I "buoni investimenti" e il popolo di Seattle
di Giuseppe Pennisi

Nonostante la ripresa delle quotazioni sui maggiori mercati dell'ultima settimana, le prospettive restano incerte sia per la finanza sia per l'economia reale. L'Economist si chiede se "il mondo non stia viaggiando verso la sua prima recessione mondiale", differente da tutte quelle precedenti (almeno a partire dagli anni Quaranta) in quanto in passato, quando una parte dell'economia internazionale segnava il passo, un'altra accelerava. Ciò plasma le aspettative degli operatori. A New York, David Tice, manager del Prudent Bear Fund, sottolinea che il Dow Jones e il Nasdaq cadranno molto più in basso (di quanto non siano scesi negli ultimi giorni). A Hong Kong la newsletter "Gloom, Doom e Boom" ("Scuro, disastro e successo", testata eloquentissima) di Marc Faber vede svalutazioni a catena (Argentina, Cina, Usa) come nuove determinanti di guai, ove non bastassero quelle già in atto. A Londra, la Blevinks Franks International Ltd avverte che anche comparti tradizionalmente buoni come i trasporti sono a rischio.

Tra tante sciagure finanziarie (vecchie, nuove o solo annunciate), c'è un settore dell'investimento internazionale di cui pochi, anzi pochissimi, si stanno accorgendo: i fondi "davvero etici". Cosa intendiamo? Quei fondi comuni d'investimento che hanno come sola ed esclusiva ragione sociale quella di investire in imprese che seguono standard rigorosi in materia di ricadute sociali, ambiente, promozione delle fasce deboli e simili. I fondi "davvero etici" si distinguono dai fondi etici (quali quelli creati da numerose banche e finanziarie europee, in generale, ed italiane in particolare) che costituiscono solo sportelli e valvole di sicurezza "buoniste" di istituti che, con altre e ben più cospicue leve, sostengono attività quali il commercio di armi, i superalcolici e via discorrendo tutt'altro che "etiche".

Mentre i maggiori indici di borsa vanno a picco, infatti, il Domini 400 Social Index, un indicatore americano dell'andamento di 400 fondi "davvero etici" internazionali, ha proseguito la graduale ascesa dell'ultimo decennio: un rendimento annuo medio del 19 per cento, molto più elevato del 17,4 dello Standard & Poor. Anche il più ristretto Dow Jones Sustainability Group Index (200 Spa) va molto meglio della media dell'azionario. L'investimento "davvero etico" ha rappresentato - afferma un'inchiesta del Social Investment Forum - un cuscinetto per i risparmiatori Usa: assorbe 2mila miliardi dei 16mila miliardi di dollari gestiti da fondi comuni. Ad una conclusione analoga giunge, nel Regno Unito, il Social Investiment Forum: il 59 per cento delle attività finanziarie dei fondi pensione britannici (investitori portati a guardare al lungo termine) vanno in risparmio gestito in modo "davvero etico". Internet è diventato uno strumento importante per guidare i rispiamatori ed orientarli nella giungla di fondi "davvero etici" o sedicenti tali: tra i siti internazionali più visitati, www.socialinvest.com, www.sustainability-index.com, www.csr-wire.com. Alcuni tra i maggiori fondi etici hanno siti che consentono agli investitori di scegliere tra portafogli etici pre-confenzionati:www.foliofn.com.

Quali le caratteristche che stanno consentendo ai fondi "davvero etici" di resistere all'Orso? Certamente non solo le buone intenzioni. Dato che investono in Spa che seguono standard rigorosi (sotto il profilo morale) di processo e di prodotto, indirizzano i loro impieghi verso imprese consolidate, con tradizione. Tra quelle più frequenti nei portafogli etici, la Nestlé, la Toshiba, la Norsk Hydro, la Danone, la Bayer, la Nortel Network. Proprio quelli che non piacciono - guarda caso - al "popolo di Seattle". 

24 aprile 2001

gi.pennisi@agora.it








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