Il destino probabile del Mezzogiorno
di Massimo Lo Cicero

La vita degli individui, e quindi il loro destino, è quello che capita loro mentre essi progettano di fare altro. Il Mezzogiorno rischia di trovarsi con un singolare destino nei prossimi anni, ma le ragioni di questo probabile evento stanno scritte nel suo passato prossimo e non solo in quello remoto. Il Mezzogiorno rappresenta una parte importante del nostro paese ma le chiavi della politica economica necessaria per generare la crescita di questa importante regione sono fuori dal controllo del nostro governo. E questo potrebbe essere un vantaggio e non un limite nel futuro. Purché si realizzino alcune condizioni di contorno. Il futuro dell'Europa, e dunque dell'Italia, sarà disegnato da tre forze. La prima è un'opzione per la competizione. Essa condurrà progressivamente all'azzeramento del sistema degli incentivi e impedirà forme di compensazione fiscale in loro assenza. A meno di un ridimensionamento della pressione fiscale media, in Italia non c'è stampella possibile se non quella appena varata del credito d'imposta: con tutte le luci e tutte le ombre del caso e fino a quando potrà durare. Chi non ha profitti liquidi accumulati, e non è capace di far percepire alle banche che ne accumulerà (oppure che resterà liquido comunque, perché potrà utilizzare quel credito anche su versamenti che non presuppongono la maturazione di profitti imponibili, come nel caso dell'Iva o dei contributi previdenziali) non riuscirà a investire se verrà "razionato" nell'accesso al credito bancario. Una ipotesi tutt'altro che remota.

La seconda opzione è quella dell'allargamento dell'Europa ai paesi ex socialisti. Essa rappresenta un traguardo importante, perché si collega alla prospettiva di una stabile e persistente stagione espansiva nel vecchio continente. Per questo motivo, nel 2006 o nel 2010 non importa, essa si realizzerà e per il medesimo motivo, oltre che per evitare un incremento nei divari interregionali esistenti tra le varie regioni europee, essa dovrà essere preceduta ed accompagnata da massicci trasferimenti, capaci di finanziare infrastrutture e crescita in quei paesi. Questa "minaccia" incombe sulla società meridionale italiana e si traduce in una singolare percezione linguistica. Nelle regioni del Mezzogiorno vi dicono che stanno per uscire dall' "obiettivo 1": cioè dalla condizione dei paesi in ritardo di crescita, che possono godere di agevolazioni e politiche di sostegno. Si può e si deve rispondere che i traguardi si attraversano per entrare nella meta e non per uscire dalla tensione verso il suo raggiungimento. C'è, tuttavia, una verità in quella percezione: il Mezzogiorno si ritroverà più vicino alla media del reddito europeo perché quel reddito si è ridotto e non perché il Sud d'Italia sia cresciuto più rapidamente delle altre aree depresse nel vecchio continente. Il Mezzogiorno sarà meno lontano dalla media Europa ma questa circostanza diventerà una sorta di illusione ottica: perché il Mezzogiorno non sarà arrivato in quella condizione con le sue forze ma solo per merito dell'aritmetica delle medie. Sembrerà cresciuto ma non avrà mai sperimentato su se stesso l'arte di crescere. L'ordinamento federalista, infine, cioè la terza diga, non fa che accentuare i divari interni: se ognuno utilizza le proprie risorse è difficile che alle regioni più povere spettino più soldi che a quelle più ricche nella ripartizione dei proventi fiscali.

Questa è la scena verso cui si dovrà muovere il treno dell'economia meridionale. Ma da dove viene quel treno? Da un grave ritardo. Negli anni Ottanta, mentre il resto dell'economia italiana scopriva, anche se in termini deformati e inadeguati, i vantaggi della liberalizzazione e del mercato, il Mezzogiorno veniva ingessato in una rete statalista di aiuti e programmi. Complice la legislazione del dopo-terremoto e la parodia dell'Agenzia, che replicò, in peggio, la disciolta Cassa. Negli anni Novanta il Mezzogiorno ha subito i costi dell'aggiustamento deflattivo necessario per conquistare la convergenza europea: né è seguita una lenta crescita, a livello macroeconomico, ed un credit crunch del sistema bancario locale. Sul piano della politica economica, infine, gli anni Novanta si possono dividere in due stagioni. Nella prima metà del decennio, alla logica top down dell'intervento straordinario viene contrapposta una logica bottom up: patti e contratti d'area. La peggiore contraddizione dei quali sta nella regolazione amministrativa che ne propose il Cipe, cioè il governo: meglio sarebbe dire le burocrazie ministeriali. In questo modo è nato un sistema senza logica e senza destino: perché non si può dettare per legge il criterio con cui fare emergere e lasciar manifestare la vitalità imprenditoriale locale. Sullo sfondo, intanto, la riforma degli incentivi, cioè la legge 488, garantiva comunque una distribuzione di risorse alle imprese e consentiva alle "piante imprenditoriali" di sopravvivere alla gelata necessaria perché l'Italia fosse ammessa in Europa. 

Nella seconda metà degli anni Novanta prende corpo un'alternativa che, sovente, viene confusa, per motivi terminologici, con la stagione dei patti e contratti d'area. Si tratta del Quadro comunitario di sostegno: l'ultima grande distribuzione di fondi europei, affidata alle amministrazioni regionali, prima dell'allargamento dell'Unione Europea e della uscita dall'obiettivo 1. La mitica "Agenda 2000" nel gergo quotidiano. Si tratta di una scommessa estrema che, cumulata con l'estremo tentativo di attivare un programma straordinario di investimenti, dopo la gelata degli anni Novanta e prima dell'espansione ad est, rischia di essere troppo rischiosa. Ma c'è anche un'altro rischio di carattere più operativo. E' vero quello che dice Carlo Trigilia, quando afferma che le storie di successo, nel passato recente del Mezzogiorno, si trovano lontano dalle politiche pubbliche. Dopo quello che abbiamo detto non potrebbe essere altrimenti. Ma con chi, dove e di che dovrebbero parlare gli attori di successo che volessero rispondere alla "provocazione" del Quadro comunitario di sostegno? C'è una grande tensione in una parte dell'amministrazione pubblica che dovrebbe interloquire con questi attori.

Purtroppo non esistono ancora procedure né strutture operative per intercettare le conoscenze e i progetti di costoro. E c'è un altro piccolo problema: per ogni funzionario intelligente e disponibile della pubblica amministrazione ce ne sono, a essere ottimisti, almeno cinque, e altri cinque, satelliti dei primi cinque ed estranei alla macchina dello stato, che è meglio non trovare sulla propria strada. La conclusione è dura ma quasi inesorabile. La macchina della pubblica amministrazione è assai lontana dalle condizioni di efficienza che sarebbero necessarie per reggere l'integrazione europea: e questa fragilità organizzativa e culturale è solo lo specchio di una fragilità sociale ed economica. Cullati dallo slogan "piccolo è bello" abbiamo dimenticato la sfida della crescita e rappresentiamo, in Europa, la peggiore condizione di funzionamento del Welfare State "renano": che prevede grandi coalizioni tra banche e imprese e una macchina amministrativa di stampo austro-ungarico.

Paradossalmente, insomma, entrare in Europa ha migliorato la condizione oggettiva del Mezzogiorno, ma non solo perché ci avviciniamo aritmeticamente alla media come recitano i troppo ottimisti. La frazione del reddito prodotta nel Mezzogiorno è un quarto di quello nazionale italiano. La frazione del consumo, e quella della popolazione, si avvicinano a un terzo. Questa distanza tra produzione e consumo, indotta dalle politiche assistenziali gestite dal nostro stato nazionale, si riduce di molto vista da Bruxelles. La produzione, meridionale, in percentuale su quella europea, è più vicina alla quota del consumo meridionale su quello europeo: anche se è ancora inferiore. Questo aumenterebbe le opportunità oggettive di una crescita più equilibrata ma abbiamo appena visto che la nostra fragilità maggiore è di tipo soggettivo: riguarda le capacità della pubblica amministrazione nazionale e la tenuta del tessuto economico, troppo frammentato per essere davvero efficiente, oltre che la distanza che separa il sistema finanziario domestico da quello europeo. Ecco perché il destino del Mezzogiorno potrebbe essere assai diverso da quello che oggi molti sperano, dicono o promettono che possa essere.

10 aprile 2001

maloci@tin.it








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