La lepre rossa dell’euro
di Giuseppe Pennisi
L’euro è, da qualche mese, nelle tasche di tutti gli uomini, le
donne, i giovani e gli anziani dei dodici paesi che hanno scelto
di fare parte dell’Unione monetaria europea; già da oltre tre anni
era nella contabile delle imprese e delle pubbliche
amministrazioni, all’insegna della regola “nessun obbligo, nessun
divieto”, applicata dal 4 gennaio 1999. Sta guadagnando
gradualmente terreno anche come unità di transazione per i
commerci e la finanza internazionale, specialmente nei paesi
dell’Europa centrale ed orientale, in gran parte candidati
all’adesione all’Unione europea (Ue) ed in quelli dell’Africa, del
Pacifico, dei Caraibi e della sponda inferiore del Bacino del
Mediterraneo, associati, in vario modo, all’Ue. Non sta ottenendo
maggiori spazi nell’emisfero occidentale in quanto le speranze di
diventare, accanto al dollaro, l’aggancio di molto monete
dell’America centrale e meridionale è stato messo fuori gioco
dalla crisi dell’Argentina. L’arrivo dell’euro è stato salutato
come il grimaldello che dovrebbe svegliare e ringiovanire il
vecchio continente e trasformare in lepre la “tartaruga Europa”
degli anni Novanta. In effetti, – come si è ricordato – l’euro,
come “valuta scritturale” con le stesse proprietà di unità di
conto, di transazione e di riserva delle valute cartacee e
metalliche, è in circolazione già da tre anni; fin dal dicembre
1998, i paesi dell’area dell’euro avevano una politica comune dei
tassi d’interesse e dell’offerta di moneta. Da tempo, le società
per azioni di grandi dimensioni pubblicano i loro bilanci in euro;
le azioni delle bluechips sono quotate in euro; in media, ogni tre
mesi vengono emesse obbligazioni pubbliche denominate in euro per
100 miliardi di euro, a cui si aggiungono corporate bonds per
ulteriori 65 miliardi di euro. Le gare per i telefonini della
terza generazione prevedono l’euro come unità di cambio e di
transazione. Dal dicembre 1998 al dicembre 2001, nonostante il
rallentamento (dopo otto anni di crescita rapidissima)
dell’economia Usa e la ripresa (dopo una fase di stagnazione) di
quella europea, il Pil dei paesi dell’area dell’euro è aumentato
cumulativamente un po’ meno di quello americano.
La lepre, quindi, non ha ancora cominciato a correre, forse
perché, da un lato, restano legittimi dubbi sia sulla capacità
della moneta unica di unire o, invece, sulla inevitabilità del
fatto che proprio l’euro sarà foriero di nuove divisioni,
specialmente in un’Ue più larga e più variegata sia sulla rigida
corazza che l’area dell’euro si è auto-imposta con il “patto di
crescita e di stabilità”, specialmente in un contesto di economia
internazionale asfittica. C’è, poi, un’insidia. Che si tratti di
una “lepre rossa” di quelle meccaniche che, in partite di caccia
alla volpe, finisce principalmente per distrarre dalla vera posta
in gioco; ossia che l’euro distolga l’attenzione di governi e
Parlamenti (di solito scarsa e di breve durata) dai principali
problemi dell’Europa. Ciò è particolarmente grave in paesi (come
l’Italia) le cui politiche economiche dovrebbero avere come solo
obiettivo di rendere strutture ed istituzioni più simili a quelle
dei paesi di maggior successo.
Di per se stessa, un’unione monetaria non rende dinamiche economie
mature ed a crescita lenta. Perché ciò avvenga, infatti, non basta
eliminare il rischio di cambio, ma ci vuole soprattutto maggiore
concorrenza in tutti i mercati (del lavoro, del capitale, dei
singoli comparti merceologici) ed un più forte senso di impresa e
di professione liberale. La moneta unica può, indubbiamente,
mettere meglio a nudo differenze di prezzo derivanti da
regolazioni grandi e piccole e da interventi pubblici più o meno
ben concepiti e gestiti. Tale messa a nudo può essere uno
strumento utile per disboscare. Da solo, però, non basta:
occorrono riforme settoriali e micro-economiche, proprio quelle
che mordono di più, specialmente sotto il profilo elettorale e,
soprattutto, quando paesi importanti del convoglio (Francia,
Germania, Olanda) hanno legislature ormai sul punto di terminare.
Nei giorni dell’euroeuforia, nei nostri più grandi paesi vicini
sono state messe in atto misure che drammaticamente contrastano
con l’esigenza di concorrenza e di competitività di cui la zona
dell’euro ha urgentemente esigenza. In Francia, la settimana di 35
ore veniva estesa alle piccole imprese. In Germania, si affossava
per sempre la direttiva su fusioni e concentrazioni europee. La
Commissione europea, loquace anche su come impacchettano le
banane, è stata silenziosissima in materia di settimana di 35 ore,
un fenomeno che, se esteso a tutta l’Ue, minaccia di mettere a
repentaglio la competitività europea, rispetto ad aree più
dinamiche e più giovani, e di fare diventare vecchio il
continente. Si è anche limitata a prendere atto dell’opposizione
tedesca alle direttive sull’Opa europea, e ne ha promesse di nuove
e più annacquate.
In Italia, stanno subendo un arresto virtuale le
denazionalizzazioni (specialmente a livello di servizi pubblici
locali); è stato bloccato il solo progetto di riforma della
scuola, che a oltre 75 anni da quella che porta il nome del
filosofo Giovanni Gentile, avrebbe tentato di mettere il nostro
paese al passo con il resto d’Europa; e sta incontrando una
barriera di scudi il tentativo di europeizzare il nostro mercato
del lavoro. Guardiamo le ultimi analisi Ocse, maldestramente
presentate dal presidente del Consiglio e da alcuni ministri
dell’Ulivo alla vigilia delle elezioni per dimostrare i successi
compiuti nel trasformare economia ed istituzioni dell’Italia per
metterla al passo con il resto dell’area dell’euro e porla su
piede competitivo nell’arena mondiale. Nel periodo 1998 –
primavera 2001 – documenta l’Ocse – sono state semplificate le
regole amministrative alla creazione di imprese (pur restando
superiori a quelle del resto dell’area dell’euro); la
liberalizzazione delle telecomunicazioni è stata effettuata tardi
(e male); le riforme di elettricità e gas hanno mantenuto la
posizione dominante degli ex monopolisti e contengono scarsi
incentivi per migliorare le reti ed aprire l’accesso; il riassetto
delle ferrovie non ha migliorato i livelli di efficienza (rispetto
agli altri paesi europei) e il monopolio ha forti incentivi a
mantenere comportamenti anti-monopolisti.
Se sono così modesti i risultati raggiunti dove qualcosa si è
fatto, vediamo quale è la situazione nei comparti della
regolazione del mercato dei prodotti dove ci sono stati meri, ed
includenti tentativi platonici di riforma. La liberalizzazione del
commercio al dettaglio è stata “timida”. In materia di servizi
professionali e traffico merci su gomma (settori in cui, secondo
lo studio, si è alle prese con la regolazione più restrittiva
d’Europa) la ri-regolazione è stata posticipata diverse volte. La
riforma di poste e servizi pubblici locali è stata “lenta ed
esitante”. Andando dal mercato dei prodotti a quello del lavoro,
il quadro è ancora più nero. Nel 1994 – ricordiamolo – il Jobs
Study dell’Ocse ci giudicava come il paese con il mercato del
lavoro con maggiori rigidità tra quelli industriali ad economia di
mercato e di grandi dimensioni. Sei anni più tardi, siamo, dopo la
Grecia, quello più rigido dell’Ue. Infatti, in un mondo in cui
tutti corrono davvero per fare fronte alle sfide dell’integrazione
economica internazionale, chi cammina sta fermo, ed arretra.
Cosa ricavare da questi dati, tanto asettici quanto eloquenti? I
freni alla competitività dell’Italia non sono “naturali”, non
dipendono, ad esempio, dalla localizzazione geografica. Non sono
neanche il risultato di un “percorso predeterminato” storico che
si perde nella notte dei tempi. Sono plasmati dalle politiche,
policy driven nel gergo degli economisti. Possono, quindi, essere
rimossi se il conducente, ossia il driver, focalizza su questi
nodi la propria attenzione con la determinazione, l’intensità ed
il tempo necessari per scioglierli. Occorre, però, non essere
distratti da “lepri rosse”: lo scriveva Albert Hirschan più di
dieci anni fa, non pensando certo alla situazione contingente
dell’Italia dell’euro. Un’Italia in cui chi si ubriaca di parole e
di champagne è spesso figlio o nipote di chi ha fatto di tutto, in
Parlamento e nel paese, per impedire che nel 1978 si entrasse
negli accordi di cambio europei (in gergo giornalistico Sme) ed ha
operato per frenare il processo di ammodernamento, concorrenza e
competitività. Il solo modo per dare vigore all’euro e per fare sì
che nessuno, proprio nessuno rimpianga le monete mandate in
pensione.
25 aprile 2002
gi.pennisi@agora.it
(da Ideazione 2-2002, marzo-aprile)
|