Mezzogiorno, il lungo esodo
di Massimo Lo Cicero


L'ultimo libro di Sandro Petriccione ha un tono biblico: forse perché si occupa della storia delle politiche per il Mezzogiorno nella seconda metà dell'ultimo secolo. Il titolo evoca un'impresa, per la verità riuscita, in cui Mosè traghetta nella terra promessa il suo popolo: anche se il leader vedrà ma non conseguirà il traguardo, morirà sul confine che separa metaforicamente l'esistenza futura del popolo eletto dal suo passato servile. Nelle citazioni, che aprono i singoli capitoli, invece, colpisce una frase dal Vangelo di Luca: "Abbiamo lavorato tutta la notte e non abbiamo preso niente". Non ci sarebbe bisogno di aggiungere molto per trasferire al lettore il senso del giudizio dell'autore sul tema indagato. Siamo in presenza di un bilancio doloroso ed attendibile delle numerose formule e delle varie organizzazioni che lo stato italiano ha impegnato per cinquant'anni nel tentativo di recuperare una marcata distanza tra le due Italie: un tentativo che non ha avuto successo ma, dato che bisogna imparare dai propri errori, Petriccione aggiunge un ulteriore contributo alla sua lunga militanza, intellettuale e manageriale, nel campo di coloro che si sono impegnati in quella direzione.

Ripercorriamo, brevemente, le sue tesi. Ci sono molte anime dietro la nascita della Cassa del Mezzogiorno, che segna l'inizio della fase ascendente del dirigismo statale per suscitare la crescita economica e che rappresenterà, nei cinquant'anni successivi, una sorta di involontaria metafora, il tratto di congiunzione ed il barometro delle varie fasi della politica meridionalista. Dietro la nascita della Cassa, voluta da Morandi, Menichella e Saraceno, c'è una grande cultura, contemporanea al suo tempo, e c'è la convergenza di molte componenti del pensiero politico democratico italiano ma c'è anche l'ostilità dichiarata dei comunisti, cioè del gruppo politico, prevalente nella direzione del movimento operaio nazionale ed escluso dal governo, in parallelo con la scelta liberista di Einaudi nel biennio 1947/48. Non deve sorprendere che si manifesti, nella stessa fase genetica degli interventi per il Sud, una sorta di implicita contraddizione tra politica nazionale e politica meridionale per la crescita. L'Italia sceglie l'integrazione con le altre economie ed un tiepido regime di liberalizzazione: che avrà molte conseguenze sul piano degli scambi commerciali ed assai pochi effetti sul regime dei mercati e degli intermediari finanziari. Dovremo aspettare gli anni Novanta per avere una vera liberalizzazione dei mercati valutari e mobiliari ed un primo passo verso la privatizzazione e la internazionalizzazione del sistema bancario. Negli anni Settanta, il Mezzogiorno tende ad essere una economia contenuta nella "scatola" dell'intervento pubblico: questo, ovviamente, non è il risultato di un disegno progettato e realizzato con coerenza e determinazione.

E', piuttosto, una sorta di risultato preterintenzionale che lega la speranza dei gruppi sociali meridionali, di accelerare la rincorsa del benessere utilizzando la macchina dello stato, ed il successo di un personale politico e manageriale che si candida per collegare quella speranza al controllo della macchina amministrativa con la quale quel personale politico intende governare lo sviluppo. Gli anni Ottanta avrebbero potuto spezzare questo circolo vizioso ma sono segnati da una polarizzazione delle posizioni, che si contendono il campo, e dalla tragedia del terremoto che si traduce in una grande opportunità di ingegneria istituzionale dagli effetti profondamente distorsivi. Nel 1980 nasce la legislazione "tampone" per fronteggiare i danni del terremoto: essa condizionerà, per molti versi, la futura dinamica economica e politica del paese. Basti pensare che il presidente della commissione di inchiesta parlamentare, sugli effetti di quella singolare stagione, una specie di euforico tramonto delle illusioni stataliste, diventerà presidente della Repubblica. Eppure, nel 1984, come ricorda Petriccione, il presidente del Consiglio in carica, Bettino Craxi, "con una lucida intuizione politica ma senza indicare le procedure capaci di dare concretezza ad un simile disegno", scioglie la Cassa del Mezzogiorno: di nuovo con una convergenza oggettiva tra la cultura dei socialisti, che si ritengono autonomi dal rapporto con i comunisti, e della cultura cattolica, che si riconosce in una prospettiva di democrazia liberale.

Non deve sorprendere, dunque, che, anche se in termini preterintenzionali e non certo per simpatie politiche od affinità personali, lo spalding partner di Craxi, in questo caso, sia stato il senatore Beniamino Andreatta che apre, contemporaneamente, il processo, rivelatosi ultraventennale, per la privatizzazione delle banche pubbliche, la liberalizzazione del mercato del credito e l'autonomia della banca centrale dall'obbligo di rifinanziare il disavanzo della finanza pubblica. Questo progetto di modernizzazione, che rappresenta una vera e propria reazione alla convergenza verso soluzioni marcate da un profondo statalismo ed alimentate nel periodo dei governi di unità nazionale, non genera risultati negli anni Ottanta e si infrange sugli scogli della crisi valutaria e politica del 1992: l'uscita dagli effetti della quale è fatto ancora incerto nella cronaca quotidiana di oggi. La ulteriore deriva statalista, alimentata dalla legge per fronteggiare i danni generati dal terremoto, conduce, parallelamente, alla creazione di un'Agenzia che sostituisce, in peggio, la vecchia Cassa. Meritano di essere segnalati al lettore, in questa ricostruzione tra economia e politica, che ci viene proposta da Sandro Petriccione, un tratto sostanziale delle sue tesi ed una convergenza di giudizio con un altro commentatore delle vicende economiche del Mezzogiorno. Il tratto sostanziale è quello di avere individuato con nettezza il limite economico, e non sociologico e descrittivo, del fallimento osservato. La diagnosi e le intenzioni di Petriccione si legano, come dicevamo, con una singolare coincidenza, alla riflessione autocritica che viene sviluppando un altro protagonista delle politiche per il Mezzogiorno: anagraficamente molto distante da lui.

Vengono in mente, infatti, leggendo i giudizi di Petriccione sulla relazione tra ciclo politico e ciclo economico nel Mezzogiorno, alcuni recenti giudizi di Fabrizio Barca, già dirigente della banca centrale, poi al tesoro con Ciampi per varare la "nuova programmazione" ed il meccanismo dell'ultimo quadro comunitario di sostegno, noto nella pubblicistica come Agenda 2000. Ora consulente del ministro Visco. Anche Barca legge il trapasso dal dirigismo nittiano di Menichella e Saraceno verso l'aspirazione "pianificatoria", aperta da Ruffolo e proseguita con i piani di settore e la cultura dei governi di unità nazionale, diretti dal senatore Andreotti. E legge la frattura craxiana, che inaugura una politica economica aperta allo scambio di conoscenze ed alla negoziazione degli interventi tra una pluralità di attori. Barca ritiene anche che l'intuizione craxiana non abbia saputo trascendere la dimensione di una eccessiva privatizzazione dello scambio tra potere politico ed interessi individuali. E pensa che esista un vizio originario, nella separatezza dalla pubblica amministrazione degli esperimenti istituzionali di Menichella e Saraceno, e vede in quel vizio la tara che apre la strada alle future degenerazioni.

Petriccione al contrario non condividerebbe questo giudizio perché egli ha sperimentato la possibilità di lavorare dentro gli spazi aperti da quella separatezza e ne ha ricavato la sensazione che l'unica strada per difendersi dalla collusione degli interessi, alimentata dalla burocrazia pubblica e dal degrado della politica, sia quella di ridimensionare il peso dello stato nell'economia. Ed infatti, al contrario di molta parte della attuale classe dirigente meridionale, Petriccione, che non aveva condiviso il "libro dei sogni" di Giorgio Ruffolo, si guarderebbe dal considerare gli attuali programmi, alimentati dai fondi europei, come un disegno concluso dello sviluppo possibile. Per quanto malata di burocrazia e di ricordi, duri a morie, alimentati dalla cultura della programmazione, la politica economica comunitaria indica come razionalizzare la spesa pubblica ma ritiene valori fondanti del suo esperimento la tutela della competizione e la libera iniziativa. Fabrizio Barca riconosce questa radice ma, proprio questo riconoscimento lo porta a guardare con occhio critico l'esperienza degli anni Novanta. E' ragione di conforto, tuttavia, dopo il tramonto del Ventesimo secolo, vedere possibili convergenze intellettuali lungo l'orizzonte del nuovo secolo che nasce. L'unica speranza realistica di riportare il Mezzogiorno sulla via della crescita, infatti, è quella di lasciarsi alle spalle sia i fallimenti del sogno dirigista che l'incertezza, la frammentarietà e gli errori dell'ultimo decennio di un secolo inconcludente.

1 maggio 2001

maloci@tin.it

Sandro Petriccione, "La marcia nel deserto. Il Sud a 138 anni dall'unità d'Italia", Tullio Pironti Editore, Napoli 2000, 124 pagine, lire 20.000.

(da Ideazione 2-2001, marzo-aprile)







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