“Il terrorismo colpisce obiettivi militari, politici e psicologici”
intervista a Ludovico Incisa di Camerana di Cristiana Vivenzio

La risoluzione della situazione irachena è condizione necessaria per frenare l’escalation del terrore internazionale. Lo sostiene chiaramente l’ambasciatore Ludovico Incisa di Camerana. “Il ruolo centrale dell’Iraq nell’attuale momento internazionale è ormai indubbio perché tale centralità è valida sotto diversi aspetti. Centrale è infatti il suo ruolo nel conflitto tra il mondo occidentale e il terrorismo: un conflitto che, come ha dimostrato l’attentato contro le truppe italiane a Nassiriya, è incompatibile con ogni forma di neutralismo e di radicalismo pacifista. Centrale è egualmente il suo ruolo nel futuro assetto strategico del Medio Oriente più ancora della Palestina dove la costruzione del muro, iniziativa non del tutto saggia, ha peraltro avuto l’effetto di indurre, almeno temporaneamente, il fronte arabo-palestinese a riflessioni più realistiche, permettendo i primi volonterosi approcci verso Israele del nuovo primo ministro Abu Ala. Centrale il suo ruolo come banco di prova della capacità degli Stati Uniti e delle potenze europee di trovare una soluzione concordata, non solo per l’Iraq ma per tutte le operazioni politiche e militari imposte dai nemici dell’Occidente. Centrale, infine, il suo ruolo nel destino delle formule di collaborazione universale incarnate delle Nazioni Unite, sempre più screditate dalla loro inefficacia di fronte alle nuove guerre del secolo XXI.

La priorità comunque è data dalla guerra contro il terrorismo

Certamente anche a causa della terribile sequenza che, nel corso di pochi giorni di questo novembre, è stata contrassegnata: l’8 dalla tragica irruzione in un quartiere residenziale di Riad di un commando kamikaze, il 12 dall’assalto ad un presidio italiano in Iraq, il 15 dall’attentato alle due sinagoghe ad Istanbul, il 19 ancora attentati nella città turca. L’evidente concatenazione esistente tra questi eventi dimostra che l’offensiva terrorista rispecchia una strategia complessa, non solo diretta contro bersagli militari e politici, ma per nulla priva di obbiettivi psicologici. E’ quanto risulta da un’analisi dei tre episodi. 

Che cosa intende, ambasciatore?

L’attentato di Nassiriya rientra nel terrorismo militare, nell’attacco suicida a basi militari. Si mira ad alzare il tiro, ad aumentare al massimo con la guerriglia la vulnerabilità delle guarnigioni militari occidentali in Iraq, costringendole prima o poi a reagire energicamente e indiscriminatamente, colpendo la popolazione, benché essa sia non meno vittima dei soldati stranieri. Tale terrorismo può essere sgominato solo da forze locali, nazionali ovviamente irachene, donde una necessità inderogabile: la ricostruzione rapida di quell’esercito locale improvvidamente disciolto e liquidato nell’euforia della guerra lampo della primavera scorsa.

Mentre gli altri attentati?

Gli attentati di Istanbul sono un barbaro esempio di terrorismo, ma di terrorismo “politico” ossia rispondente a un calcolo preciso. Con l'attacco alle sinagoghe si è voluto scientemente sottolineare l’inammissibilità di una presenza religiosa ed etnica estranea in un paese governato da un governo islamico, anche se moderato. Si sono risuscitati i fantasmi delle persecuzioni subite, in una storia turca non remota, da minoranze religiose, come i cristiani armeni e greci e da minoranze etniche come i curdi. Le stragi avvenute nell’ex capitale dell’impero ottomano preannunciano, insomma, una vita non facile per un paese come la Turchia, che non ha ancora completamente e chiaramente definito al suo interno il rapporto tra il potere civile, tendenzialmente confessionale e non privo di nostalgie arcaiche, e un potere militare, laicista e modernizzante ma fortemente nazionalista. Il fatto che la Turchia abbia assunto, nonostante l’appoggio avuto dagli Stati Uniti nell’Alleanza atlantica e nei rapporti con l’Unione Europea, un atteggiamento equivoco durante la campagna contro l’Iraq di Saddam Hussein, impedendo lo spiegamento dell’esercito americano nel territorio iracheno confinante, ha probabilmente indotto le centrali terroristiche ad identificare nella Turchia un anello debole dello schieramento occidentale e quindi un’area suscettibile di offrire uno spazio propizio a manovre eversive. Da parte sua il governo turco teme soprattutto la costituzione di uno stato curdo indipendente in Iraq, che provocherebbe un aumento delle tensioni interne  riaccendendo un clima da guerra civile nel paese. Tutto questo fa della Turchia il campo operativo ideale per i terroristi.

E l’Arabia Saudita?

In questo contesto strategico si comprende meglio il significato di un’azione terrorista, quella nella capitale dell’Arabia Saudita che non ha registrato, diversamente dagli attentati, a suo tempo perpetrati in altri paesi musulmani, in particolare a Bali in Indonesia e a Casablanca in Marocco, vittime occidentali. Si è voluto, in primo luogo, chiaramente indicare alla ricca borghesia del mondo arabo, non solo saudita, ma anche egiziana, libanese, sudanese, asiatica (è appunto a nazionalità “orientali” cha appartengono le vittime) che la guerra scatenata dal fondamentalismo islamico contro l’Occidente non consente né la complicità con il nemico cristiano e occidentale né l’indifferenza o la neutralità. In secondo luogo in vista di una successione al trono saudita, non troppo lontana, al Qaeda, che ha un’origine e una fonte di finanziamento in un settore tribale locale, non ha esitato ad indicare con la sua sanguinosa impresa che cercherà d’influire sulla successione stessa più con le cattive maniere che con le buone, tanto che alcuni osservatori hanno ravvisato nella sanguinosa scorreria il prologo allarmante di una futura guerra civile. Nel frattempo i fatti di Riad non possono non diffondere un clima psicologico di sospensione, di insicurezza e di inquietudine nel mondo arabo.

Che gioco svolge in questo contesto l’Onu?

Nell’insieme la strategia terrorista ha rivelato in una settimana cruenta, seguita altresì da una recrudescenza della guerriglia irachena, un disegno temibile perché freddamente coerente. Alla risposta inflessibile alla sfida data da Washington e Roma, deve perciò corrispondere una soluzione rapida della situazione irachena. Ma non bastano per questo le rituali evocazioni dell’intervento di una Onu che non ha mai fatto miracoli. Occorre una decisione comune, non influenzata da meschini risentimenti, della “vecchia” e della “nuova” Europa, congiuntamente con gli Stati Uniti. Una volta tanto da capitale del pettegolezzo e dell’inerzia politica Bruxelles dovrebbe trasformarsi per la questione del Medio Oriente in capitale delle idee e dei programmi operativi.

19 novembre 2003


vivenzio@ideazione.com
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