Pensioni minime a un milione al mese: ecco come
di Giuseppe Pennisi


Si possono portare ad un milione al mese le pensioni “minime” che oggi appena sfiorano le 700mila lire al mese, come ha annunciato il presidente del Consiglio nel discorso alle Camere di presentazione del programma di governo? Sei anni fa (nel periodico tecnico “La rivista dell’Inpadp”, dicembre 1994) pubblicai una proposta complessiva del riordino del sistema previdenziale che aveva come suo aspetto centrale di portare a “900mila-1 milione al mese lorde” (ai prezzi del 1994) le “pensioni sociali” e altre pensioni minime. Nel contesto di una riforma organica, quindi, la misura è fattibile. Il sottoscritto peccherebbe di presunzione se attribuisse esclusivamente a sé i lineamenti del riassetto. Ho saccheggiato un’idea di base presentata da Dimitri Vittas nel novembre 1992 al seminario scientifico dell’Assosociazione Internazionale della Sicurezza Sociale (“Chillipour Suisse: la voie vers une réforme des pensions” in “Les implications des politiques d’ajustement structurel pour la sécurité sociale”, Aiss Ginevra 1993). E’, quindi, un’idea che viene da lontano. E che va lontano come dimostrato dal fatto che, nella seconda metà degli anni Novanta, è stata in vario modo incorporata in riforme dei sistemi previdenziali attuate in una trentina di paesi (come documenta, tra l’altro, un libro in uscita scritto a quattro mani dall’ex-presidente del Consiglio Giuliano Amato e dall’economista Mauro Maré).

In cosa consiste? Nel combinare gli aspetti di solidarietà sociale, efficienza ed efficacia propri di sistemi in vigore in più paesi, ma soprattutto quelli della previdenza svizzera. Ad esempio, possono immaginarsi tre pilastri. Un pilastro altamente redistributivo pubblico (“a ripartizione” in cui le pensioni degli anziani vengono finanziate dai contributi dei lavoratori attivi), in cui le prestazioni sono composte da due elementi (uno “fisso”, ossia uguale per tutti, e uno in linea con i redditi da lavoro effettivamente percepiti) e hanno un “tetto”. Un pilastro alimentato da fondi “aperti” privati di gruppo, ma ben regolamentati e vigilati delle autorità pubbliche. E un pilastro di fondi individuali, incentivati dal fisco, che non tasserebbe gli accantonamenti durante la vita lavorativa ma le prestazioni quando, giunta l’età della pensione, vengono erogate. I due pilastri privati sarebbero, naturalmente, “a capitalizzazione”, con le pensioni finanziate dai rendimenti degli accantonamenti.

I calcoli fatti suggeriscono che, a regime, un sistema con questi lineamenti è sostenibile e richiede un’incidenza dei contributi sulle retribuzioni in vita attiva sul 25 per cento, inferiore quindi al 35-28 per cento (a seconda delle stime) dell’incidenza attuale. Il nodo è la transizione: passare dal sistema attuale (quasi interamente a “ripartizione”) al nuovo costa, in quanto occorre evitare che una generazione si trovi, sul groppone, il finanziamento di almeno due pensioni: la propria e quella dei propri padri e zii. Equità avrebbe imposto di destinare il “bonus” fiscale non a tracimare, con nuovi “buchi”, i conti pubblici, ma a destinare interamente a questo scopo le risorse disponibili, evitando di continuare ad espropriare i figli per farsi belli con quelli tra i padri che sono elettoralmente più forti. Non avere attuato una riforma coerente della previdenza è una pesante responsabilità della sinistra: calcoli fatti dalla Fondazione Rodolfo De Benedetti (non certo contigua a quella che, negli ultimi cinque anni, è stata l’opposizione) provano che il ritardo ha implicato un costo del 50 per cento per la transizione. Costo che graverà principalmente sui giovani e su coloro di mezza età ma che in ultima istanza verrà pagato da tutti gli italiani.

22 giugno 2001

gi.pennisi@agora.it


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