Le statistiche dei becchini e il dopoguerra in Iraq
di Stefano Magni

Gli anglo-americani hanno vinto la guerra in Iraq e non stanno affatto perdendo la pace. Non occorre essere degli “Al Sahhaf” alla rovescia per affermarlo, anche se le continue notizie di attentati e sabotaggi in Iraq inducono a pensare il contrario. Basta, prima di tutto, dare un’occhiata ai numeri. Buona parte della stampa, quella stessa stampa che prevedeva un “pantano” in Iraq di tipo vietnamita, enfatizza il numero delle perdite anglo-americane dopo la cessazione delle ostilità. “Il sorpasso”, titolava cinicamente Il Manifesto, alla morte del centoquarantesimo soldato statunitense, facendo notare come, in tempo di pace, vi siano già più morti fra gli anglo-americani rispetto alle 138 perdite subite durante la breve guerra contro l’esercito di Saddam. Come fa notare Michael Novak, nel suo ultimo editoriale della National Review, la conta dei morti anglo-americani in tempo di pace è una vera e propria ossessione di certa stampa, ma è anche una statistica “brezneviana”.

Il conteggio, infatti, include anche tutti quegli americani che non sono morti in combattimento contro i fedeli di Saddam o in agguati o in attentati, ma anche tutti coloro che sono deceduti per incidenti, per malattia e per altre cause non direttamente imputabili al presidio dell’Iraq. Vittime, non di una guerra che stenta a finire, ma dei rischi quotidiani della vita di un professionista. Gli stessi pericoli che si potrebbero correre ovunque, in ogni tempo, non solo nell’Iraq del dopoguerra. Basti pensare che il tanto cinicamente sbandierato “centoquarantesimo caduto” è vittima di un incidente stradale. E la proporzione fra i caduti in combattimento e le vittime di incidenti fa pensare: 63 i primi, 78 i secondi, dal primo maggio al 26 agosto 2003. E che dire del fatto che i caduti anglo-americani in combattimento, sono morti in azioni vittoriose? Come lo smantellamento dei due campi di addestramento terroristici, nei pressi di Baghdad, all’inizio di agosto, dove perirono 8 soldati americani e 300 fra volontari islamici e fedelissimi di Saddam? Che dire di tutte le imboscate e degli attacchi a sorpresa subiti dagli americani e dagli inglesi, tutti respinti con poche perdite? Certa stampa sembra tacere questi “particolari”, limitandosi a citare le perdite americane, tramutando, agli occhi del lettore, tante vittorie in altrettante sconfitte.

Ci si trova, poi, di fronte a una resistenza popolare o all’azione terroristica di gruppetti di nostalgici del regime? Anche qui, alcune cifre possono aiutare a interpretare la situazione sul terreno. Il 95 per cento degli iracheni detiene ancora armi: lo scenario ideale per una resistenza di larga scala. Nonostante tutto, non c’è guerriglia urbana, ma solo scaramucce sulle vie di comunicazione o singoli atti di sabotaggio e terrorismo. Tutti concentrati nel cosiddetto “triangolo sunnita”, dove l’apparato del partito baath era più presente. Secondo le stime più attendibili, i gruppi che ancora impugnano le armi contro gli anglo-americani sono forti di circa 5000 uomini e nulla di più. E le azioni terroristiche che conducono, non sono tanto rivolte contro le forze di “occupazione”, quanto contro lo stesso popolo iracheno. In fatto di perdite, il peggio, nel dopoguerra, non lo stanno subendo gli americani, né gli inglesi, ma i civili iracheni, per mano di altri iracheni nostalgici del regime di Saddam. Minacce di morte quotidiane, omicidi e attentati dinamitardi, sono riservati a tutti coloro che vengono considerati “collaborazionisti” e accusati di tradimento. A tutti coloro che, contribuendo alla ricostruzione, civile, politica e militare dell’Iraq, sono accusati di tradire l’ex dittatore. All’Onu e alla Croce Rossa, che sono presenti in Iraq per ricostruire e che sono meno in grado di difendersi, dunque più facilmente intimidibili. Agli ex dissidenti, pur se antiamericani, come Al Hakim.

Non c’è una “resistenza” in Iraq. C’è una guerra terroristica che mira all’intimidazione, condotta da una minoranza di nostalgici del regime. Quegli stessi nostalgici che, per convincere la popolazione a combattere i propri liberatori, deve alzare la taglia sulla testa dei soldati anglo-americani, da 300 a 5000 dollari e, nonostante ciò, non riesce ancora a convincere nessuno. E si combatte una guerra condotta da organizzazioni terroristiche non irachene, soprattutto Al Qaeda e Hizbollah, che non hanno nulla a che vedere con il popolo iracheno e che non colpiscono i loro bersagli per motivarne la “resistenza”.

12 settembre 2003

stefano.magni@fastwebnet.it
stampa l'articolo