Un dopoguerra chiarificatore

Siamo entrati in un lungo dopoguerra, ricco di incognite e di insidie: non facile da gestire sul piano contingente, difficile da prevedere nei suoi sviluppi e nelle sue implicazioni di lungo periodo. Secondo un’impressione largamente diffusa, le macerie prodotte dalla guerra non sono soltanto quelle fumanti dei luoghi dove si è combattuto e che i mass media hanno generosamente documentato. La “guerra preventiva” contro l’Iraq, voluta dall’amministrazione statunitense in coerenza con i nuovi orientamenti politico-strategici che ne indirizzano l’azione di politica estera sulla scena internazionale – frutto a loro volta di una lunga elaborazione condotta da almeno un decennio all’interno di ristretti, ma assai influenti circoli intellettuali – ha infatti prodotto, oltre quelle materiali, ingenti rovine politiche, culturali e simboliche.

Quest’ultima guerra ha messo in crisi la storica e solida alleanza euroatlantica sino a rendere problematico e non più univoco il significato del termine “Occidente”; ha minato l’unità tra i Paesi dell’Europa mostrando al tempo stesso la fragilità politica del processo di integrazione continentale ed il velleitarismo – non privo di ipocrisie e doppiezze, di machiavellismi di seconda mano e di piccoli tornaconti nazionali – che sta dietro la politica estera della gran parte degli Stati europei; ha fatto risaltare in modo quasi brutale l’assoluto strapotere militare degli Stati Uniti d’America, difficile ormai da imbrigliare all’interno di un sistema condiviso e rispettato di regole; ha mostrato i limiti (e, al dunque, l’inutilità) di un approccio alla politica internazionale condotto secondo criteri unicamente legali e normativi o, peggio, sulla base di valutazioni di natura morale; ha messo in crisi l’Onu, evidenziando gli anacronismi politico-organizzativi che stanno alla base del suo funzionamento attuale, in larga parte ispirato ai rapporti di forza scaturiti dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, e mostrato l’inadeguatezza delle tradizionali strutture di alleanza e di sicurezza (a partire,, ovviamente, dalla Nato), anch’esse risalenti all’epoca del bipolarismo russo-americano; ha posto in evidenza (giusta le tesi di Robert Kagan) la distanza abissale che oggi esisterebbe tra la cultura politica americana e quella europea e che renderebbe sempre più difficile il dialogo tra le due sponde dell’Atlantico; ha creato una forte contrapposizione tra l’opinione pubblica dei diversi Paesi europei e le rispettive classi politiche; ha fatto riemergere ostilità e preconcetti ideologici che si credevano in larga parte superati (da un lato l’antiamericanismo profondo e tenace della sinistra europea, dall’altro l’antieuropeismo anch’esso ancora fortemente radicato nella cultura politica delle élite statunitensi); ha creato le condizioni per un ritorno in grande stile del radicalismo e del fanatismo religioso di matrice islamica che, aumentando l’instabilità politica dell’area medio-orientale, rischia di vanificare le ragioni politiche e di sicurezza internazionale per le quali questa guerra è stata combattuta; da ultimo, ha definitivamente affossato la distinzione canonica tra destra e sinistra se è vero che sia il fronte dei sostenitori della guerra sia quello degli oppositori hanno raccolto consensi in modo assolutamente trasversale ed eterogeneo.

Come orientarsi nell’attuale dopoguerra? Che lezioni trarre da quanto è accaduto e che, probabilmente, segna l’inizio reale del post Guerra Fredda? Scopo del presente dossier è quello di presentare una vasta ed articolata riflessione sulle molteplici implicazioni di una crisi che per certi versi si presenta come necessaria e salutare, nel senso che ci costringe a pensare in modo originale, e senza comode scorciatoie intellettuali, ad un nuovo equilibrio mondiale e a nuove modalità di rapporto tra Stati. Dopo questa guerra, non sarà più possibile affidarsi al feticcio dell’Onu. L’Europa, dal canto suo, dovrà cominciare a fare sul serio, sul piano delle scelte di politica estera e di politica militare, pena la sua assoluta irrilevanza sulla scena politica internazionale. Intellettuali e cittadini, a loro volta, dovranno interrogarsi sull’utilità di forme di mobilitazione collettiva che troppo facilmente sacrificano l’intelligenza dei fenomeni alla retorica delle belle parole ed al ricatto dei sentimenti. Dall’attuale dopoguerra si uscirà, soprattutto noi europei, ad una sola condizione: dimostrando coraggio intellettuale.

4 luglio 2003

(da Ideazione 3-2003, maggio-giugno)

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