Le competenze di Bruxelles e la fiducia dei mercati
di Luciano Priori Friggi


Di recente sul Corriere della Sera due economisti, Alberto Alesina (Harvard) e Ignazio Angeloni (Bce), hanno scritto un lungo articolo a due mani dal titolo inequivocabile "A Bruxelles il meno possibile". L'apertura dei lavori della "Convenzione europea per le riforme istituzionali" di fine febbraio ha reso il tema del ridisegnamento dei poteri tra Bruxelles e paesi membri dell'Ue particolarmente attuale. Lo spirito dello scritto è di uscire dal vago e mettere in primo piano le questioni di fondo – le linee-guida di una proposta di Costituzione europea – tralasciando quelle di dettaglio. Dunque, la ricerca del "principio" informatore, che è questo: “... le istituzioni europee devono occuparsi esclusivamente di quelle attività che hanno chiare economie di scala o esternalità”. L'approccio economico al problema può creare qualche difficoltà a chi non è abituato allo specifico del linguaggio della disciplina. Il significato del principio tuttavia è semplice. L'esercizio di un potere va analizzato in base ai suoi effetti. Conseguentemente a Bruxelles non devono essere delegate competenze con bassa interdipendenza intra-statuale (o che difettano di consenso), poiché i ritorni in termini di benefici sarebbero scarsi, nulli o addirittura negativi. Per i due economisti gli ambiti dove questa interdipendenza è rintracciabile con un alto grado di intensità sono certamente la difesa e la politica estera. Quanto ai due strumenti classici della politica economica, la moneta e la fiscalità generale, c'è difformità di soluzioni. Mentre non c'è nemmeno da discutere intorno alla questione della moneta, che deve restare prerogativa esclusiva della Bce, bisogna usare invece molta prudenza in ambito fiscale. Il punto di vista Alesina e Angeloni è che "l'area fiscale dovrebbe rimanere largamente decentrata". Una volta stabilite poche e precise competenze a livello federale, per i casi di dubbia attribuzione la soluzione deve essere ricercata ricorrendo al "principio di sussidiarietà", il che vuol dire rimandare a decisioni da prendersi in ambito statale o locale.

Pur non dispiacendoci l'approccio appena descritto, è tuttavia possibile una visione molto diversa, a partire sempre da concetti cari agli economisti. Da almeno sessanta anni, per merito di Keynes, il bagaglio analitico dell'economia si è arricchito di un termine, la "fiducia", che, forse, vale la pena riprendere e utilizzare anche in questa occasione. Keynes usò questa espressione per spiegare l'alternanza di periodi di espansione a periodi di recessione: è l'oscillazione della "fiducia" verso l'andamento futuro degli affari che determina il volume degli investimenti e quindi il ciclo economico. Il concetto di "fiducia" non è facilmente riducibile a dimostrazione matematica se non analizzandone gli effetti, il che è un bene in quanto l'approccio troppo formalizzato non sempre è adeguato a spiegare con efficacia come vanno le cose del mondo. Chi scrive ritiene che il concetto di "fiducia", inteso in senso economico, debba assurgere a principio informatore nella costruzione delle istituzioni comunitarie. In termini concreti ciò significa progettare istituzioni che abbiano come compito prioritario quello di massimizzare la "fiducia" degli operatori economici. I benefici che, a cascata, ne deriverebbero sono la migliore garanzia di una tenuta nel tempo delle istituzioni comunitarie stesse: più investimenti, più occupazione, più reddito, più servizi sociali.

Bisogna chiedersi dunque, che cosa aumenta la "fiducia" degli operatori? Prima di tutto una conduzione dinamica della Banca centrale. Riguardo alla Bce le innovazioni da apportare ci sono, tuttavia non si parte da zero. Si devono rafforzare certamente in primo luogo i poteri in relazione alle politiche monetarie legate all'offerta di moneta. Ma l'obiettivo, sul modello della Fed, deve essere contemporaneamente sia quello della stabilità di lungo periodo dei prezzi che quello dell'agilità di breve sui tassi (per contrastare efficacemente le onde lunghe del ciclo economico). In quest'ultimo ambito va rafforzata la sensibilità verso l'assunzione di responsabilità da istituzione di ultima istanza. Le crisi finanziarie sono infatti sempre possibili ed è decisiva la credibilità e la tempestività con cui una governatore sa operare in tali frangenti. E' una questione anche di persone. Ad es. negli States il governatore della Fed viene scelto tenendo in gran conto una sua acclarata sensibilità verso i mercati finanziari e non è detto che un personaggio all'altezza lo si trovi nelle strutture delle Banche centrali stesse. Greenspan ad esempio a 20 anni se ne andava in giro a suonare il clarinetto in un suo complesso jazz e, successivamente, ha svolto a lungo l'attività di analisi e consulenza finanziaria. La conoscenza dei mercati, acquisita nell'attività professionale, ha fatto sì che fosse preferito, al momento di sostituire Volcker alla testa della Fed, nel 1997, a tanti funzionari, interni alla Fed stessa. Quanto sia importante il ruolo attivo di una banca centrale nel contrastare gli eccessi (di euforia e di pessimismo) dei mercati finanziari lo ha espresso in forma molto chiara Lawrence Lindsey, capo dei consiglieri economici di George Bush. Quando qualche anno fa si è materializzata la possibilità del formarsi di una bolla speculativa sui mercati azionari americani ebbe a dire (allora era nella Fed) “...in una Banca Centrale il ruolo di far scoppiare le bolle speculative sta diventando imperante”. Prima di stabilire pertanto chi deve scegliere il governatore della Bce è bene definire con maggiore precisione di cosa deve occuparsi e quali competenza debba possedere.

Un altro aspetto che contribuisce a creare fiducia/sfiducia negli affari è il livello del costo del lavoro. E' evidente che, come afferma Fitoussi, “se un governo modifica la propria fiscalità sui salari aumenta la propria competitività nei confronti degli altri Stati”. Ma se si affronta un tal problema entro la cornice delle esternalità non se ne esce. Se lo si vede dal lato dello sviluppo tutto diventa più semplice. E una soluzione potrebbe trovarsi nel porre a livello comunitario un tetto (basso) al costo complessivo (obbligatorio) del lavoro. Cioè va limitata la libertà verso l'alto non verso il basso. E' questo l'unico modo per difendersi dagli eccessi dei sindacati, una volta persa la supremazia nazionale sulla moneta. Tuttavia il lavoratore va in qualche modo protetto dai soprusi, inevitabili in situazioni di particolare disparità di potere contrattuale. Un'ottima soluzione è la definizione di un salario orario minimo. Ad esempio, prendendo come riferimento l'esperienza degli States, si potrebbe fissare questo minimo a 6 euro.

Un ulteriore elemento da chiarire è se si vuole costruire un'Europa mercatocentrica o un'Europa bancocentrica. Il dilemma non è da poco perché dietro a tali differenti approcci ci sono, in ultima analisi, non solo due diverse ipotesi di legislazione, ma anche di organizzazione della società. Tra di loro ai limiti dell'incompatibilità. Purtroppo non troviamo nei commenti più autorevoli, compresi i contributi di Alesina e Angeloni, traccia di questa problematica. L'argomento è scottante e complesso. Non bisogna dimenticare poi che, almeno fino al più recente passato, i paladini più convinti di una visione bancocentrica sono stati i tedeschi. Un'Europa bancocentrica è un rischio, per tutti. I sistemi bancocentrici sono, infatti, tendenzialmente autoritari, danno minore "fiducia" di quelli mercatocentrici e di conseguenza attirano a fatica i capitali di rischio. Pertanto è bene non sottovalutare i compiti della politica nel governo di questi aspetti. Si è avuta invece l'impressione che, fino ad ora, non potendosi occupare di questioni di portata strategica, le istituzioni europee abbiano finito per dedicarsi a problematiche che le stanno ridicolizzando, vedi i diametri dei limoni, delle arance e così via.

C'è infine il problema dei controlli sui mercati finanziari. Una armonizzazione delle regole in questo campo è quanto mai necessaria. Come è necessaria una istituzione europea con poteri ampi sul modello della Sec americana. Alle singole autorità nazionali (per l'Italia la Consob) vanno attribuite competenze di indagine preliminare e di ordinaria amministrazione, mentre le sanzioni debbono essere applicate a livello comunitario. Inoltre – il caso Enron deve pur insegnarci qualcosa – è quanto mai necessaria una legislazione che escluda la possibilità di svolgere all'interno di una stessa banca d'affari (o di altre istituzioni finanziarie) attività tra loro in palese conflitto di interesse. Nei mercati finanziari l'elemento "fiducia" è assolutamente prioritario. Se si insinua il dubbio sulla veridicità delle comunicazioni societarie, dei bilanci, dei reports, ecc., il crollo dei mercati, e con essi quello dell'intera economia, diventa inevitabile. Se lo spazio ce lo consentisse sarebbe interessante poter affrontare a questo punto anche le grandi questioni della difesa, della politica estera e delle istituzioni. Non mancherà tuttavia l'occasione per riprendere il discorso.

1 marzo 2002

luciano.priorifriggi@tin.it

 

 

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