General Electric e Honeywell, stop dall’Europa
di Stefano da Empoli

Martedì 3 luglio, la Commissione europea ha bocciato all’unanimità la fusione tra General Electric e Honeywell, su proposta del commissario alla concorrenza Mario Monti. Per una curiosa coincidenza, la decisione è arrivata un giorno prima della data in cui Oltreatlantico si sono festeggiati i 225 anni dalla dichiarazione di indipendenza. Considerato che è la prima volta nella storia che l’Europa boccia un accordo di fusione o acquisizione tra due imprese americane già approvato dalle autorità antitrust di Washington, si può immaginare che negli States il pacco dono in arrivo da Bruxelles non sia stato accolto con gioia. Anche perché ad essere bloccata non è una operazione qualsiasi. Per le dimensioni titaniche di quello che sarebbe risultato l’acquisto più costoso della storia industriale, ben 43 miliardi di dollari. E per i personaggi coinvolti, su tutti Jack Welch, icona del capitalismo americano, perfino più di Bill Gates. Dopo venti anni passati alla guida di GE, l’acquisto di Honeywell sarebbe stato il coronamento di una cavalcata trionfale, quella che ha trasformato una vecchia e malandata Signora dell’economia americana nella società più ammirata del mondo secondo l’autorevole Fortune, con un fatturato di 130 miliardi di dollari all’anno e una capitalizzazione monstre di 500, più di ogni altro. Welch sarebbe dovuto andare in pensione ad aprile di quest’anno ma aveva deciso di rimanere al timone di General Electric per qualche altro mese proprio per gestire l’operazione Honeywell.

Naturale quindi che a rimanere turbate dallo stop della Commissione europea non siano state solo le parti in causa ma l’intero establishment politico ed economico degli Stati Uniti. Che ha reagito con fastidio e rabbia, geloso della propria autonomia. Nel corso della loro storia, gli States non hanno mai accettato di vedere la propria sfera d’azione limitata da qualche soggetto esterno, chiunque esso fosse. Il discorso vale per la difesa, per gli organismi sovranazionali, mai visti di buon occhio, come per i trattati internazionali giudicati troppo restrittivi (il Protocollo di Kyoto è un buon esempio della categoria). Anche stavolta, non sono stati in silenzio. Democratici e repubblicani si sono coalizzati nell’esercitare quelle pressioni politiche di cui si è lamentato il commissario Monti. Ma che a differenza del 1997, quando riuscirono a piegare la Commissione ad accettare in extremis la fusione tra Boeing e McDonnell Douglas, non hanno sortito effetti. Nonostante il caso portato da Monti non fosse immune da critiche.

Sia l’ipotesi di bundling sia quella di integrazione verticale lesiva della concorrenza sono parse a molti poco convincenti. Il primo capo d’accusa di Bruxelles si reggeva sul presupposto che, potendo contare grazie alla Honeywell su una consistente produzione di apparecchiature elettroniche per aerei oltre che di motori per jet, la General Electric avrebbe potuto abbinare l’offerta di un prodotto a quella dell’altro, magari a prezzi scontati. Il problema è che gli effetti del bundling sul benessere del consumatore sono tutt’altro che univoci perché, accanto ad una possibile lesione della concorrenza, c’è il vantaggio che deriva dalla maggiore comodità per il cliente di comprare due prodotti allo stesso tempo, avendo a che fare con un unico produttore, piuttosto che due in separata sede. Come è facile immaginare, i costi di transazione in un mondo complesso e frizionale come quello in cui viviamo diminuirebbero. Quanto all’altro capo di imputazione, Monti temeva che la Gecas, società della General Electric che possiede e concede in leasing una flotta aerea forte di molte centinaia di unità, potesse costringere i produttori di aeromobili ad utilizzare motori e avionica di marca GE. Anche qui, i fondamenti logici dell’accusa di Bruxelles non appaiono a prova di bomba. E’ vero che la Gecas possiede una vasta flotta ma quest’ultima è pur sempre pari all’8 per cento del mercato mondiale (quota che non le fa neppure guadagnare il titolo di first player del settore).

Insomma quel che Monti sostiene è aperto a discussione. Che però sarà puramente accademica perché la Commissione Ue ricopre allo stesso tempo il ruolo di sostenitore dell’accusa, giudice e giuria. Troppe parti interpretate da un solo personaggio, dicono in molti con qualche ragione. Sulla strada dell’introduzione di elementi di garanzia riconosciuti dai codici penali anche ai più biechi criminali, occorrerebbe modificare anche altre singolarità del modus operandi dell’antitrust europea.

Per esempio, il commissario preposto ha sostanzialmente le mani legate nel tutelare la concorrenza ex post, cioè una volta che una fusione sia stata approvata. Logico quindi che pretenda di rifarsi nella fase ex ante. Quando però occorrono buone capacità divinatorie, oltre che una solida competenza, per intuire il comportamento successivo degli attori economici. Una riforma dell’impianto concorrenziale europeo che riequilibri i poteri tra le due fasi sarebbe senza dubbio auspicabile. In modo tale che gli interventi ci siano solo se strettamente necessario, evitando processi alle intenzioni. Sarebbe inoltre consigliabile alzare la soglia di rifiuto per accordi societari. Alterando transazioni di mercato solo se il benessere dei cittadini è seriamente e inequivocabilmente minacciato. Insomma, Monti potrebbe anche avere ragione (anche se a noi non sembra). Il problema è che il modo condizionale e la terza persona singolare male si accompagnano alla tutela della concorrenza in una economia libera.

6 luglio 2001

stefanodaempoli@yahoo.com


stampa l'articolo