"Ciechi che comandano e voyeur senza potere"
intervista a Marco Revelli


"Non da oggi, ma almeno da un anno e mezzo, da Seattle in poi - spiega Marco Revelli, professore di scienza della politica all'Università di Torino - emerge una immagine più articolata della globalizzazione. Noi, fino ad un anno fa, eravamo abituati a considerare come unica forma di globalizzazione, quella che oggi potremo definire la globalizzazione dall'alto, la globalizzazione tecnologica delle grandi corporation, dei poteri forti e delle grandi agenzie. Da un po' di tempo a questa parte emerge anche una globalizzazione dal basso. O meglio emerge la presa di parola da parte di soggetti che si muovono dentro il mondo ormai globalizzato ma con un discorso critico e si fanno portatori di interessi per alcuni versi contrapposti a quelli dei poteri forti".

Insomma, il popolo di Seattle lotta contro la globalizzazione ma è esso stesso globalizzato?

Sì, e mi pare che sia un fatto estremamente positivo, che si esca dalla caratteristica unidimensionale della globalizzazione. Davos non ha più il monopolio di dibattito e del discorso pubblico sulla globalizzazione. Dopodiché io mi rendo perfettamente conto che al polo opposto si muovono culture e forze molto diverse fra loro. Come, per altro verso, contraddizioni ci sono anche tra gli apologeti della globalizzazione dall'alto. Fra i critici della globalizzazione c'è chi la rifiuta in toto e chi intende stare dentro il processo per influenzarlo. Mi pare che ultimamente prevalga quest'ultimo atteggiamento. Ormai si tratta di soggetti globalizzati, anche se legati a territori o interessi specifici, come i Sensterre brasiliani e i contadini francesi di Bové. Si tratta di soggetti che prendono atto dell'irreversibilità del processo di globalizzazione e intendono però far pesare al suo interno anche le proprie ragioni e non soltanto quelle tecnocratiche.

Come si comporterà Davos rispetto a tutto ciò?

Ho l'impressione che all'interno dello stesso establishment globale vada prendendo forma la consapevolezza che la vecchia ideologia neoliberista pura, un esclusivo laisser faire globale, non funzioni più. La successione di crisi degli ultimi sei-sette anni è un campanello d'allarme per molti. E' necessario mettere in campo dei correttivi, anche se questi correttivi non possono essere le vecchie ricette professionistiche e i vecchi strumenti di regolazione e di controllo su base nazionale, poiché la situazione che si era costituita nella prima fase della globalizzazione non garantisce di per se stessa lo sviluppo ottimale. Questa è una prima presa di posizione condivisa dagli stessi tecnocrati globali, anche se poi mi sembrano incapaci di prendere misure adeguate per rimediare. Sta anche emergendo la consapevolezza che le grandi elite globali tendono ad essere cieche rispetto alle ricadute e agli effetti dei fenomeni che scatenano ma che non governano.

Che cosa vuol dire?

La compagnia di giro di Davos controlla le macrovariabili del quadro globale ma è assolutamente cieca per quanto riguarda le conseguenze dei processi sul territorio, nei singoli luoghi, nella vita quotidiana della gente. La globalizzazione astrattizza il comando e le sedi del comando che si fanno sempre più lontane dai luoghi della vita quotidiana. Basti pensare alle borse o alle grandi corporation che hanno esternalizzato i loro processi concreti di lavoro e che si limitano a definire le grandi strategie: questo provoca un vero deficit di conoscenza. E' il meccanismo che Hegel descrisse con la metafora del servo e del padrone, con il servo che apparentemente è subordinato al padrone ma che finisce per accumulare una tale conoscenza sui processi tecnici e concreti da avere materialmente in mano le redini del comando. Nella globalizzazione sta avvenendo in parte questo: le mega-elite globali, nell'epoca dell'apparente trasparenza assoluta, in realtà sono cieche rispetto ai processi antropologici, sociali, microeconomici. E questi, invece, vengono esperiti dalle organizzazioni non governative, dai volontari, dai militanti delle organizzazioni dei diritti civili, insomma da chi sta sul territorio, da chi sta nelle pieghe della società e quindi verifica quali sono le conseguenze. La polarità Davos-Porto Alegre è una polarità tra ciechi che comandano e voyeur con poco potere ma grandi capacità di lettura dei processi.

Ci può essere dialogo fra i due poli?

Non so se ci potrà essere dialogo, perché le logiche sono spaventosamente diverse. A Davos si lavora sui macroaggregati globali e a Porto Alegre si lavora sulle microspecificità territoriali. A Davos si incontrano dei soggetti astratti con grandissimo potere, a Porto Alegre ci sono persone, realtà portatrici di interessi molto ben definiti. Non so quale possa essere il dialogo fra realtà antropologiche così diverse e così polarizzate. Sicuramente questi due poli sono in grado di influenzarsi a vicenda da lontano, nel senso che d'ora in poi a Davos non si potrà fare a meno di essere informati e preoccupati dei processi che avvengono nel popolo di Seattle e Porto Alegre. E quelli che si muovono a Seattle e Porto Alegre dovranno studiare con molta attenzione comportamenti e strategie di quelli di Davos. (c. lan.)

20 febbraio 2001

appioclaudio@yahoo.com

 


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