La metamorfosi pacifista
di Gabriella Mecucci
Storia del pacifismo italiano del dopoguerra? Sarebbe più appropriato
definirla storia dei pacifismi. Di un movimento cioè che si comporta
come un fiume carsico: sparisce per lunghi periodi e poi riaffiora con
forme, espressioni, ideologie profondamente diverse, persino opposte.
Nei primi quindici anni di storia repubblicana, il movimento per la pace
non era altro che uno dei figli prediletti del Pci e di Mosca. Le grandi
manifestazioni che si svolgevano allora erano tutte targate: bandiere
rosse e contenuti filosovietici. Nonostante ciò, intorno a queste
iniziative, il Pci riusciva ad aggregare anche personalità non iscritte
al partito: i famosi “compagni di strada” (se visti da sinistra) o
“utili idioti” (se visti dal centro e da destra), ma erano numericamente
poca cosa rispetto ai militanti che poteva muovere Togliatti. Questo
movimento, chiamato “partigiani della pace”, portò in piazza, infatti,
centinaia di migliaia di persone, ma ebbe sempre il buon gusto di non
autodefinirsi pacifista (quanto alla non-violenza, l’idea era
addirittura uno dei concetti con i quali più spesso i comunisti
polemizzavano). Avversari dichiarati dei “partigiani della pace”, poi,
non furono solo i partiti di centro e di destra, ma anche pezzi
significativi della sinistra non comunista, sia quella azionista che
quella socialista.
Pochi ricordano che due importanti intellettuali di questa area, Nicola
Chiaromonte e Ignazio Silone, si impegnarono a lungo per smascherare la
sostanza filo-sovietica delle loro proteste e delle loro proposte. Il
pacifismo in senso proprio nacque dunque in Italia ben dopo il 1945. Fu
infatti nel settembre del 1961 che si svolse la prima marcia della pace
Perugia-Assisi: venticinquemila persone parteciparono al lungo corteo
guidato dall’intellettuale non-violento Aldo Capitini. C’erano
comunisti, socialisti, repubblicani, radicali, indipendenti. Non c’erano
i democristiani né tantomeno i rappresentanti del mondo cattolico con i
quali uno spirito liberalsocialista, profondamente religioso, e al tempo
stesso molto polemico verso la Chiesa di Roma qual era Capitini, non
poteva, all’epoca, che confliggere. E’ questa la più vistosa differenza
fra il pacifismo della prima metà degli anni Sessanta e quello di oggi:
l’atteggiamento opposto che ha tenuto verso di esso il variegato mondo
cattolico e la stessa gerarchia vaticana. Sino agli anni Ottanta,
pochissimi furono i cattolici che presero parte ad iniziative per la
pace temendo di essere strumentalizzati dai comunisti.
Aldo Capitini, e il pacifismo laico e gandhiano
L’idea di dar vita alla prima grande manifestazione per la pace era
venuta a Capitini molto tempo prima dell’estate 1961 e scaturiva dalla
profonda traccia lasciata in lui dalla lettura, nelle memorie di Nerhu,
del modo in cui venne organizzata e condotta da Gandhi la “marcia del
sale”. L’iniziativa del 1961 si collocava in un periodo storico
particolare: quello di Krusciov, di Kennedy e di Giovanni XXIII. In Gran
Bretagna il pacifismo russelliano riusciva a portare in piazza decine di
migliaia di persone sui temi anti-nucleari e anti-militaristi, mentre
negli Usa la non-violenza di Martin Luther King diventava il metodo di
lotta dei neri. Nel pacifismo capitiniano c’era dunque non solo la
grande esperienza gandhiana, ma anche il legame stretto con il pacifismo
inglese e americano.
A questo impasto culturale contemporaneo si aggiungevano le suggestioni
della religiosità francescana e, persino, di quella buddhista. Come si
vede, un impianto quello di Aldo Capitini profondamente diverso da
quello di tutti i movimenti e i partiti di allora (qualche somiglianza è
riscontrabile solo con il radicalismo alla Pannella), rispetto ai quali
il fondatore della non-violenza italiana voleva mantenersi distinto
anche se non distante. A costo di apparire repressivo e un po’ pedante,
in preparazione della marcia del 1961, inviò ai segretari provinciali
dei partiti aderenti alla manifestazione una circolare che conteneva
quattro istruzioni perché la “collaborazione fra il Centro della
nonviolenza e gli altri proceda senza stonature”.
Primo comandamento: i partiti controllino tutti i cartelli affinché non
ve ne sia nemmeno uno di tono violento o offensivo per altri
partecipanti. Secondo comandamento: sia impedito agli iscritti ad ogni
partito di portare bandiere, labari, fazzoletti, distintivi, scritte del
proprio partito. Terzo comandamento: vengano date disposizioni precise
perché nessun partecipante alla marcia risponda a qualsivoglia
provocazione. Quarto comandamento: si eviti ogni contrasto con le
autorità locali o nazionali. Capitini era, cioè, preoccupato che la
marcia fosse caratterizzata da una grande capacità di proposta e non
venisse usata strumentalmente contro qualcuno. Doveva essere
“un’aggiunta” alla politica senza sostituirla e senza contrapporvisi.
Capitini era contro l’uso di ogni violenza, non solo contro la guerra.
Per questo non partecipò nemmeno alla Resistenza armata italiana, pur
essendo un antifascista della prim’ora: venne cacciato dalla Normale di
Pisa dall’amato maestro Giovanni Gentile, quando tutti gli altri
professori si inchinavano al regime. Il filosofo perugino non era
d’accordo nemmeno con l’uso della guerriglia come lotta di liberazione,
a cui inneggiavano coralmente i movimenti che attraversarono gli anni
Sessanta. Consapevole della sua diversità rispetto alla marea montante
che inneggiava a “uno, cento, mille Vietnam”, organizzava le sue marce
in solitudine e appoggiava, per quanto riguardava l’Indocina, la “terza
posizione”, quella dei monaci buddhisti. In realtà, il pacifismo, nato
nel 1961 a Perugia, durò molto poco, due o tre anni in tutto: una vita
difficile, legata alla “Consulta per la pace”, presieduta dal filosofo
non-violento, e di cui facevano parte due anime in continua lotta fra di
loro: quella comunista e quella radicale.
La non-violenza capitiniana fu spazzata via proprio dalle grandi
manifestazioni studentesche e sociali degli anni Sessanta-Settanta.
Quell’onda d’urto non risparmiò nulla: rimase in piedi solo un certo
anti-militarismo e la battaglia per l’obiezione di coscienza fatta dai
radicali, i non-violenti e alcuni cattolici. Questi ultimi cominciarono
a scendere in campo intorno al 1965: si trattava di Don Milani, padre
Ernesto Balducci, Giorgio La Pira, Mario Gozzini. La cosa singolare,
però, fu che il vasto movimento sessantottino, filo-guevarista e
filo-vietcong, quindi tutt’altro che non violento, riuscì in parte ad
appropriarsi anche delle tematiche antimilitariste e a stabilire
rapporti stretti su questi temi con il mondo radicale e con quella parte
dei cattolici, ancora fortemente minoritaria, che cominciava a prendere
le distanze dai dettati della Chiesa ufficiale in nome del
terzomondismo.
Il Pci rimase ben fuori da questa alleanza. Ci teneva, infatti, a
mantenere una linea molto prudente verso l’esercito e verso i suoi
stessi comandi e quindi non vedeva di buon occhio l’anti-militarismo.
Iniziò, allora, una collaborazione fra aree politico-culturali (Lotta
Continua, il Manifesto, i cattolici terzomondisti e i radicali)
teoricamente opposte e che in pratica, invece, coesistevano e operavano
insieme. Mentre il pacifismo capitiniano tramontava (Capitini peraltro
morì nell’ottobre del 1968), si affermava questo strano composto
culturale e politico dal quale più avanti i radicali prenderanno
progressivamente le distanze sino a rompere ogni legame.
Il movimento per la pace degli anni Ottanta
Il 1979 fu uno di quegli anni che cambiano il corso della storia. Si
aprì con la caduta dello Scià Reza Pahlevi che in gennaio, dopo una
serie di imponenti manifestazioni, riconobbe di non riuscire più a
controllare la situazione e abbandonò l’Iran. Trionfò la rivoluzione
islamica contro il Satana americano che aveva avuto come alleato il
monarca del trono del pavone, impegnato per anni a modernizzare in modo
autoritario – processi, repressioni, assassini – il proprio paese.
Nessuno o quasi si accorse di quello che di lì a poco sarebbe diventata
una drammatica realtà. Era nato un fenomeno religioso di tipo
integralista che prendeva il potere e lo reggeva commettendo ogni sorta
di violazione dei diritti umani: esecuzioni sommarie, arresti e processi
a valanga, divieti di tutti i tipi, disposizioni medioevali nei
confronti delle donne. Un fenomeno, cosa questa ancora più
significativa, che aboliva ogni e qualsiasi distinzione fra potere
politico e potere religioso, fra Cesare e Dio e che fondava un vero
Stato teocratico. Del resto, Khomeini aveva annunciato il suo programma
senza infingimenti: sceso dall’aereo, che da Parigi lo riportava a
Teheran, rispose a un giornalista: “L’Islam o è politica o non è”.
Se il ’79 si aprì con una rivoluzione che avrebbe segnato profondamente
il mondo islamico, si chiuse con due fatti altrettanto significativi. Il
primo fu l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata rossa, il
secondo la decisione di installare in Europa i Pershing e i Cruise, in
risposta al dispiegamento già avvenuto degli SS-20 sovietici. In
risposta a quest’ultima decisione nacque la più grande ondata pacifista
del dopoguerra con manifestazioni di centinaia di migliaia di persone in
tutte le maggiori capitali europee. Un’onda che cominciò a incresparsi
già nell’ ’80, che si gonfiò nell’ ’81, e che divenne, poi, altissima
nell’ ’82-’83. Decine e decine di cortei pacifisti con un chiaro timbro
antiamericano, che non lanciavano slogan, però, né contro la tragedia
afghana né contro il totalitarismo teocratico iraniano, solcarono le
capitali europee. Né quelle manifestazioni, un po’ più avanti nel tempo,
vennero seriamente toccate dai fatti polacchi del 1981. Nemmeno la
componente cattolica di quel movimento, nonostante fosse diventato da
poco Papa il polacco Woityla, fu sensibile ad una resistenza pur
appoggiata in prima persona dalla stessa Chiesa di Roma.
Nonostante quella dell’inizio degli anni Ottanta sia stata la più grande
ondata pacifista verificatesi in Europa e in Italia, non mancarono le
prime parziali defezioni. I radicali, ad esempio, pur essendo contrari
all’installazione dei missili a Comiso, non parteciparono alle
manifestazioni pacifiste di Roma del 1982 e del 1983 e i sindacati le
bollarono come filo-sovietiche. I dirigenti comunisti della Cgil vi
presero parte, ma solo a titolo personale. Il leader del Psi, Bettino
Craxi, dal 1983 capo del governo, non esitò a dichiarare pubblicamente
che il movimento veniva finanziato dai paesi dell’Est: dalla
Cecoslovacchia e dalla Ddr. La mobilitazione era massiccia,
straordinaria, ma la capacità egemonica si andava riducendo: a
promuoverla erano solo il Pci, il variegato mondo extraparlamentare,
alcune organizzazioni cattoliche, che però spesso operavano distinguo e
prese di distanza. Con il 1984 l’onda alta pacifista cessò e, nel giro
di un anno, il fiume carsico scomparve di nuovo.
1991: l’opposizione alla prima Guerra del Golfo
Il pacifismo riapparve nel 1990-91. E l’occasione fu quella della prima
guerra del Golfo. La precedettero eventi che avevano cambiato
completamente il corso della storia: basti ricordare la caduta del muro
di Berlino. La potenza sovietica era ormai alla fine (la bandiera rossa
del Cremlino sarebbe stata ammainata da lì a pochi mesi) e, quando si
presentò in tutta la sua gravità la crisi provocata da Saddam con
l’invasione del Kuwait, Mosca era in mano ad un Gorbaciov alle corde
che, un po’ per convinzione un po’ per necessità, accettò senza opporre
il veto i deliberati delle Nazioni Unite. Furono le Nazioni Unite
infatti ad autorizzare la prima guerra del Golfo e si trattò di uno dei
pochissimi casi in cui il Consiglio di sicurezza non venne paralizzato
dall’una o dall’altra delle grandi potenze vincitrici della seconda
guerra mondiale. Questo episodio fece nascere l’illusione, durata
l’espace d’un matin, che il Palazzo di Vetro potesse davvero diventare
un governo del mondo sovranazionale e multi-laterale.
Le truppe della coalizione guidata dagli americani, comunque, in
quell’occasione agirono con la benedizione dell’Onu, ma questo non
impedì certo il formarsi in tutta Europa di un fortissimo movimento
contro la guerra. Anche l’Italia fu solcata da cortei di milioni di
persone. Ma non erano manifestazioni paragonabili a quelle del passato
più o meno recente: per la prima volta fra il 1990 e il 199, infatti,
scese in campo l’intero e variegato mondo cattolico, ispirato nel suo
nuovo impegno nientemeno che dal Papa. Non era mai accaduto prima che
giovani dirigenti comunisti partecipassero con entusiasmo alla
benedizioni papale a San Pietro. Le foto dell’epoca ritraggono D’Alema e
Veltroni, con figli in spalla, bandiera dell’iride, e sullo sfondo la
figura benedicente di Giovanni Paolo II.
La novità, dunque, del movimento versione 1991, furono i cattolici:
apparvero le avanguardie di quelli che poi sarebbero stati definiti i
Woityla’s boys. Allora questa sembrò una svolta secca, una sorta di
rottura col passato. In realtà, le cose non stavano così. L’impegno
contro la guerra era già emerso con nettezza nel papato di Giovanni
Paolo II. Basti ricordare l’appuntamento di preghiera promosso ad Assisi
nell’ottobre del 1986, appuntamento a cui parteciparono i rappresentanti
di tutte le religioni del mondo: una sorta di arca che conteneva ogni
espressione di fede, costruita allo scopo di affermare che non si può
fare la guerra in nome d Dio. Fu allora che i gruppi “ribelli” dei
cattolici di sinistra si saldarono, in nome della bandiera dell’iride,
con quelli più legati alle gerarchie. Il 1991 rappresentò, dunque, la
traduzione politico-movimentista di un cammino religioso che aveva avuto
in Assisi un momento fondante. La cittadina umbra diventava, così,
simbolo del pacifismo laico (marcia della pace) e di quello cattolico.
San Francesco assurgeva a protettore di una new age che rischiava di
favorire sincretismi religiosi e confusi intrecci politici.
Se il 1991 vedeva l’esordio nel movimento di tutti i cattolici, svelava
invece a sinistra, un Pci sempre pronto a scendere in piazza, ma
profondamente scosso dalla propria crisi, lacerato da dubbi anche sui
temi della pace: basti ricordare che l’Unità pubblicò un lungo dibattito
sulla “guerra giusta”, nato a partire da un articolo di Norberto Bobbio.
Mentre c’era chi sfilava brandendo certezze, non mancavano dunque coloro
che riflettevano criticamente. I radicali, da sempre non-violenti, per
la prima volta videro nell’intervento nel Golfo una guerra inevitabile
e, quindi, non parteciparono alle manifestazioni contro di esso. Sempre
schierati invece sul fronte della piazza, gli ultimi figli
dell’extra-parlamentarismo, galvanizzati, in quella come in altre
occasioni, da un padre storico del comunismo italiano, Pietro Ingrao.
Gioverà infine segnalare che alcuni autorevoli uomini della gauche non
comunista si schierano nel 1991 a favore di Desert storm: valga per
tutti l’esempio di Vittorio Foa. Nonostante tutto ciò e nonostante che
il governo italiano (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) avesse deciso la
partecipazione delle proprie forze armate alla campagna del Golfo, il
movimento pacifista – come si diceva – fu molto forte e combattivo. La
guerra venne vinta rapidamente e la sua fine coincise con la fine dei
cortei che non riapparvero più sino alla guerra del Kosovo. Il fiume
carsico, però, riaffiorò nel 1999 per poco e con una vena minore, anche
perché la parte più importante della sinistra (che era al governo)
decise quell’intervento. Il movimento che è rispuntato dopo il 2001,
collegato strettamente ai no–global, si è gonfiato con l’intervento in
Afghanistan dopo l’11 settembre ed è apparso in tutta la sua forza con
la seconda crisi del Golfo. Ma questa non è storia più o meno recente,
ma attualità politica.
4 luglio 2003
(da Ideazione 3-2003, maggio-giugno) |