Italia. Dopo Nassiriya
di Aldo G. Ricci

Oltre e al di là del dolore che ci unisce, tutti o quasi, per la strage terroristica dei militari italiani in Iraq (e che , non va dimenticato, si aggiunge alla lunga lista dello stillicidio quotidiano di vittime di altri contingenti nel teatro) ci sono due problemi di fondo che emergono dal più grave episodio luttuoso che le nostre Forze Armate abbiano registrato negli ultimi anni. Comincerò dal primo, quello a cui, forse, è più facile trovare risposte. Nelle ore successive hanno cominciato ad emergere degli interrogativi che richiedono risposte precise ed eventualmente interventi altrettanto decisi. Riassumendo, l’interrogativo è semplice: sono state adottate tutte le misure necessarie alla protezione della base italiana? E ancora, era ammissibile la scelta di collocare la base nel centro cittadino per una scelta psicologica di farsi vedere tra la gente?

E’ vero che i nostri soldati sono “operatori di pace”, come li ha definiti l’Osservatore Romano, segnando una correzione di rotta profonda rispetto alle posizioni iniziali rispetto al conflitto iracheno. Ma è altrettanto vero che in quell’area è in atto un conflitto unilaterale del terrorismo internazionale coalizzato ormai con i seguaci di Saddam contro le forze presenti sul terreno e tutte le organizzazioni, umanitarie e quant’altro, che in qualche modo sostengono lo sforzo per la normalizzazione del paese. E allora. Sono state osservate tutte le regole previste per una situazione di guerra? La risposta a questa domanda è essenziale non solo per una ragione di giustizia nei confronti dei caduti, ma anche, e forse soprattutto, per quelli che restano e che, data la situazione, ormai non possono fare altro che restare, sperando che la strategia politica sia in grado di far fare alla situazione quel salto d’intelligenza che fino ad oggi è mancato, impantanandosi in una guerriglia quotidiana che, così condotta, può solo prolungarsi e degenerare.

Di qui si arriva al problema dei problemi, il famoso: che fare? Nel quale sono accomunati, come ha giustamente ricordato Galli della Loggia sul Corriere della Sera, favorevoli e contrari all’intervento, perché se errori vi sono stati, di strategia o di tattica, quel che è certo è che mollare porterebbe a una catastrofe annunciata. Il passaggio di mano a un esecutivo iracheno a breve termine previsto dalla nuova strategia americana è certo un bel concetto, ma la discriminante sta tutta nella sua attuazione, nel come, quando e con chi. Perché il problema che non si vede mai affrontato in tutti i ragionamenti è quello del rapporto con il terrorismo.

La contraddizione di fondo è infatti evidente. Il terrorismo, che è certamente minoritario nel mondo islamico, gode però di una rendita di posizione strategica che non accenna a incrinarsi. Le sue azioni puntano a destabilizzare l’Occidente per rovesciare i regimi islamici moderati e sostituirli con altri integralisti. Per questo colpisce l’Occidente e i moderati. Il mondo islamico moderato non è in grado di estirpare da solo il cancro che lo rode, ma se l’Occidente, colpito, contrattacca o attacca preventivamente, secondo la strategia Bush, si trova di fronte un magma in cui le distinzioni si perdono e viene a interpretare, come in Iraq, la parte dello straniero, dell’occupante, del simbolo del male, che trova nemici anche in strati che potenzialmente non sarebbero favorevoli all’integralismo.

Questo mi sembra il nodo da sciogliere: al di là dell’aspetto militare della lotta al terrorismo, la battaglia strategica va combattuta a livello politico, trovando il modo di coinvolgere l’islam moderato in questo scontro epocale, perché l’Occidente da solo non può vincerlo e rischia, altrimenti, di avvitarsi in una spirale dagli esiti imprevedibili. I prezzi da pagare ci saranno, ma che almeno servano davvero allo scopo!

19 novembre 2003

 

stampa l'articolo