Il ruolo strategico della ricerca scientifica
di Luciano Caglioti


Chi opera nella ricerca scientifica ha l’impressione che per l’Italia la ricerca sia assimilabile a quello che per le città è il giardino zoologico: se c’è, c’è, altrimenti non fa nulla. E questo da sempre, se è vero, come è vero, che gli apostoli della ricerca hanno sempre dovuto aspramente lottare per ottenere una qualche considerazione e un po’ di fondi. Basterebbe rievocare un vecchio contrasto fra due personaggi di spicco: Marconi, nella sua qualità di presidente del Cnr, e Mussolini, capo del governo. Di fronte alle vane promesse dell’allora governo di aumentare gli stanziamenti da 575.000 lire a tre milioni, Marconi decise di prendere carta e penna per denunciare la paralisi assoluta della ricerca italiana, smaccatamente in contrasto con i messaggi propagandistici rivolti dal Duce al mondo della scienza. Mussolini rispose che gli si potevano dare 570.000 lire dal fondo spese impreviste, ma non un soldo di più, ed al tempo stesso pose il problema “ se questo consiglio debba ancora funzionare o non possa venire assorbito nei suoi elementi migliori e nelle sue funzioni dall’Accademia d’Italia”. Una tradizione di miseria, quindi, con una simpatica aggravante: tutti i responsabili politici si affannano ad affermare che la ricerca è tutto. Ma forse la storia è più antica. Ed il problema, da sempre, non è tanto quello di svolgere buona ricerca, quanto quello di trasformare i risultati della ricerca in denaro. In altri termini, pur con tutte le difficoltà, in Italia creiamo conoscenza e risultati, ma siamo carenti sul settore applicativo. E’ infatti una nostra caratteristica quella di allontanare o di perseguitare i migliori italiani. Ma vi è anche un fenomeno collegato, che ha caratterizzato l’Italia: quello di non sfruttare le invenzioni, l’ingegno dei suoi figli, per creare ricchezza. Questo accade per due distinte vie: o a seguito di disinteresse verso il denaro, o a causa di una ostilità e/o incomprensione che li costringe ad emigrare. Gli esempi sono numerosi. Pacinotti inventò, ma non brevettò, la Dinamo e fu il belga Gramme che la sviluppò. Volta inventò, ma Leclanché, commercializzò col suo nome la pila. Meucci inventò il telefono, ma fu Bell a fondarci un’industria. Galileo Ferraris scoprì il motore a corrente alternata ma non brevettò l’idea. Della situazione approfittarono altri. Marconi offrì gratuitamente la sua invenzione al ministro italiano delle Poste ma ricevette un secco rifiuto. Così, grazie ad alcune amicizie della madre, l’irlandese Annie Jameson, dotata di saggio pragmatismo anglosassone, si rivolse al ministro inglese delle Poste e, ottenuto un caloroso riscontro, si trasferì in Inghilterra. Dove, il 2 giugno 1896, brevetterà il “telegrafo senza fili” e fonderà una società per lo sfruttamento dell’invenzione. Forlanini realizza il prototipo dell’aliscafo e dell’idrovolante. Purtroppo lo sviluppo industriale sarà appannaggio di imprese non italiane. Qualcosa del genere accade per l’elicottero: l’ingegner D’Ascanio nel 1930 realizza un prototipo funzionante, che però verrà sviluppato da Sikorsky. Lo stesso D’Ascanio riuscirà a realizzare la Vespa, che costituirà, insieme al polipropilene, uno dei rarissimi esempi di oggetto inventato e prodotto in Italia.

Finché si arriva a Fermi, costretto ad allontanarsi dall’Italia (la moglie era ebrea) ed a Bovet, italiano di origine svizzera, che insieme alla moglie Filomena Nitti, emigrò per motivi politici: Bovet chiarirà i princìpi di fondo dei sulfamidici, e riceverà il premio Nobel nel 1957. Eccezione a questa triste regola, il polipropilene dovuto agli studi di Natta e della sua scuola presso il Politecnico di Milano, ed alla collaborazione con la Montecatini di Piero Giustiniani, con il supporto del Cnr. Questa volta l’idea, l’ingegno sono nati e rimasti in Italia. Natta fu insignito del premio Nobel per la chimica nel 1957. La scienza dei materiali progredì in tutto il mondo. Oggi la Montedison è in mani altrui. Rita Levi Montalcini capì che il tessuto nervoso si sviluppa con l’intervento di uno specifico fattore di crescita, il “Nerve growth factor”. Le ricerche della Levi Montalcini furono condotte negli Stati Uniti, dove ella si era rifugiata per allontanarsi dal regime fascista. L’approfondimento delle conoscenze sul codice genetico ha aperto una via all’intervento chimico sul Dna degli organismi: l’ingegneria genetica. Giova ricordare che tutto partì dal coraggio di pochi che, con scarsissimi fondi rischiati da un privato, diedero vita ad una piccola (oggi enorme) società di ricerca, la Genentech di S. Francisco. Uno dei fondatori della Genentech (1976) fu Roberto Crea, calabrese emigrato negli Stati Uniti. Altri italiani operando all’estero hanno spostato i limiti delle conoscenze biologiche: Dulbecco, che conseguì il premio Nobel nel 1992 per le sue ricerche sui virus oncogeni, e Cavalli Sforza che, sempre negli Stati Uniti, ha ricostruito attraverso le mappe delle strutture dei cromosomi la storia delle origini e delle migrazioni dell’uomo. Nella fisica Rubbia conseguì il premio Nobel (1983) per i suoi studi sulla fisica della particelle: peraltro, egli condusse parte importante delle sue ricerche all’estero. Un contributo determinante allo sviluppo dell’elettronica è stato dato da Federico Faggin, creatore di straordinari progressi nei semiconduttori, che si è trasferito negli Usa dopo aver ricevuto un netto rifiuto da una importantissima ditta italiana.

Il quadro è paradossale: la scienza italiana è a livello molto alto, e il solo fatto che le persone citate si siano formate in Italia lo dimostra, ma non siamo in grado di sfruttare economicamente le nostre conoscenze. Non si può pretendere che un individuo sia contemporaneamente scienziato ed industriale: alcuni lo sono, ma in paesi come gli Usa dove le cose filano lisce e la mentalità è favorevole alle industrie ed al profitto. La situazione è nota: spendiamo per la ricerca circa la metà, in percentuale sul Pil, di quanto fanno gli altri. Abbiamo meno ricercatori, siamo pieni di vincoli burocratici che rendono vani gli interventi sulla ricerca applicata, lasciamo scappare cervelli che altrove operano magnificamente. E questo da sempre, con una deriva negativa negli anni Novanta, nei quali la spesa passò dall’1,6 – già misero rispetto al 2,5 degli altri – all’1,09 per cento del Pil. E in termini di competitività, due autorevoli istituti internazionali, l’“Institute for management development” e il “World economic forum”, posizionano l’Italia rispettivamente al 30° posto su 47, ed al 41° su 53. Tutto questo, abbiamo detto, viene da lontano. A parte De Gasperi, che sostenne in pubblico che la ricerca è un lusso, l’intera nostra storia è fatta di disinteresse verso la ricerca. Segnale chiaro – fra i tanti – fu che nel dopoguerra venne varata una legge assurda, che voleva che il farmaco non potesse, in Italia, essere brevettato. A prima vista, si trattava di una legge a sfondo popolare: non si deve lucrare sulla salute, la medicina deve essere disponibile a tutti. Parole sante. Sennonché questa legge ebbe come conseguenza che nessuna industria italiana aveva interesse a sviluppare un farmaco nuovo: chi è così matto da spendere soldi per ricercare un nuovo principio attivo, se non può proteggersi nel proprio paese, ossia proprio dove, per presenza, per influenza, per organizzazione, dovrebbe contare sul mercato migliore? E così il nostro paese divenne il mercato dei grossi gruppi multinazionali. Lo sviluppo dell’elettronica venne di fatto scoraggiato, al punto che l’illuminato gestore del più grande gruppo nazionale si lasciò scappare personaggi come Faggin, Torresi, Zappacosta ed altri che diedero un formidabile impulso allo sviluppo dell’elettronica americana. E vale la pena di riportare quanto detto da Marco Vitale nella sua relazione al convegno Aifi del 18 aprile 2000: “Noi non dimentichiamo, ed è nostro dovere ricordarlo ai giovani, la grande occasione perduta con la vendita, nel 1964, dell’elettronica Olivetti alla General Electric per un piatto di lenticchie, quell’Olivetti che, con il “progetto Elea”, aveva presentato alcuni anni prima, collaborando con l’Università di Pisa, il primo computer italiano, e che nel 1965 presenterà a New York il “101”, il primo personal computer del mondo. Mentre il gruppetto di ricercatori rimasto in Olivetti metteva a punto il primo personal computer del mondo, il presidente della Fiat, Vittorio Valletta, dichiarava all’assemblea degli azionisti Fiat il 30 aprile ’64: “ La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superare senza tante difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare, l’avere sviluppato il settore elettronico”. Il business dell’immediato futuro, l’intuizione della famiglia Olivetti, veniva visto come una sorta di cancro, e scoraggiato, da un personaggio che non parlava per parlare, e che sprovveduto certo non era. Miopia? Difficile crederlo, almeno non fino a questo punto.

Si parla tanto di fuga dei cervelli, spesso colpevolizzando l’università. A quando un’analisi della mancata attenzione da parte degli industriali alla posssibile collaborazione di ingegni che, una vilta emigrati, hanno cosatruito con il loro cervello degli imperi tecnologici? Un altro esempio è quello, tristissimo, di Ippolito. Per una serie di eventi, l’Italia ha rinunciato ad un settore, quello dell’energia nucleare, nel quale primeggiava soprattutto per merito di Felice Ippolito, travolto da una serie di circostanze avverse e/o ostili. Oggi, alla luce della guerra che stiamo vivendo, che certamente trae dal petrolio una parte delle sue cause, il non poter contare sull’energia nucleare non è certo un vantaggio. E’ doveroso riportare, per la meditazione di tutti coloro che hanno avversato lui e il nucleare, una frase di Felice Ippolito che nel 1962 ebbe a scrivere, a proposito degli approvvigionamenti di petrolio dal Medio Oriente: “ Tali approvvigionamenti infatti, in quanto soggetti agli alti e bassi della situazione internazionale ed alla instabilità politica dei paesi del Medio Oriente […] sono suscettibili di determinare improvvise e gravi crisi economiche”. E più avanti: “ La competitività di ogni forma di energia deve tener conto di un coefficiente, che esprima la probabilità che l’attuale pressione dell’offerta di fonti energetiche tradizionali sul mercato possa, per ragioni politiche o tecniche, improvvisamente ridursi o cessare, con conseguente grave squilibrio per un paese largamente importatore come il nostro”. Una cosa è certa: la ricerca non è stata mai considerata un punto di forza del paese né dal mondo politico, né da quello industriale. Anzi, le vicende di Tangentopoli hanno dimostrato che l’alleanza col mondo politico in termini di uno scambio sovvenzioni (taluni usano il termine “tangenti”) contro appalti diminuiva drasticamente i problemi di competitività tecnologica: meglio una seria mazzetta che un programma di ricerca. A questo va aggiunto l’effetto sinergicamente negativo delle due culture dominanti in Italia, quella cattolica e quella marxista, che vedono entrambe l’industria come un nemico ed il profitto come un peccato. Ha prevalso, sulla cultura scientifica, un tipo di cultura parolaia, autoreferente, di tipo umanistico ma in genere estranea alle conoscenze che la scienza rende disponibili per la conoscenza dell’uomo. Sono da ricercarsi in questo contesto i simboli più osannati della cultura e dell’ “intelligenza” italiana, i giuristi, gli azzeccagarbugli gli alfieri di una cultura fatta di leggi complesse e contraddittorie, di cavilli, di sofismi che soffocano chi opera per creare ricchezza, per un progresso economico volto a riscattare il nostro popolo da un passato di miseria e di stenti.

Altamente indicativo è il giudizio dato da un illustre intellettuale dalla prima pagina di un importantissimo quotidiano milanese sulla proposta delle “tre i” fatta dall’attuale presidente del Consiglio, dove le “tre i” si intendono per: Internet, inglese, impresa. La proposta è definita “culturalmente ripugnante”: in un Paese in cui non si parlano lingue straniere, si stenta nella penetrazione di Internet, e l’impresa è per tradizione qualcosa di estraneo se non nemico, si resta sbalorditi a leggere queste condanne nei confronti di approcci moderni alla competitività nella creazione di ricchezza. Quindi? Ci troviamo in un momento difficile: gli anni Novanta hanno segnato, come detto, un ulteriore calo dei finanziamenti, non solo, ma le acquisizioni di imprese italiane da stranieri ha portato ad una drastica riduzione della ricerca industriale in settori primari quali le telecomunicazioni, le biotecnologie eccetera. Rimane una via: quella di potenziare i rapporti fra il mondo della ricerca pubblica e le piccole e medie imprese, onde permettere a queste ultime di divenire punto di forza essenziale dello sviluppo economico dell’Italia. Così come è essenziale creare piccole imprese hi tech sui risultati della ricerca pubblica attraverso un potenziamento del venture capital.

12 aprile 2002

(da Ideazione 2-2002, marzo-aprile)

 

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