Politica economica?
Tutto il contrario di quello che ha fatto Visco

di Carlo La Moneta


In una lunga e puntuale intervista al Corriere della Sera del professor Vincenzo Visco, interprete e protagonista della politica economica del Governo uscito battuto dalle recenti elezioni, si notano tre tratti salienti: una posizione snob ed elitistica verso il popolo italiano; una certezza granitica nella politica che è uscita sconfitta dal voto popolare; una sorta di dissonanza cognitiva che porta Visco ad assumere, paradossalmente, la posizione di chi ha votato per il polo nei confronti della nuova maggioranza parlamentare, e del governo che essa sosterrà. In breve, Visco sostiene che il popolo ha creduto alle irrealizzabili promesse di Berlusconi; che una politica liberale non si può fare nella maglia stretta del contesto definito dagli indirizzi della Unione Europea; che egli si attende la riduzione della propria aliquota irpef al 33 per cento. Nell’ultimo punto, e con chiaro intento paradossale, Visco ribadisce il primo: le promesse di questa maggioranza liberale sono inaffidabili ed io sfido il prossimo ministro dell’economia a tenere fede a questa missione impossibile che la maggioranza gli affiderà. 

Rispondiamo al professor Visco, limitandoci a dire dove e come si potrebbero individuare le linee di una possibile e praticabile politica economica liberale. Nel sito web del Corriere della Sera, ad esempio, si trova il testo del rapporto 2001 sull’indice della libertà economica, curato da quel giornale e dal Centro Einaudi di Torino. E’ una buona lettura di base per trovare una politica economica amica della crescita in Italia. Il rapporto parte da sei indicatori e li sintetizza in un indice riassuntivo della libertà economica. Le sei variabili analitiche sono: il peso dello stato, la struttura dell’economia, la legalità, la tassazione, la stabilità dei prezzi e la politica monetaria, lo stato dei mercati finanziari. L’Italia è schiacciata sempre verso la coda della graduatoria europea. Nel punteggio finale siamo penultimi e poco distanti dalla Grecia: noi a 7, la Grecia a 6,8 e l’Unione Europea a 7,4. Il Regno Unito si trova ad 8,7, l’Irlanda ad 8,3 e i Paesi bassi ad 8,6. C’è una Europa americana: quella del triangolo Gran Bretagna, Irlanda, Olanda. Gli Stati Uniti, con i medesimi metodi di valutazione, sono ad 8,9. I paesi con un punteggio elevato crescono più rapidamente, mostrano moderni ed efficienti mercati finanziari ed una economia che assorbe più rapidamente i vantaggi e le capacità della tecnologia dell’informazione e della comunicazione: cioè gli effetti della nuova rivoluzione industriale.

Se colleghiamo queste premesse analitiche a un rapporto di Ignazio Visco, già dirigente della nostra banca centrale ed ora vicesegretario generale dell’Ocse, troviamo una singolare coincidenza. Il rapporto di Visco si legge nel sito web di quella istituzione e dice che i paesi crescono meglio quando investono nella diffusione dello spirito di impresa, sostengono l’innovazione e la dilatazione delle capacità operative del capitale umano, facilitano la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e rafforzano la struttura di base, economica e finanziaria, del proprio assetto macroeconomico. La politica economica del governo battuto dalle elezioni non era coerente con i cinque punti di Visco ed ha condotto l’Italia nella coda della sub graduatoria renana rispetto alla posizione degli europei all’americana. Perché ha tutelato i fondamentali macroeconomici senza toccare l’efficienza della macchina statale e, in alcuni casi, generando ulteriori frizioni organizzative al suo interno, sostenendo un federalismo che era solo la contrapposizione dei poteri locali alle amministrazioni periferiche dello stato. Ha inasprito le tasse, non ha creduto nell’impresa e non ha sostenuto l’innovazione tecnologica: che non si può identificare con i sussidi alle famiglie che comprano un personal computer.

Non è facile rimontare il gap renano del nostro paese: perché agisce come se fosse la Germania o la Francia senza averne le robustissime gambe necessarie nella pubblica amministrazione centrale, la risorsa francese, né nel sistema di interlocking che regge le banche, la risorsa renana. Si consiglia infine la lettura di un paper, scritto da un italiano, per il national bureau of economic research: il professor Luigi Zingales spiega come solo in Europa si possa pensare che il corporate governance sia riconducibile al corporate laws. Troppo forte, insomma, come conferma l’intervista del professore Visco, l’illusione europea che un gruppo di illuminati possa e debba spiegare al popolo bue come deve fare per vivere meglio. Una politica economica liberale lascia il popolo più libero di organizzare la propria vita e gli offre mercati finanziari ed opportunità tecnologiche che allargano la gamma delle sue scelte contro un futuro ignoto ma pur sempre governabile. Governance e governatore sono parole latine: ed il secondo è il gubernator, cioè il timoniere: non è il padrone del mare ma chi conosce come attraversarlo spinto dalle forze del vento e dell’acqua. Conosce i suoi limiti e conduce in porto la nave. Libertà economica significa anche capacità dei governi di riconoscere le forze che essi non controllano ed indicare la strada migliore per cogliere i propri traguardi. Le navi toccano i porti perché buoni timonieri ed eccellenti equipaggi si fidano reciprocamente l’uno dell’altro. Per questi motivi è razionale diffidare di quelli che hanno sempre ragione, anche quando nessuno gli crede più, e mettere alla prova nuovi timonieri.

1 giugno 2001









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