridotto, la paura
della vecchiaia.
Allo stesso modo, la paura delle malattie non è stata ridotta dal
servizio sanitario nazionale: il crescente ricorso ad
assicurazioni sanitarie private e l’elevata percentuale degli
aventi diritto a cure pubbliche “gratuite” che si rivolgono a cure
private a pagamento costituiscono prova irrefutabile del
fallimento dell’assistenzialismo di Stato in campo sanitario. Alla
normale paura delle malattie si è aggiunta quella di rischiare di
finire in strutture sanitarie pubbliche, di cui le cronache hanno
fornito per anni illustrazioni terrificanti. La paura della
povertà non è stata ridotta: l’assistenzialismo pubblico non ha
eliminato la povertà anche se ha una quantità tale di risorse che
avrebbe effettivamente potuto realizzare quell’obiettivo
leggendario. In base alla definizione ufficiale di “povertà”,
negli ultimi anni il numero di poveri è aumentato, non diminuito.
La disoccupazione non ha smesso di costituire causa di paura solo
perché l’assistenzialismo alle aziende, l’intervento diretto dello
Stato in economia, si proponevava il nobile obiettivo di “tutelare
i livelli di occupazione”. Secondo i dati ufficiali, la
disoccupazione ha, anzi, raggiunto nell’ultimo decennio livelli
assai elevati, e la paura ad essa connessa è semmai stata
accresciuta dalla sistematica distruzione di opportunità di
impiego dovuta allo statalismo ed all’iperfiscalità.
In sostanza, se lo Stato assistenziale non ha ridotto le cause di
paura, ha in compenso accresciuto enormemente l’incertezza circa
il futuro. Se lo scopo reale dell’assistenzialismo di Stato fosse
stato quello di ridurre la paura, l’obiettivo non solo è stato
mancato, ma si è addirittura ottenuto il risultato opposto. Oggi
l’Italia ha l’obbligo e il mandato popolare per invertire la
rotta, per riprendere la via dello sviluppo, che avevamo
abbandonato e che costituisce l’unica speranza di risolvere i
nostri problemi. L’ultimo decennio è stato di gran lunga il
peggiore nella storia della Repubblica: dal 1951 al 1960, il
reddito reale è aumentato del 66,5 per cento; dal 1961 al 1970,
del 53 per cento; dal 1971 al 1980, del 45,75 per cento; dal 1981
al 1990, del 29,7 per cento; dal 1991 al 2000, soltanto del 12,5
per cento. Gli anni Novanta ci hanno fatto diventare un paese in
via di sottosviluppo.
Per ricominciare a crescere oggi abbiamo l’obbligo di
ridimensionare drasticamente e subito l’invadenza pubblica
anzitutto riducendo sia la spesa pubblica sia il prelievo
tributario. Uno studio12 basato su dati relativi a 23 paesi membri
dell’Ocse e 60 paesi sottosviluppati ha dimostrato, al di là di
ogni ragionevole dubbio, questa elementare verità. Le conclusioni,
per quanto ci riguarda, possono così essere sintetizzate:
a) la spesa pubblica per le funzioni fondamentali (core functions)
dello Stato stimola la crescita economica, l’aumento della spesa
oltre quel livello finisce per rallentare lo sviluppo;
b) una spesa pubblica dell’ordine del 30 per cento del Pil (come
in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta) è compatibile con tassi
di sviluppo annui pari o superiori al 5 per cento, una spesa pari
al 45 per cento del Pil o più riduce la crescita a tassi pari o
inferiori al 2 per cento (l’esperienza italiana è conforme).
Ricondurre spesa pubblica e fiscalità al loro livello fisiologico
richiede coraggiose riforme dell’assistenzialismo italiano – su
più fronti: previdenza, sanità, scuola, università, l’intero
sistema di trasferimenti – attribuendo un ruolo crescente alla
fornitura privata di questi servizi in concorrenza con quella
pubblica, in modo da renderla anzitutto più efficiente, e
consentendo inoltre una sempre maggiore libertà degli interessati
di scegliere fra fornitori alternativi.
Per troppi anni lo Stato assistenziale ci ha imposto la difesa
degli interessi dei fornitori dei servizi (burocrati, politici,
sindacalisti, insegnanti, personale sanitario, ecc.) anziché di
quelli dei destinatari (pensionati, pazienti, studenti, ecc.). Il
costo elevato ed i risultati deludenti nascevano, del resto,
proprio da questo: con un sistema monopolistico in cui i fornitori
dei servizi sono stati protetti dalla concorrenza e hanno usato
l’apparato a loro vantaggio, i destinatari non hanno avuto alcuna
voce in capitolo. Adesso, con i risultati elettorali del 13 maggio
e il programma della Casa delle libertà, è arrivato il momento per
ribaltare la situazione, separare la fornitura (che deve essere
effettuata in concorrenza fra vari soggetti) dall’accesso (che
deve essere garantito dallo Stato a quanti non se lo possono
permettere), e restituire libertà di scelta agli interessati.
Questo è possibile, attraverso il sistema dei “buoni”
(buono-scuola, buono-sanità, ecc.). Solo così riusciremo a
contemperare le esigenze di solidarietà vera con quelle
dell’efficienza, in quadro di libertà e concorrenza.
La strada è chiara: dobbiamo passare dalla falsa solidarietà
dell’assistenzialismo, col suo patrimonio di ristagno,
disoccupazione e incertezza, per non parlare degli sprechi e della
corruzione che per troppi anni hanno penalizzato l’Italia, alle
concrete opportunità che solo lo sviluppo può darci. La vera
solidarietà è quella offerta da un paese che ci affranca dalla
dipendenza dalla carità pelosa della politica, ci consente di
provvedere da noi stessi ai nostri bisogni, rende facile trovare
un’occupazione attraente, produrre un reddito adeguato ai nostri
bisogni, e soprattutto ci lascia liberi di scegliere come
utilizzare la massima parte del nostro reddito, destinandolo alle
alternative da noi preferite.
24 maggio 2002
(da
Ideazione 2-2002, marzo-aprile)
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