La tela di Penelope della Road Map
di Cristiana Vivenzio
La lunga crisi mediorientale non conosce tregua. Dopo le dimissioni di
Abu Mazen e la nomina di uno dei membri del governo più vicini al leader
palestinese Arafat, Abu Ala, l’escalation del terrore è ripresa, più
rapida che mai. Gli avvenimenti degli ultimi giorni non sembrano lasciar
intravedere spiragli di un’evoluzione in positivo, mentre a morire sono
sempre di più vittime innocenti. Il nuovo premier palestinese, che
appena pochi giorni fa ha sciolto la riserva nell’accettare l’incarico
di governo, ha immediatamente chiesto ai vertici israeliani una
riapertura del dialogo. Il governo di Abu Ala, che sarà composto da un
numero ristretto di ministri (tra sette e otto), si è reso disponibile a
fare un primo passo, a suo modo dimostrativo delle intenzioni del nuovo
esecutivo: raggruppare tutte le forze di sicurezza sotto il controllo
del primo ministro. Una richiesta di marca statunitense, che il
predecessore di Abu Ala non era stato in grado di assicurare, anche per
i continui contrasti con il presidente Arafat.
Da parte loro gli israeliani misurano le mosse future. Una delle quali
sembra pendere quota: l’intervento a Gaza, volto a smantellare le
cosiddette infrastrutture del terrore. Si colpirebbe in questo modo alla
base la struttura di Hamas, distruggendo i depositi di armi e di
esplosivo, fino alla cattura o l’uccisione dei leader del braccio armato
su campo aperto. Una iniziativa che sembra trovare sempre più consensi
anche all’interno dell’esausta popolazione israeliana e tra i vertici
governativi e militari. “Se le eliminazioni mirate sollevano ancora
molta discussione, pure l'idea che compierle risponda a una morale
superiore, per cui uccidendo il promotore politico, ideologico,
operativo degli attacchi suicidi si risparmiano molte vite, sta
diventando senso comune”. Il nodo cruciale rimane lui, il vecchio leader
dell’Olp, del quale il governo di Sharon, in una drammatica riunione
d’emergenza del gabinetto di sicurezza, ha chiesto l’esilio. Ma
proseguendo in questa direzione il premier israeliano rischia di andare
a sbattere contro le resistenze americane, che temono una recrudescenza
del terrore e una sacralizzazione del mito Arafat, una volta fuori dalla
fortezza di Ramallah. In questo modo si spegnerebbero le flebili
speranze di proseguire sul sentiero della pace manifestate da Abu Ala.
Inizia ora la fase più difficile, almeno su campo palestinese. Il nuovo
premier sarà impegnato su due fronti: sul piano interno, per ottenere
credibilità internazionale, dovrà dimostrare di essere in grado di
riportare sotto il suo controllo le spinte estremistiche, ma sul fronte
esterno dovrà riuscire nell’arduo compito di restituire ad Arafat, anche
se in misura mediata, un posto al tavolo delle trattative.
In casa Usa, il presidente Bush richiama il suo popolo ad un impegno di
lungo periodo contro il terrorismo, anche se tra l’opinione pubblica
americana, ed anche tra le fila neoconservatrici, c’è chi sostiene che
la crisi mediorientale abbia distolto forze e risorse dall’obiettivo
principale: lo smantellamento della rete del terrore, senza contribuire,
di fatto, a risolvere la crisi in Medio Oriente. Secondo questa
opinione, infatti, l’epicentro del problema terrorismo non è
individuabile tanto nel territorio di Israele ma negli Stati limitrofi.
La strategia del terrore “è un fenomeno guidato e alimentato dall'Iran,
dalla Siria, e dalle fazioni estremiste che si trovano in Arabia Saudita
- ha dichiarato Michael Ledeen in un’intervista - sono loro i mandanti
che lo finanziano, lo sostengono e indicano gli obiettivi generali. Fino
a quando gli ayatollah saranno al potere a Teheran, Assad governerà la
Siria, e tra i sauditi nessuno cercherà davvero di bloccare gli
estremisti, noi non riusciremo a sconfiggere il terrorismo né in
Israele, né in altre parti del Medio Oriente”. Ciò che rimane di fatto è
altro: ognuno piange i suoi morti. Gli americani, quelli dell’11
settembre; i palestinesi le vittime dei raid israeliani, gli israeliani
gli oltre seicento civili caduti in poco meno di tre anni sotto le
bombe cieche di Hamas, Jihad e al Aqsa. E la crisi si fa sempre più
lunga e sanguinosa.
12 settembre 2003
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