Le ragioni di una lunga guerra
di Pierluigi Mennitti
Le immagini dell’11 settembre, che puntualmente ogni anno le televisioni
internazionali ci ripropongono con servizi commemorativi ricchi di
emozione e orrore, hanno il merito di riportarci all’inizio di tutta
questa storia, che si chiama lunga guerra al terrorismo, e che gli Stati
Uniti hanno avviato poche ore dopo aver superato lo shock e il dolore.
L’hanno avviata da soli, con l’Europa titubante (e colpevole di aver
ospitato e allevato sul proprio violatissimo territorio schiere di nuovi
“soldati di Allah”) e convinta che sarebbe bastato attardarsi nel peloso
cordoglio delle vittime americane per riprendere d’incanto la vita così
come era prima. L’hanno proseguita da soli, con l’aiuto sparso e di
facciata di qualche Stato amico e con l’indifferenza dei paesi che
contano in Europa, un’indifferenza divenuta ostilità e che maschera una
totale assenza di analisi e di progetti sul mondo che cambia. La stanno
portando avanti tra mille difficoltà e forse senza la potenza umana,
finanziaria ed economica che sarebbe stata necessaria per sostenere
un’azione tanto lunga e tanto vasta. Eppure nelle critiche che gran
parte degli osservatori internazionali sono oggi pronti a muovere alla
politica di George W. Bush (e che legittimamente trovano spazio anche in
questo numero di ideazione.com che vuole essere uno spazio di analisi e
di confronto anche tra idee differenti) c’è qualcosa a un tempo di
precipitoso e di non detto.
Precipitoso è, all’inizio di una guerra lunga e complessa, fare i
bilanci troppo presto. Negli ultimi tempi questo vizio è divenuto la
regola delle analisi e gli stessi che hanno passato i giorni della
guerra in Iraq a raccontarci che l’avanzata non avanzava, che i piani
erano sbagliati e che quel paese sarebbe divenuto il nuovo Vietnam degli
Usa sono poi stati sorpresi dall’ingresso delle truppe statunitensi a
Baghdad almeno quanto il ministro dell’informazione di Saddam, quello
che raccontava la controffensiva dei soldati iracheni con i carri armati
a stelle e strisce che scorazzavano alle sue spalle. C’è una contrazione
dei tempi che la storia indica come necessari per mettere ordine in un
paese che per ventiquattro anni è vissuto sotto il dominio di un uomo e
della sua cricca di potere. Se prendiamo come riferimento il dopoguerra
in Europa, ci accorgiamo di quanti anni siano dovuti passare in Italia e
in Germania prima che fosse riassorbita la guerra civile, avviato un
processo di pacificazione, tracciato un percorso di ripresa politica,
impiantato un embrione di struttura istituzionale, avviato il
risanamento dell’economia. Anni, non mesi. A Baghdad, invece, chissà
perché, tutto sarebbe dovuto concludersi in cinque mesi e siccome questo
non è accaduto (e nessuno nega che la situazione in quest’ultimo mese
sia divenuta più intricata) allora è certo che gli Stati Uniti
perderanno il dopoguerra, che i piani erano sbagliati e che l’Iraq sarà
il loro Vietnam.
Per il momento non può essere iscritto nella casella dei fallimenti il
fatto di aver impegnato la rete del terrore a difendersi nelle gole
dell’Afghanistan, a ripiegare nella no-man-land del Pakistan, a
disperdersi nei buchi neri africani, a girare alla larga insomma da
quegli Stati Uniti così duramente colpiti l’11 settembre e poi
roboantemente minacciati da Osama novello pastore: ma quelle minacce
sono per il momento rimaste appese alle antenne di Al Jazeera e speriamo
che lo rimarranno a lungo. Di certo, se gli Stati Uniti hanno agito da
soli è soprattutto perché loro e solo loro hanno elaborato gli scenari
derivati dall’attacco dell’11 settembre. E’ ingeneroso addossare alla
pattuglia intellettuale che va sotto all’abusato nome di neoconservative
tutte le colpe del mondo. E andrebbe riconosciuto ad essi il coraggio di
aver provato a interpretare le sfide del nuovo mondo che sono
drammatiche e che nessuno aveva neppure immaginato. Tanto è vero che
molti dormono ancora, considerando questa fase solo una brutta parentesi
alimentata dal sogno imperialista militarista americano, che finirà
quando intellettuali cospiratori, magnati del petrolio, infiltrati delle
multinazionali e politici guerrafondai abbandoneranno le stanze della
Casa Bianca.
Questa brodaglia ideologica, presa dal vecchio catino comunista e
riscaldata a uso e consumo della smemorata giovane generazione di oggi è
l’unica cosa che hanno prodotto gli avversari della linea Bush. Una
brodaglia utile solo a far crescere indisturbato l’estremismo
fondamentalista che ha attaccato l’Occidente. Tra queste due posizioni
il nulla. Perché l’Europa che oggi si vorrebbe di nuovo coinvolgere o
l’Onu che si vorrebbe rimettere in pista sono istituzioni che neppure
sanno dove si trovano. L’insipienza strategica dell’Unione, arroccata
attorno ai timori epocali di Francia e Germania, deprime giorno dopo
giorno i sentimenti europeisti di chi in questa impresa ha veramente
creduto. La grottesca strategia dell’Onu ha portato questa istituzione a
non avere più un ruolo definito ma a rimanere ugualmente esposta di
fronte all’attacco del terrorismo islamico. Imputare a Bush e a un
gruppo di intellettuali anche le colpe dei fallimenti altrui, pare
francamente troppo.
Non è un dettaglio quello che è accaduto l’11 settembre di due anni fa,
non è stato un colpo appena meglio riuscito del solito terrorismo. E’
stata una dichiarazione di guerra messa in pratica con un’organizzazione
capillare che ha dirottato quattro aerei, s’è fatta beffe di sistemi di
sicurezza inefficaci e ha compiuto il più spettacolare atto mediatico di
tutti i tempi causando ben 3mila morti. Ha ragione il capo del
Pentagono, Donald Rumsfeld, quando lamenta che l’opinione pubblica tende
a rimuovere l’11 settembre, a dimenticarlo, a comportarsi come se non
fosse mai accaduto. Non era un videogioco, è accaduto veramente e ha
cambiato la storia di questo secolo. Che la lunga guerra non sarebbe
stata la breve sceneggiatura di un serial televisivo, George Bush
l’aveva detto da subito ai suoi concittadini e al mondo intero: “Durerà
dieci anni, vivrà di alti e bassi, subiremo sconfitte e guadagneremo
vittorie ma alla fine ce la faremo, vinceremo il terrore e restituiremo
ai nostri cittadini la sicurezza e la libertà di una vita normale”. Noi
non c’eravamo fatti illusioni. E siamo ancora qui a seguire gli eventi,
supportando gli sforzi e evidenziando gli inevitabili errori tattici,
partecipi di un confronto nel quale abbiamo messo in gioco le nostre
istituzioni, le nostre libertà e il nostro modo di vivere. Da italiani,
da europei, da occidentali, da americani. Oggi più di ieri.
12 settembre 2003
pmennitti@ideazione.com |