Usa, la parabola della corporate governance
di Stefano da Empoli


Mentre in Italia si discute da molti anni sull'opportunità di far partecipare i lavoratori al capitale azionario con pochi riscontri pratici, negli Stati Uniti il concetto è già diventato realtà in ben 11mila imprese. Tra queste, l'esempio più eclatante è quello di United Airlines, dove i dipendenti hanno fatto il loro ingresso nelle stanze dei bottoni quasi sette anni fa acquistando il 55 per cento delle azioni. Un evento che si guadagnò al tempo le prime pagine dei giornali e, a colpi di profitti crescenti, gli apprezzamenti della Borsa e degli esperti. Puntuale è arrivata nel 1996 una copertina di Business Week, dove sotto al titolo United We Own campeggiava la fotografia dell'amministratore delegato democraticamente in camicia e attorniato da una rappresentanza simbolica di lavoratori, composta da due donne e un afro-americano, insieme alla presenza rassicurante di un lui pilota Wasp (per la serie è vero che siamo politically correct ma l'aereo arriverà a destinazione sano e salvo).

Tutto sembrava funzionare in base al massimo rispetto reciproco, con dipendenti che accettano senza battere ciglio una busta paga meno pesante in cambio di azioni della società e il management che elimina limiti di peso e di età per steward e hostess. A pagare è stato forse il cliente che si imbarcava con qualche velleità estetica ma tutto sommato era un dettaglio trascurabile di fronte alla portata della vicenda che si andava dipanando: negli Stati Uniti, covo del turbo-capitalismo, la favola vissuta alla United poteva dare l'esempio per avviare a lieto fine il rapporto spesso scorbutico tra capitale e lavoro.

Poi, improvvisamente, qualcosa è andato storto. All'aumentare dei profitti, le varie categorie di lavoratori non si sono accontentate di dividendi e capital gains più ricchi. Hanno preteso l'aumento dello stipendio, con un ritorno istantaneo al ménage tradizionale tra padroni e lavoratori, fatto di negoziati notturni in maniche di camicia e di alta conflittualità intra-aziendale. Dopo i primi scioperi dei piloti, devastanti in uno spazio competitivo come i cieli statunitensi, la United ha ceduto, accordando aumenti fino al 40 per cento. A ruota non si sono fatte attendere le richieste di macchinisti e attendenti di volo. Fatto sta che tra scioperi e aumenti, i profitti sono in discesa. Che diventa quasi picchiata se si analizzano i dati relativi alla puntualità dei voli, che dall'80 per cento del 1997 è passata al 60 scarso del 2000. Oggi, sia il management che i sindacati parlano con una certa dose di disillusione dell'esperimento di corporate governance, che andrà avanti ma in acque molto più incerte rispetto a quelle idilliache di qualche anno fa. Forse per alleviare le ferite interne, United ha intanto comprato USAir, uno dei pochi grossi vettori americani rimasti indipendenti. Non è detto però che la mossa sia utile a distendere i rapporti tra management e sindacati. Per ora anzi li ha peggiorati, visto che una parte della rappresentanza dei lavoratori ha condotto una dura opposizione al takeover di USAir.

Quali insegnamenti è possibile trarre dalla vicenda di United? Senza voler generalizzare a partire da un caso singolo, peraltro ancora in evoluzione, è possibile però tracciare un identikit scarno ma chiaro della tipica impresa americana di successo governata dai lavoratori: ha meno di cinquecento lavoratori e nel 95 per cento dei casi non è sindacalizzata. United ha oggi più di centomila lavoratori, che aderiscono non ad uno ma a diversi sindacati. Non è un caso che nel settore dell'acciaio, imprese con caratteristiche simili a United, come la Weirton Steel Corporation, si siano recentemente allontanate dal concetto di compartecipazione dei lavoratori alla proprietà azionaria. Un assetto che può funzionare per piccole e medie imprese trova vita molto più difficile a livello di grandi società. Dove il dipendente avverte il suo pacchetto azionario come una goccia nello stagno. Questo è quello che sembra narrarci la storia recente di United Airlines, almeno per ora. E che non deve necessariamente scoraggiare il dibattito di casa nostra, visto il ricco scenario di piccole e medie imprese che abbiamo. A patto che qualsiasi nuovo modello azionario sia deciso su basi volontarie e che chi vuole aderirvi lo faccia senza esservi condotto per le orecchie. Perchè servirebbe soltanto ad ottenere qualche copertina in più, all'inizio per celebrare il successo dell'esperimento e poi per raccontarne il fallimento.

20 marzo 2001

stefanodaempoli@yahoo.com



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