La lunga guerra entra in una fase cruciale
di Pierluigi Mennitti

Adesso che l’offensiva del terrorismo islamico si sta concentrando sul quadrante mediterraneo e mediorientale, con l’Iraq libero e la Turchia laica sotto attacco, risuonano profetiche le parole di George Bush all’indomani dell’11 settembre. Sullo sfondo di Ground Zero ancora fiammeggiante, il presidente americano lanciò la controffensiva tracciando le linee di quella che sarebbe stata la lunga guerra al terrorismo islamico. Conviene andarsi a rileggere quelle frasi per rinfrescarsi la memoria ed evitare di cadere nella trappola di chi vuol far credere che l’Occidente (o almeno quella parte di Occidente che ha deciso di prendersi sulle spalle la responsabilità di contrastare la più grave minaccia del Ventunesimo secolo) non sappia cosa fare. Sarà una guerra lunga e difficile, disse Bush, che prevedrà fasi diverse contro nemici diversi, comporterà attacchi militari a quei paesi che covano al loro interno i gruppi del terrore (Afghanistan, Iraq) e attacchi mirati a organizzazioni terroristiche, militanti, centri d'addestramento. Mirerà a contrastarne la potenza militare, il collaborazionismo politico da parte di Stati canaglia, il sostegno finanziario da parte di Stati e istituti creditizi che tramano nell’ombra. Impegno militare e diplomatico, intelligence e spionaggio finanziario: ogni mezzo sarebbe stato messo a disposizione degli Alleati per affrontare una guerra di tipo nuovo. “Sarà una guerra lunga e difficile che potrà durare anche dieci anni – concluse Bush - vivremo degli alti e dei bassi, dovremo sopportare controffensive anche dolorose. Ma una cosa sappiamo: alla fine sconfiggeremo i terroristi e vinceremo questa guerra”.

Sarebbe bene rileggere queste parole in fasi come quella attuale: la difficoltà e la complessità di una guerra a una rete di gruppi terroristici e non a uno Stato ben definito era ben presente alla dirigenza americana fin dalle ore successive allo spaventoso attacco a Washington e New York e assume solo una squallida valenza polemica l’accusa agli Usa di essere finiti nel pantano. Si sapeva benissimo di andare a finire in un pantano, si sapeva di andare in guerra, tutte le guerre sono dei pantani: solo che di fronte a una minaccia vitale per le nostre democrazie, alcuni hanno deciso di sporcarsi le mani e di combattere questa battaglia di libertà, altri sono rimasti alla finestra, quando quella finestra non l’hanno chiusa per non vedere, per non sapere. A Parigi e a Berlino le stanze dei politici sono buie da tempo.

E’ la guerra bellezza. Dopo le stragi di Nassiriya e di Istanbul anche a Roma e ad Ankara hanno capito che non c’è spazio per vie di mezzo. Chi ha deciso di far parte della Coalition of Willings è sempre in prima linea perché ogni fronte di questa guerra è un fronte militare. Sia che si faccia peacekeeping aiutando la ricostruzione civile ed economica di una nazione, sia che si ingrossino le truppe degli Alleati con contingenti anche ridotti, sia che si stringa il giro di vite sui rappresentanti delle cellule terroristiche dormienti sul proprio territorio, sia che si prosciughino conti bancari che sponsorizzano i kamikaze della morte. E’ la guerra e come tale va affrontata. Nell’Iraq liberato dove al-Qaeda ha fatto convergere nuclei sparsi delle proprie cellule nel tentativo di impedire l’affermazione di un paese arabo laico e democratico nel cuore del Medio Oriente. Nella Turchia euro-asiatica, dove la presenza di uno Stato laico di religione musulmana, membro della Nato, desideroso di entrare nell’Unione Europea, stretto alleato politico-militare di Israele, testimonia la possibilità di un Islam liberale assai diverso dall’inferno di sabbia e silenzio che sogna Bin Laden.

L’offensiva di queste ultime settimane è stata ampia e composita. Ryad, Nassiriya, Istanbul: nel mirino sono finite l’Arabia Saudita e la Turchia, l’Iraq, gli Stati Uniti e l’Italia con le loro forze militari, la Gran Bretagna con i suoi consolati e le sue banche e Israele con le sue sinagoghe. Troppo vasto lo spettro degli obiettivi, tanto da far credere che le colonne del terrore non agiscano più sotto un’unica direzione e all’interno di un’unica strategia, resa impossibile dalla dissoluzione della centrale operativa in Afghanistan, ma un po’ per conto proprio, colpendo laddove le misure di sicurezza sono più vulnerabili. L’Italia deve rivedere al più presto il sistema difensivo delle sue basi militari in Iraq, abbandonando l’illusione dell’impunità guadagnata con un atteggiamento benevolo verso la popolazione, perché il pericolo non viene dagli iracheni ma dai terroristi stranieri piombati in Iraq. E tutti devono ulteriormente rafforzare il sistema di sicurezza interno, quell’homeland defence che gli americani hanno messo a punto con grandi investimenti dopo l’11 settembre, per evitare altre Istanbul.

E’ in corso in queste settimane un nuovo livello di scontro frontale nell’ambito della lunga guerra: una fase che non giunge inattesa e che molti segnali dell’intelligence preannunciavano. Se questa consapevolezza torna a farsi strada nelle opinioni pubbliche e nelle classi dirigenti dei paesi della Coalizione e non solo in quella americana, la guerra potrà essere vinta. Nei momenti più drammatici della seconda guerra mondiale Winston Churchill indirizzò poche frasi ai soldati e ai civili del proprio paese: “Questa è una guerra fatta da combattenti che ci sono sconosciuti, ma tutti devono lottare senza perdere la fiducia o venir meno al proprio dovere”. La saldezza resta uno degli ingredienti fondamentali durante la battaglia. Non facciamoci illusioni: da due anni siamo entrati in una fase drammatica. Ne potremo uscire solo vincendo.

19 novembre 2003

pmennitti@ideazione.com
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