Medio Oriente. Il futuro di Arafat e del processo di pace
di Rodolfo Bastianelli

Alla fine pure la Road Map si è andata ad infilare in un vicolo cieco. Al pari degli altri piani di pace presentati in questi ultimi tre anni, anche il progetto avanzato dal presidente americano George W. Bush si è dovuto scontrare con la sfiducia reciproca che ormai contraddistingue i rapporti tra Israele e l'Anp e con l'impossibilità dei dirigenti politici palestinesi di trovare un'alternativa ad Arafat. Le dimissioni di Abu Mazen dopo appena ottanta giorni per insanabili contrasti con il presidente dell'Anp, dimostrano come il vecchio leader abbia ancora saldamente in mano la gestione del potere e non intenda essere relegato ad un semplice ruolo di rappresentanza. Il fallimento del tentativo del premier palestinese rischia così non solo di essere l'ultimo colpo inferto ad un processo di pace che, dallo scoppio della seconda intifada, non è riuscito più a ripartire, ma anche di aggravare una situazione già deteriorata.

Le affermazioni rese da alcuni membri del governo israeliano sull'eventualità di procedere all'espulsione o addirittura all'uccisione di Yasser Arafat - anche se il ministro degli Esteri Silvan Shalom si è subito affrettato a dichiarare che si trattava solo di considerazioni teoriche - hanno così riaperto il dibattito su quale potrebbe essere il destino del leader palestinese e quali conseguenze potrebbe avere sui negoziati il suo eventuale allontanamento o la sua permanenza al potere. A sfavore di Arafat giocano oggi molteplici fattori. Il fallimento degli accordi di Camp David nell'estate del 2000 quando rifiutò la proposta di ricevere il 95% del territorio della Cisgiordania quale base del futuro Stato palestinese, l'incapacità di reprimere l'attività dei movimenti più radicali e di impedire le azioni terroristiche suicide compiute da gruppi formalmente legati alla sua organizzazione quali le Brigate Martiri di Al-Aqsa, rendono oggi il leader palestinese del tutto privo di credibilità agli occhi della comunità internazionale. Arafat inoltre non sembra disposto a cedere il controllo sui settori-chiave del governo dell'Anp.

La rete delle rappresentanze palestinesi all'estero fa tuttora capo a Farouq Khaddoumi, un esponente contrario agli accordi di pace e residente in Tunisia, mentre la responsabilità delle forze di sicurezza, sui quali il premier Abu Mazen aveva insistito per assumerne il controllo, continua ad essere saldamente nelle sue mani. Nelle strutture e negli uffici dell'Anp imperversano la corruzione ed il nepotismo, ed una delle ragioni della popolarità di Hamas nei territori sta proprio nel fatto di essere riuscita ad organizzare una rete di servizi sociali e previdenziali ben più efficiente di quella dell'Autorità palestinese. Paradossalmente però l'espulsione di Arafat produrrebbe solo effetti negativi. La popolarità di cui gode è ancora elevata, sia perché nessuno dei dirigenti palestinesi ha il suo carisma, sia per il fatto che agli occhi della popolazione il vecchio leader rappresenta oggi il simbolo della resistenza ad Israele.

Un'azione di forza israeliana provocherebbe quindi non solo un'esplosione di violenza nei territori, ma porterebbe forse allo stesso crollo dell'Anp: in una simile eventualità, infatti, nessun dirigente dialogherebbe con Israele che si troverebbe costretto a rioccupare i territori di Gaza e della Cisgiordania. Sul piano internazionale inoltre né gli Stati Uniti, anche se fortemente critici verso Arafat, né l'Unione Europea approverebbero l'espulsione del leader palestinese. Eppure, secondo quanto riportato dal New York Times in un suo editoriale, (Israel's Threats Against Arafat del 23 settembre) la posizione del leader palestinese non sarebbe più cosi forte come una volta. La popolarità di cui gode deriverebbe più dalla solidarietà per l'essere tenuto in ostaggio dagli israeliani che non da un'effettiva credibilità politica nei suoi confronti. La critica che viene rivolta ad Israele è quindi quella di non aver permesso ad Abu Mazen di presentarsi davanti ad Arafat con dei risultati concreti, quali il congelamento delle colonie, il rilascio di un significativo numero di detenuti politici e l'alleggerimento delle misure di polizia nei posti di confine, che avrebbero permesso al premier palestinese di trattare da un punto di forza. Resta da vedere quali effetti tutto questo provocherà sul futuro dei negoziati. Se da un lato Sharon ha già dichiarato che Arafat non è un leader credibile, dall'altro il presidente dell'Anp non sembra disposto a cedere nessuna delle sue prerogative, mettendo così ogni possibile futuro premier nella situazione in cui si è trovato Abu Mazen, ovvero quella di non aver alcun potere effettivo. Ed è per questo che oggi anche la Road Map si trova bloccata in un vicolo cieco.

26 settembre 2003

rodolfo.bastianelli@tiscali.it


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