Bush paga il cambio di politica estera
di Giuseppe Mancini

Un duplice fallimento. Dopo due anni di guerra, infatti, il bilancio è negativo per tutti i contendenti: per al-Qaeda, incapace di trasformare gli attentati dell’11 settembre in jihad globale e gli Stati arabi moderati regimi islamisti radicali, traguardi parziali in vista della creazione di un nuovo Califfato guidato da Osama bin Laden e dai suoi pretoriani; ma anche per gli Stati Uniti, che insieme a qualche successo localizzato hanno raccolto solo vittorie illusorie e pesanti sconfitte: l’Afghanistan è in mano ai Signori della guerra e gli stessi Talebani ricominciano a farsi vivi, Osama bin Laden e il fido Ayman al-Zawahiri fanno trekking in mondovisione, la Road map per la Palestina com’era prevedibile non ha portato da nessuna parte, in Iraq regna un’anarchia fatta di guerriglia, attentati terroristici ed estremismi assortiti.

Gli errori dell’amministrazione Bush appaiono evidenti: e lo stesso presidente si è visto costretto a chiedere al Congresso nuovi finanziamenti (l’impressionante cifra di 87 miliardi di dollari, che portano a circa 150 miliardi di dollari il costo della guerra contro l’Iraq) e alle Nazioni unite la legittimità necessaria per convincere i riottosi alleati a venire in soccorso degli americani – con uomini, risorse, soldi, capacità politiche. Errori che, in sostanza, sono il frutto del terremoto politico avvenuto a Washington dopo l’11 settembre. All’approccio tradizionale di politica, realista e pragmatico, annunciato in campagna elettorale e messo in atto nei primi mesi al potere (il vicepresidente Cheney auspicava addirittura un alleggerimento delle sanzioni contro Saddam Hussein), è stato sostituito un approccio fortemente ideologizzato, imperniato sull’idea estremista dell’esportazione dei valori americani nel mondo – democrazia ed economia di mercato – coi bombardamenti e le occupazioni militari. L’approccio dei cosiddetti neoconservatori: un gruppo di influenti personaggi, attivi ma alla fine marginalizzati durante la presidenza Reagan (Paul Wolfowitz, Richard Perle, David Horowitz, Roman Podheretz), con posizioni di governo e di visibilità mediatica, oltranzisti e fanatici, che hanno sfruttato il trauma dell’11 settembre per imporre all’opinione pubblica americana e al mondo intero la propria agenda politica.

La politica del national-building tanto cara agli idealisti clintoniani e sdegnosamente rigettata dai repubblicani, anche da Bush in campagna elettorale, è diventata inaspettatamente l’obiettivo primario di Washington: ma senza che esistessero le capacità operative, le risorse materiali, la pianificazione e soprattutto l’appoggio internazionale per trasformare gli ambiziosissimi ma fumosi progetti in afferrabili realtà. E così, invece di concentrarsi sul consolidamento del primo fronte aperto, quello dell’Afghanistan, si è scelto di immischiarsi di nuovo nel conflitto tra israeliani e palestinesi: non per proporre un piano mutuamente accettabile, ma attraverso un percorso di pace inconcludente che non ha dato nulla ai moderati palestinesi e mille pretesti per scatenarsi agli estremisti dei due schieramenti (ai terroristi di Hamas e della Jihad islamica da una parte, al movimento dei coloni ebrei e degli ultranazionalisti dall’altra).

Non solo: i neoconervatori hanno deciso di andare oltre, andando a invadere e a occupare l’Iraq di Saddam Hussein (come avevano auspicato fin da 1996) nonostante gli appelli alla ragionevolezza della comunità internazionale. Ragionevolezza che consiste in una semplice considerazione: quando si distrugge un sistema di potere occorre averne un’alternativa pronta, altrimenti il potere che non c’è più viene sostituito dal caos e dall’anarchia. Ma i neoconservatori hanno deciso, piuttosto, di ascoltare i fuoriusciti iracheni ben felici di accaparrarsi poltrone e contratti per la ricostruzione: che avevano paventato l’esistenza di micidiali arsenali chimici e batteriologici mai trovati, che avevano promesso un’accoglienza a braccia aperte da parte del popolo iracheno per i “liberatori”, che avevano definito l’intera operazione una passeggiata. Ma come si può pensare di costruire un sistema democratico in poco tempo, senza adeguata pianificazione, senza sufficienti risorse, senza legittimità politica, per giunta in un paese privo di tradizioni democratiche e afflitto da profonde divisioni etniche e religiose, quando la stessa democrazia occidentale non è che il frutto traballante di un processo secolare?

Le elezioni presidenziali del 2004 si avvicinano inesorabili: ma i tre fonti rimangono aperti, né è pensabile che gli americani scappino via lasciando il paese in mano agli aspiranti terroristi di tutto il Medio Oriente. Gli aiuti da parte degli Stati europei appaiono indispensabili: ma altrettanto indispensabile è un completo ripensamento della strategia complessiva degli Stati Uniti, che ritorni alle premesse realiste e pragmatiche del 2000 e si liberi senza esitazioni delle nefaste influenze dei neoconsevatori. Tornare alla politica estera tradizionale del partito conservatore consentirebbe a Bush di affrontare in modo meno maldestro le sfide della lotta contro il terrorismo, di rimediare almeno in parte agli errori compiuti in Afghanistan e in Iraq e di guardare con nuovo ottimismo all’appuntamento con gli elettori del 2004.

12 settembre 2003

giuse.mancini@libero.it
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