Se l’Atlantico torna a dividere
di Andrea Marcigliano
Dopo oltre cinquant’anni l’Atlantico sembra essere tornato – o rischiare
di tornare – un Oceano che separa due mondi. Cinquant’anni in cui le due
sponde, l’America e l’Europa, di fatto, non sono state mai veramente
divise dalle distese marittime, e l’Oceano era, di fatto, divenuto un
mare interno che le univa. Due sponde, dunque, unite da un modello
politico e sociale sostanzialmente comune; unite in forza dello sviluppo
economico; unite, infine, da un’alleanza che dal nome dell’antico Oceano
prendeva nome. Ed è proprio quest’alleanza, questo Patto atlantico ad
essere oggi in crisi, in seguito a quella crisi irachena che sembra
avere avuto un effetto deflagrante sui pilastri del mondo. E’ in crisi
il Patto atlantico, è in crisi la Nato, è in crisi l’Onu... è in crisi,
infine, la stessa Unione europea, incapace, una volta di più, di
un’unità d’intenti politica che trascenda la mera unione economica e
monetaria. Sono entrati in crisi, insomma, tutti quegli istituti,
vorremmo dire quelle certezze, sui quali sembrava fondarsi il nostro
mondo, o meglio la nostra visione di esso, dal 1945 in poi. Stiamo
vivendo, dunque, un’epoca di trasformazioni radicali, di mutamenti, se
si vuole anche di rivoluzione. Dopo Baghdad il mondo non sarà – comunque
vadano gli eventi – più quello di prima. Ma Baghdad e la crisi irachena
non sono la causa di tale sconvolgimento nei rapporti e negli equilibri
internazionali. Piuttosto, solo il punto d’arrivo di un processo
politico e culturale, le cui radici e ragioni reali vanno ricercate più
lontano e, soprattutto, molto più in profondità.
Vanno ricercate, innanzi tutto, nella rottura degli equilibri e delle
logiche di Yalta, le logiche su cui si era fondato, di fatto, il mondo
dopo l’ultima grande guerra, stabilite dalle potenze che avevano
trionfato in questa; quelle stesse potenze – alcune delle quali, in
verità, assai usurate – che ancor oggi siedono come membri permanenti
del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e detengono il famoso diritto di
veto. Tali logiche erano, però, quelle di un mondo destinato ed essere
bipolare, diviso sin dall’inizio in due diverse sfere d’influenza: da un
lato l’Occidente, con gli Usa ed i loro alleati ben presto riuniti sotto
l’ombrello della Nato, dall’altro l’Urss e il patto di Varsavia,
l’Oriente comunista. Due blocchi, dunque, e, soprattutto, due
superpotenze che per oltre mezzo secolo si sono fronteggiate giocando
sullo scacchiere mondiale una lunga, estenuante, partita a domino.
Partita che non è mai sfociata in scontro diretto in forza di
quell’equilibrio del terrore o, se si preferisce, di quella strategia
del contenimento teorizzata dalla scuola classica del realismo politico
statunitense. La scuola alla quale si rifacevano i Kissinger ed i
Brezynski, che, come segretari di Stato degli Usa, furono artefici di
decenni di politica internazionale. Poi, quell’equilibrio si è infranto.
Non oggi, però, ma oltre un decennio fa, con la crisi irreversibile dei
sistemi socialisti e, in particolare, della superpotenza sovietica,
implosa per l’incapacità di reggere il confronto sul piano economico e
sociale con la rivale occidentale. Implosa per il fallimento dei suoi
modelli di sviluppo, della sua economia dirigistica e programmata.
Implosa per la crescente disaffezione interna verso un sistema avvertito
dalla maggioranza dei cittadini come ostile, oppressivo, incapace di
garantire libertà e sviluppo.
E’ storia vecchia, ormai. E, tuttavia, è da qui che dobbiamo partire.
Perché con il fallimento dell’Urss – nonostante l’ultimo, disperato ed
evanescente, tentativo della glasn’ost gorbacioviana – ci siamo trovati
di fronte ad un mondo nel quale di fatto resta un’unica superpotenza,
un’unica potenza egemone: gli Stati Uniti. Tanto che qualcuno – Francis
Fukuyama – parlò all’inizio degli anni Novanta, addirittura di fine
della storia, riprendendo – in modo un po’ sommario – la lettura di
Hegel di Kojéve. Un’unica superpotenza, un unico modello politico e
sociale vincente, un unico modello economico. La storia, dunque, come
l’avevamo sempre conosciuta, poteva dirsi conclusa. Molti, soprattutto
in Europa, vi credettero. O meglio vi vollero credere, ché sembrava che
una tale lettura potesse preludere, finalmente, alla pace universale, ad
un mondo senza tensioni, senza conflitti, o, per lo meno, nel quale
tutti i conflitti sarebbero stati, nel tempo, risolti positivamente in
forza proprio della fine di quell’equilibrio del terrore su cui ci
eravamo, sino ad allora, dovuti basare. Potevamo, insomma, finalmente
smettere di vivere con la vertigine – per riprendere il titolo di un
saggio di André Glucksmann degli anni Ottanta, dedicato, appunto, alla
condizione di un mondo perennemente sotto minaccia di annientamento a
causa di una guerra atomica globale. Seguì, in Europa soprattutto, un
momento di ubriacatura collettiva: gli anni in cui si sognava la società
aperta globale e si elevava Popper a unico maestro dei nuovi tempi.
Poi, la crisi Balcanica, le guerre della ex Jugoslavia, quelle
mediorientali, nonché i focolai di tensione che si accendevano di
continuo in ogni parte del mondo, suonarono la sveglia.
Hobbes governa a Washington
Negli Usa, a partire dall’era Reagan, ma con un’accelerazione
progressiva negli anni Novanta, ha cominciato ad affermarsi una nuova
scuola di pensiero politico e strategico, quella che, anche se forse un
po’ sommariamente, abbiamo preso recentemente a definire come
neoconservative. Una scuola, anch’essa sostanzialmente di matrice
realista – che, a ben vedere, affonda le sue radici, comunque, nel
pensiero di Hans J. Morghentau e, per suo tramite, nel realismo
novecentesco europeo di Carl Schmitt. E, tuttavia, di un realismo
diverso, che non incentra più la strategia politica sull’uso
convenzionale della deterrenza e sulla politica del contenimento. Un
realismo, piuttosto, offensivista come qualcuno ha voluto definirlo, che
costituisce oggi, di fatto, il substrato ideologico dell’amministrazione
statunitense e, più, in generale, della visione strategica del mondo
secondo Washington.
E’ una concezione rigorosamente hobbesiana. A suo modo essenziale. Il
mondo del dopo Guerra Fredda è un mondo caotico e pericoloso, perché è
venuto a mancare uno dei due riferimenti su cui si fondava il, pur
precario, equilibrio precedente. La fine dell’impero sovietico – per
quanto auspicata e salutata come una vittoria della democrazia e del
modello occidentale – ha comportato l’inizio di un’età caotica, nella
quale l’assenza di controllo sta portando al moltiplicarsi dei focolai
di crisi, delle guerre, delle tensioni, aggravate, fra l’altro, dalla
proliferazione incontrollata degli armamenti, specialmente di quelli con
potenziale distruttivo di massa. Una situazione di confusione ed
incertezza che riverbera negativamente sull’economia mondiale e che,
soprattutto, può mettere a serio rischio lo stesso standard di vita
occidentale, lo stesso modello democratico, del quale gli Stati Uniti
rappresentano il cuore ed il motore propulsore. Di qui la necessità di
una politica tesa a riorganizzare il mondo, a ridargli un ordine sotto
l’egida di quella che è l’unica potenza rimasta sulla scena globale.
Anche a costo di intraprendere una serie di interventi, di guerre e di
operazioni atte a riordinare lo scacchiere internazionale. La pax
americana, se così piace chiamarla, della quale il first strike,
l’attacco preventivo, teorizzato da Paul Wolfowitz – che, prima di
essere il vice di Rumsfeld alla Difesa, è un esponente di punta dei
think tanks neoconservatives – non è altro che, necessario, portato
secondario. Di qui, soprattutto, la decisione dell’amministrazione Bush
di intervenire militarmente in Iraq per ridisegnare gli equilibri
geo-strategici di tutta l’area medio-orientale. Decisione dietro alla
quale è, dunque, individuabile una precisa scelta culturale, o, se si
vuole, un’ideologia, purché si intenda questa nella sua accezione
originaria,un sistema di idee con il quale interpretare – e di
conseguenza ordinare – gli eventi ed il mondo che ci circonda.
L’America di Bush, e la sua politica, non sono semplicisticamente
riducibili all’America di Fortebraccio, come l’ha
ironicamente/irosamente definita Marc Fumaroli, dando, una volta di più,
voce alla distanza, ed anche al sostanziale disdegno,
dell’intellighenzia neutralista francese – ed europea – per i cow boys
del Nuovo Mondo. Una distanza culturale e, al tempo stesso, ideologica.
Che è poi la vera distanza che separa, oggi, le due sponde
dell’Atlantico. Un solco, anzi una fossa che si è venuta scavando ed
approfondendo proprio nel corso dei decenni in cui, apparentemente, la
società europea e quella statunitense sembravano vieppiù avvicinarsi ed
assimilarsi. I decenni del secondo dopoguerra, che hanno visto una
crescente influenza dei modelli di vita americani sull’Europa, anzi,
l’imitazione, sovente pedissequa e ottusa, di modi e mode propugnati da
un’industria mediatica sempre più pervasiva ed invasiva e che hanno
portato, almeno in apparenza, ad una sostanziale omologazione culturale
delle nuove generazioni sulle due sponde dell’Atlantico. In apparenza
soltanto, però. Ché una differenza fondamentale restava, anzi andava
proprio in quegli stessi decenni, marcandosi sempre più. Una differenza
radicale nel modo di vedere/concepire il mondo, che si è accentuata
ancor di più dopo la fine della Guerra Fredda, e che oggi è, finalmente,
esplosa, palesandosi drammaticamente proprio in concomitanza con la
crisi irachena.
Una differenza di cui gli ideologi della Nuova America, i
neoconservatives riuniti intorno ad una serie di influenti think tanks,
ed in particolare nel Project for the New American Century diretto ed
ispirato da William Kristol, sono perfettamente e lucidamente coscienti.
E che, di conseguenza, finisce con l’ispirare le scelte politiche
dell’attuale amministrazione di Washington, che da tale movimento è
fortemente influenzata, in forza della presenza nei suoli ranghi di
esponenti di primo piano del neoconservatorismo, dal già citato
Wolfowitz a Richard Perle, sino a Condoleezza Rice, già docente di
Scienze politiche – nonché rettore – a Standford, e oggi vera anima
della strategia internazionale di George W. Bush. Quella stessa Rice che
ha, tra l’altro, dettato, nel settembre 2002, i lineamenti essenziali
del The National Security Strategy of the United States of America, il
documento ufficiale con cui la Casa Bianca ha delineato la sua strategia
internazionale per gli anni futuri. Documento fondamentale, che, dopo
l’11 settembre, ha ridefinito la politica americana e, tra l’altro,
ridisegnato i futuri rapporti degli Usa con le nazioni europee,
lasciando intuire tanto l’imminente crisi della vecchia Nato – ancora
fondata su modelli strategici legati al tempo della Guerra Fredda –
quanto delineando le ragioni di quella willings’ coalition di cui oggi,
per la prima volta, si è fatta l’esperienza in occasione della guerra
all’Iraq. Willings’ coalition che, tuttavia, non è semplicemente un
espediente occasionale, bensì un disegno strategico d’ampio respiro,
teso, nel tempo, a sostituire il vecchio sistema d’alleanze – in
particolare quello Atlantico – con una nuova coalizione saldata da una
comune visione del mondo, dei suoi problemi e dei passi necessari per
governarli e, almeno parzialmente, risolverli.
Ed è proprio su questa comune visione che si è palesata la differenza
tra Usa e vecchi alleati europei. Quella differenza che ha portato alla
crisi dei rapporti tra Stati Uniti da un lato e Francia e Germania
dall’altro; ma che, in modo ancor più marcato, è stata resa evidente
dalla reazione negativa delle opinioni pubbliche europee di fronte
all’evoluzione della politica americana e, in particolare, in occasione
della guerra all’Iraq. Reazione che ha visto le principali capitali
d’Europa invase da folle di manifestanti contro la guerra; che hanno
palesato un’opposizione profonda – ancorché sovente confusa e
ideologicamente composita – alla politica imperiale degli Usa, trovando
alimento nelle prese di posizione di gran parte dell’intellighenzia
continentale e mettendo, di conseguenza, in seria difficoltà quei leader
politici e capi di governo che – come Blair, Aznar e lo stesso
Berlusconi – sembrano maggiormente orientati a sostenere la strategia
dell’alleato americano. E che ha, tra l’altro, determinato e rafforzato
le prese di posizione di Chirac e, soprattutto di Schroeder, incalzato
da pressanti esigenze elettorali. Opposizione dell’opinione pubblica,
che va letta, però, ben al di là delle pur rumorose e variegate folle di
manifestanti pacifisti, e che ha reso palese una profonda frattura
culturale. Opposizione, soprattutto, delle élite culturali e, in buona
parte almeno, politiche del Vecchio Continente, e che, per altro, gli
ideologi neoconservatives statunitensi avevano previsto con largo
anticipo, ed anzi analizzato e spiegato sul piano teorico. Già nel
giugno 2002, infatti, Robert Kagan – tra i neoconservative il più
attento e sensibile agli umori ed alle direttrici della cultura profonda
degli europei – ha delineato questa opposizione culturale tra Usa ed
Europa in un saggio “Power and Weakness”, pubblicato su Policy Review,
che ha messo a rumore il mondo della filosofia politica – e non solo
quello – divenendo una sorta di sintesi imprescindibile del problema.
Kagan ha, infatti, ricondotto tutte le divisioni presenti tra Europa e
Usa, destinate, a suo avviso, ad accentuarsi nell’immediato futuro – e
in questo è stato buon profeta –, ad un’insanabile dicotomia culturale.
Una dicotomia che trova le sue radici profonde in due diverse visioni
del mondo, riconducibili da un lato a Hobbes, dall’altro a Kant. Da un
lato, quindi, la visione drammatica della storia come conflitto, l’homo
homini lupus trasposto sul piano dei rapporti tra popoli e nazioni; la
necessità, ineludibile, di cercare di porre ordine in un mondo caotico.
Necessità che richiede, obbligatoriamente, l’uso della forza. Correre,
quindi, dei rischi, assumersi oneri e responsabilità per garantire – in
primo luogo all’Occidente – un modello di vita, un modello sociale, la
prosperità economica. Dall’altro l’utopia kantiana della pace
universale, del governo mondiale capace di trascendere la realtà di
nazioni e popoli e, soprattutto, quella dei loro conflitti. Utopia che è
divenuta, dopo la seconda guerra mondiale, la sostanza fondante della
visione del mondo degli europei – o per lo meno della loro maggioranza –
e, soprattutto, il sogno dorato in cui si sono adagiate le élite
politiche e culturali del nostro continente. Due visioni diverse ed
inconciliabili. Ma, come avverte Kagan, il diffondersi dell’utopia
kantiana in Europa è stato possibile proprio perché gli Stati Uniti
hanno, per decenni, coperto con il loro ombrello politico e militare il
Vecchio Continente, proteggendolo e garantendone la sicurezza interna.
Così governi e popoli hanno potuto adagiarsi nell’illusione di uno
spazio di pace, che in verità è esistito solo in Europa occidentale ed è
stato reso possibile solo dal fatto che vi erano gli Usa, che
affrontavano le crisi e combattevano in tutti i quadranti del mondo in
difesa del modello occidentale.
Ed in difesa, anche, della pace europea. La seconda metà del Novecento
non è stata un’era di pace se non per gli europei; nel resto del mondo è
stata, invece, contrassegnata da una serie interminabile di conflitti
sanguinosi e, soprattutto, dal confronto/scontro con l’impero sovietico.
Ovvero con un modello sociale, economico e politico radicalmente
alternativo a quello occidentale. La crisi dell’Urss è stata, poi,
erroneamente interpretata dalle élite europee – e quindi presentata ai
popoli dell’Europa – come la possibile fine di ogni conflitto, dell’era
delle guerre e delle contese. Al contrario, ha aperto – come teorizzato,
appunto, dai politologi statunitensi e segnatamente dai neoconservatives
– un nuovo periodo di incertezza e di disordini per certi versi ancor
peggiore di quello che lo ha preceduto. Di qui la necessità
dell’assunzione di nuove responsabilità globali, per le quali, però, le
élite europee sembrano essere poco attrezzate. Mancando loro, innanzi
tutto, una chiara visione del mondo: la capacità di leggere la realtà
per quella che è, violenta, aspra, pericolosa. E di agire di
conseguenza. Per scelta culturale, dunque, l’Europa preferisce ancora
adagiarsi nella speranza che tutte le tensioni possano venire risolte
occasionalmente in sede internazionale, attraverso organi sovranazionali
come l’Onu e con nuovi istituti come il Tribunale internazionale.
Per Kagan e per i neoconservatori, invece, è palese che proprio l’Onu –
e con esso la Nato – e tutti i vecchi istituti costruiti negli anni
della Guerra Fredda si sono rivelati impotenti a governare questo nuovo
mondo pericoloso e violento. La crisi jugoslava lo ha dimostrato in modo
lampante. Di fronte alle emergenze della Bosnia e del Kosovo – che
avvenivano, tra l’altro, sulla soglia di casa loro – gli europei non
sono stati assolutamente capaci di trovare una qualche unità d’intenti e
d’azione, affidandosi solo alle parole ed alle deprecazioni formali
delle Nazioni Unite. Fino all’inevitabile, necessario, intervento
umanitario degli Usa di Clinton. Ma, per Kagan, la politica clintoniana
dell’intervento umanitario – sperimentata anche in Somalia – non era di
per sé sufficiente, essendo fondata sull’occasionalità. Necessitava,
anzi necessita di una strategia organica: una strategia che ridisegni
gli equilibri globali, individuando le aree del mondo a maggior rischio
e procedendo a disinnescarle attraverso una serie di interventi mirati.
Interventi che richiedono l’uso della forza, certo, ma che hanno anche
lo scopo di veicolare il primato del modello occidentale. L’unico
modello politico e sociale che ha sino ad oggi dimostrato di poter
garantire la democrazia, la libertà individuale e lo sviluppo.
Gli europei, a questo punto, possono solo fare due cose. O rendersi
conto della realtà e, quindi, uscire dal loro spazio di pace kantiano e
gettarsi nel vasto e pericolo mondo hobbesiano, cooperando con gli Usa a
ridisegnare l’ordine del mondo; o continuare a vivere nella loro isola
felice, sperando che questa continui a venire garantita dalla forza
americana contro le minacce che provengono dal resto del globo. Kagan,
tuttavia, affettando comprensione per gli europei e le loro recenti
tradizioni culturali, ritiene che alla fin fine l’Europa, o meglio le
sue élite non siano pronte ad affrontare questa nuova realtà, e
soprattutto non siano capaci di sfidare l’impopolarità e la rivolta
delle loro opinioni pubbliche cresciute per decenni in una,
inconsapevole e, sostanzialmente, irresponsabile, isola kantiana di
pace. Di qui la necessità, per l’America di fare da sola La
teorizzazione, dunque, di quell’unilateralismo che ritroviamo inverato
nella politica dell’amministrazione di George W. Bush. Un tema quello
dell’unilateralismo, ripreso, poi, da altri politologi statunitensi.
Come Ronald D. Asmus e Kenneth M. Pollack che, in “The new Transatlantic
Project” – sempre in Policy Review dello scorso ottobre/novembre – hanno
tuttavia auspicato da parte degli europei una maggior comprensione della
situazione, affermando la necessità di una riedizione in termini moderni
della strategia di Truman. Strategia che andrebbe riletta in una nuova
chiave, fondata sulla comprensione del fatto che è in atto, oggi, uno
scontro con un nuovo nemico, identificabile con tutte quelle forze – e
quindi non solo e non tanto Stati, quanto, piuttosto, movimenti,
organizzazioni, fermenti culturali – avversi al modello occidentale. Un
nemico, quindi, comune sia agli Usa che all’Europa che, pur con i
necessari distinguo, su tale modello si fondano e che di tale modello
rappresentano la matrice. E poiché l’identificazione di un comune nemico
comporta la conseguente definizione dell’amico, il destino dei paesi
europei è quello di comprendere la necessità di un nuovo patto con i
cugini americani, volto a garantire i comuni interessi internazionali.
Una tesi nella quale si possono riscontrare, tra le altre, suggestioni
del famoso civilisations’ clash, teorizzato già all’inizio degli anni
Novanta da Huntington, e che gli avvenimenti recenti, in particolare
l’11 settembre, sembrano avere tragicamente confermato.
Al di là dei due esempi citati – due fra i molti di una letteratura
politica statunitense straordinariamente ricca e fertile – è possibile
constatare come negli Usa si sia decisamente affermata una scuola di
pensiero politico fortemente innovativa e che, soprattutto, influenza
ormai in modo determinante la realtà della politica statunitense. Una
scuola, dunque, le cui teorie non restano chiuse nei pensatoi accademici
– come troppo spesso avviene nelle nostra Europa – ma finiscono con il
determinare i destini della maggior potenza mondiale. Una scuola, come
dicevamo, di impronta nettamente realistica, e quindi sostanzialmente
hobbesiana nella sua lettura della politica. E tuttavia nettamente
distinta dal vecchio realismo statunitense in forza di una ,originale,
sintesi tra realismo politico e messianismo democratico. Messianismo
democratico che ha le sue radici da un lato nell’incontro con alcuni
filoni particolarmente radicali del fondamentalismo protestante
trasferito sul piano politico, dall’altro nella radicata convinzione che
la missione dell’America sia quella di portare all’affermazione del
modello di democrazia occidentale – e quindi anche di società e di
economia – concepito come il migliore ed il più giusto possibile. Una
sintesi, secondo alcuni abnorme, di idealismo wilsoniano e di spietato
realismo, che può essere, certo, discussa. Ma non facilmente liquidata,
come tendono a fare troppi intellettuali europei, affetti da un, sempre
più ingiustificato e snobistico, complesso di superiorità. Intellettuali
che ricordano i raffinati ateniesi – o che ne sembrano, piuttosto, la
parodia – che guardavano con malcelato disprezzo i barbari romani.
Mentre i romani, però, conquistavano ed ordinavano il mondo conosciuto
secondo le loro leggi ed i loro schemi culturali.
Un’unica cosa appare oggi certa. Da Baghdad in poi, la cultura europea
deve e dovrà sempre più misurarsi con questa nuova visione strategica e
filosofica della politica che viene d’oltre Oceano. Un confronto nel
quale si giocherà la possibilità di ridare all’Europa un ruolo
internazionale e, soprattutto, quella di permettere che un, eventuale,
nuovo ordine mondiale sia disegnato su schemi multilaterali e non
unilaterali. Ma per far questo le nazioni ed i popoli europei, con, in
primo luogo, le loro élite politiche ed intellettuali dovranno
scrollarsi di dosso molti pregiudizi e molti schematismi mentali ormai
frusti e sterili. E trovare il coraggio di uscire allo scoperto,
riportando la politica europea a navigare nel vasto, pericoloso Oceano
del Mondo, lontano da quell’isola di pace kantiana che rappresenta,
certo, l’altro volto dell’Occidente. Ma che, oggi, rischia di divenire
un’isola dei lotofagi, cechi di fronte ai segni dei tempi.
4 luglio 2003
(da Ideazione 3-2003, maggio-giugno) |