Undici giorni di terrore: la mano insanguinata di al Qaeda
di Barbara Mennitti

Le parole, gli aggettivi, ormai abusati e logori, si ripetono: orrore, terrore, sgomento, indignazione, cordoglio. Le immagini anche: palazzi sventrati, macerie, auto accartocciate, feriti, cadaveri straziati e bare. Tante bare. Cambiano i luoghi, cambiano i nomi, cambiano gli abiti delle persone. Non cambia la rabbia, il dolore, il senso di impotenza. Non cambia la mano di questi seminatori di morte e di odio, per i quali il mondo non sembra mai troppo grande.

La scia di sangue di questi ultimi undici giorni inizia a Riad, Arabia Saudita, la notte fra l’8 e il 9 novembre. Un’autobomba si lancia contro il complesso residenziale di Muhaya, nel quartiere di Wadi Laban. L’esplosione è violentissima, squarcia la notte di Ramadan e sventra il palazzo. Si conteranno 17 vittime, fra cui cinque bambini, e 122 feriti. Prontamente arriva la rivendicazione di al Qaeda. Contrariamente a quanto ci si aspettava, si scopre che il quartiere non era abitato da cittadini occidentali: si trattava sì di stranieri, ma in gran parte arabi. Un’intera famiglia egiziana è sterminata. Questo particolare pone nuovi interrogativi e dà il via a tutta una serie di speculazioni: si tratta di una guerra interna alla dinastia Saudita? Si vuole colpire il più ambiguo alleato degli Usa? Si vogliono colpire gli islamici moderati?

Ma non c’è tempo per trovare una risposta. Nassyria, sull’Eufrate, a metà strada fra Najaf e Bassora, è la città dove è stanziato parte del contingente italiano. I nostri soldati e i nostri carabinieri sono giunti nell’Iraq post Saddam per compiere un’operazione di peace-keeping e hanno quindi ritenuto giusto collocarsi al centro della città, vicini alla popolazione. La mattina di mercoledì 12 novembre due autobombe riescono a forzare il posto di blocco e si fanno esplodere all’interno del quartier generale. Le vittime italiane saranno 19, fra carabinieri, soldati e civili, quelle irachene una decina. L’Italia rimane sgomenta e commossa ad aspettare le 19 bare, quasi a voler ricordare con feroce crudezza che siamo in guerra. Volenti o nolenti. 

Sabato 15 novembre, mentre gli italiani fanno la fila per deporre mazzi di fiori di fronte al Comando dei Carabinieri, per gli ebrei di tutto il mondo è giorno di Shabbat. Anche per quelli di Istanbul, che affollano le sinagoghe di Neve Shalom e di Shishli, nel settore europeo della metropoli turca, un posto dove la convivenza fra diverse religioni non è mai stato un problema. Improvvisamente due fuoristrada carichi di tritolo saltano in aria di fronte ai luoghi di culto ed è una strage. Si conteranno 23 vittime, in gran parte ebrei ma anche passanti musulmani, e 302 feriti. La rivendicazione arriva la sera stessa ad un quotidiano arabo di Londra, da parte delle Brigate del martire Abu Hafs al Masri, le stesse che avevano rivendicato l’attentato dell’agosto scorso alla sede Onu di Baghdad. Abu Hafs, è uno dei dirigenti di al Qaeda, ucciso nella campagna americana in Afghanistan nel 2001. 

Ancora Istanbul, giovedì 20 novembre, alle 10,16 arriva la prima notizia: un’esplosione, un attentato. Poi diventano, tre, quattro, cinque: la città è nel panico, gli ospedali sono nel caos, le agenzie di stampa sono in tilt. Si parla della sede della banca britannica Hsbc, del Consolato britannico, di un centro commerciale, della Borsa, del Consolato israeliano (dove comunque non ci sarebbero stati feriti). Mentre scriviamo il ministero degli Interni turco ha confermato solo gli attentati alla sede dell’Hsbc e al consolato britannico. Ha confermato anche che si è trattato ancora una volta di autobombe e di kamikaze e che il console britannico Roger Short è morto. In questo momento stanno ancora contando le vittime. Sono arrivati a 27 morti e 450 feriti.

19 novembre 2003


bamennitti@ideazione.com

 

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