Si spegne la stella di Mediobanca
di Patrizio Li Donni

Del passaggio di mano di Montedison, e dell’Opa che lo sta determinando, molto si è già scritto e molto ancora si scriverà da qui sino all’insediamento del nuovo consiglio di amministrazione. Rispetto a quanto abbiamo letto in questi giorni convulsi di cordate, di riunioni, di pacchetti azionari, di speculazioni di borsa, forse più importante sarebbe riflettere sul significato complessivo dell’operazione per il paese, e degli scenari che apre nel prossimo futuro del capitalismo italiano. Certamente, la conquista della Montedison da parte di Italenergia, è importante perché segna l’inizio della fine di Mediobanca, almeno di quella creatura a metà tra la banca d’affari e la holding industriale blindata da pacchetti azionari incrociati, voluta, nutrita e difesa da Enrico Cuccia. La “galassia”, come la chiamavano ai tempi d’oro penne e pennivendoli del giornalismo italiano, non sopravviverà molto al suo grande padre padrone. Per anni più che una galassia in realtà Mediobanca è stata la grande supernova della economia privata italiana, la stella che riflettendo di luce propria ha illuminato tutta la piazza (ristretta per la verità) finanziaria della borsa nostrana. Ma Cuccia e Mediobanca hanno avuto in realtà la possibilità di esistere perché in Italia non esisteva il mercato, ma si era piuttosto in presenza di uno strano animale a due teste, a metà tra una economia pubblica di stampo socialista e dei privati consorziati tra di loro che nella borsa vedevano solo il modo di “spennare” il parco buoi, i piccoli risparmiatori, vittime predestinate di quelli che poi sono stati chiamati i poteri forti.

Certamente il processo non è iniziato ieri con la conquista Montedison. Altre volte la società è passata di mano, altri manager e finanzieri ne hanno stretto le redini, da Cefis a Schimberni, fino a Raul Gardini. Ma erano tempi in cui con il pubblico, e il peso che questo aveva, occorreva fare i conti. Insomma, non di capitalismo vero si trattava, ma di una sua buona imitazione, di una illusione d’effetto ed efficace, propensa più a conservare che non ad innovare e sviluppare. Appoggiata alle grandi spalle dell’economia pubblica, quella privata si è spesso addormentata e foraggiata per anni, con fiscalizzazioni e favori vari, con la pressoché assoluta mancanza di concorrenza interna, ed anche estera. La globalizzazione, i processi di privatizzazione di questi anni, l’inizio di un mercato libero hanno quasi smontato lo stato imprenditore, e, di conseguenza, il salotto buono in cui i poteri forti erano naturalmente a braccetto ha cominciato a sciogliersi come neve al sole. Niente guerra, solo maggiore concorrenza, contendibilità. Le tigri di carta non reggono più, è tempo di sostanza. Certamente, ancora molti passi avanti vanno fatti. La famiglia Agnelli e la Fiat hanno sempre fatto parte di quel mondo e oggi poiché scalano insieme a monopolisti energetici stranieri non sono certo gli eroi di turno. Anzi hanno sempre il vizio, o l’abilità, di comprare molto spendendo poco, come si addice ai veri ricchi e a quelli che sanno fare bene gli affari. E gli Agnelli, ricchi e bravi lo sono sempre stati. In gergo finanziario si dice conferire assets anziché denaro, ma è solo appena più fine, la sostanza è la stessa. Una volta però gli andò male, fu quando Prodi, all’epoca in cui era di moda il “nocciolo duro”, privatizzò la Telecom (che poi non è molto tempo fa). “Per pochi spiccioli”, commentò qualcuno poi divenuto presidente del Consiglio, rimasto ovviamente passivo ai tempi della prima grande Opa che la storia della finanza italiana ricordi, quella della scalata di Colaninno & soci proprio a quella Telecom di Agnelli e Bernabè a cui Prodi l’aveva venduta.

Ma Colaninno era e resta un outsider, non è il salotto buono della finanza italiana, gli Agnelli di quel mondo erano stati protagonisti. E questo è il fatto significativo, che sancisce la fine di un epoca. Le manovre non finiscono qui, questo è solo l’antipasto, il primo colpo del riassetto, l’ingresso che porterà Fiat nell’energia e l’energia italiana a costare un po’ meno. Altre utilities interessano il gruppo di Torino, che vuole uscire dal secolo delle automobili ed entrare in quello più profittevole della telematica, per questo i contenuti di Rcs, e le linee telefoniche di Colaninno sono indispensabili, per essere protagonisti. Se il primo sembra un boccone facile, per la rivincita sulla Telecom dovremo attendere ancora un po’, ma Torino non dimentica. Fine dell’era del capitalismo stagnante e via alla contendibilità e al mercato anche in Italia, con buona pace dei G-ottini di Genova e Seattle. Quello che conterà sempre di più sarà il popolo degli azionisti, qui in questo campo occorre fare più battaglie per i loro diritti, non invadere Genova e le sue zone rosse per dimostrare contro i simulacri del potere.

6 luglio 2001

freccia@libero.it


stampa l'articolo