L’Europa che dimentica Hobbes
di Daniela Coli
Nei mesi che hanno preceduto l’intervento in Iraq il saggio di Robert
Kagan sui difficili rapporti tra europei ed americani ha posto al centro
della discussione Thomas Hobbes, il più importante filosofo politico
inglese. Per Kagan, europei ed americani non condividono più una visione
comune del mondo. L’Europa ha dimenticato il realismo politico che ha
sempre caratterizzato la sua storia, ha messo da parte l’idea di ogni
politica di potenza e, dopo la catastrofe del 1945, sogna un governo
mondiale, capace di superare gli orrori del mondo hobbesiano e garantire
“la pace perpetua” senza porsi però il problema di come si possa
raggiungere tale stato senza distruggere la libertà umana. Kagan
sottolinea come lo stesso Kant avvertì che tale stato avrebbe potuto
costituire un pericolo più grave dell’ordine internazionale hobbesiano e
diventare “il più terribile dispotismo”. Diverso da quella icona di
santo laico della vulgata del secondo Novecento, Immanuel Kant non era
poi tanto ottimista sui suoi simili, se malinconicamente affermò di non
poter non “reprimere un certo risentimento a vedere gli uomini operare
sulla grande scena del mondo, e trovare talvolta una apparente saggezza
nei casi isolati, ma da ultimo nell’insieme un miscuglio di stoltezza,
di infantile vanità, spesso anche di infantile malvagità e smania di
distruzione, per cui alla fine non sia sa qual concetto formulare della
nostra specie così orgogliosa delle sue prerogative”.
Indubbiamente, però, il Kant sicuro del “cielo stellato sopra di me e la
legge morale dentro di me” è agli antipodi dello stereotipo del Thomas
Hobbes cinico autore di un mostruoso Leviatano e di una filosofia
affascinata dal male. Riecheggiando il titolo di un libro del ‘35 di
Jean Vialautoux, ancora oggi gli viene applicata sul continente
l’etichetta di totalitario. “Il Leviatano americano non ascolta ragioni,
non si piega al diritto, non riconosce leggi superiori alla propria
autorità”, ha scritto una giornalista attenta come Barbara Spinelli.
Lungi dall’essere l’inventore del totalitarismo, come parve nel ‘51 a
una frettolosa Hannah Arendt, che, nel ’61, in Between Past and Future
rivide però completamente il suo giudizio, Hobbes è il fondatore sia del
concetto moderno della rappresentanza e della sovranità sia della
politica come scienza. Hobbes partì dall’idea che se i filosofi morali
del suo tempo avessero assolto al loro compito con lo stesso esito dei
geometri, i fisici, gli astronomi, il mondo avrebbe goduto di una tale
pace che si sarebbe dovuto combattere solo per lo spazio o per il
bisogno di cibo prodotto dall’aumento della popolazione. Far diventare
una scienza la politica non ha per Hobbes un interesse meramente
speculativo, ma ha la funzione di neutralizzare la carica distruttiva
della conflittualità.
“Se infatti – scrisse nel De Cive - la ragione delle azioni umane fosse
conosciuta con la stessa certezza con cui conosciamo la ragione delle
grandezze nelle figure, l’ambizione e l’avidità, la cui potenza si
sostiene di false opinioni del volgo circa il diritto e il torto,
sarebbero disarmate, e la gente umana godrebbe di una pace tanto
costante, che non sembra si dovrebbe più combattere (se non per lo
spazio, crescendo la moltitudine degli uomini). Ora, invece, la guerra
condotta con la spade o con le penne è perpetua; la scienza del diritto
e delle leggi naturali non è maggiore di una volta; ciascun partito
difende il suo diritto con il giudizio dei suoi filosofi; la medesima
azione viene lodata da alcuni e biasimata da altri; la stessa persona
approva in un momento quello che disapprova in un altro, e valuta
diversamente le proprie azioni, quando sono compiute da altri: tutti
segni evidentissimi che quello che è stato scritto finora dai filosofi
morali non ha giovato in nulla alla scienza della verità; e che è
piaciuto, non perché illuminasse l’animo, ma perché rafforzava, con
discorso ornato e favorevole alle passioni, le opinioni già accolte
senza riflessione”.
Nel De Corpore, richiamandosi alla rivoluzione scientifica in corso,
citò Copernico, Harvey, Galileo, che “ per primo ha a noi aperto la
porta di tutta quanta la fisica, cioè la natura del moto”, e si propose
come il Galileo della scienza politica. Nel Leviathan ricordò però che
se i libri di geometria avessero avuto implicazioni politiche sarebbero
stati tutti distrutti e i geometri si combatterebbero con la penna e con
la spada come i filosofi politici, in continua disputa per definire ciò
che è giusto e di ciò che è ingiusto. Hobbes ha ben chiaro come la
specificità della scienza politica consista nella capacità di affrontare
il conflitto e come il ruolo delle passioni sia decisivo in quella che
noi chiamiamo “razionalità umana”. Filosofo e scienziato che assiste e
partecipa ad una rivoluzione scientifica, Hobbes, l’ultimo grande
filosofo sistematico moderno, capace di passare dai trattati di fisica,
ottica, anatomia, alle discussioni sulla circolazione del sangue, dalla
traduzione di Tucidide e Tacito alla critica della Politica di
Aristotele, compie una rivoluzione teoretica, dalla quale esce un
modello razionalità che mette in crisi radicale non solo la saggezza del
suo tempo, che gli preferì il suo avversario Descartes, ma anche molte
nostre certezze.
Il Novecento è stato il secolo del marxismo, la cui validità era
assicurata dall’”oggettività” delle leggi della storia e della scienza.
Un paradigma che presupponeva una ragione per la quale l’esperienza
interiore del pensiero diventa la prova della realtà dell’essere. Hannah
Arendt notò come tracce della tradizione cabalistica fossero
rintracciabili nel “Cogito ergo sum” cartesiano. La Arendt assimilò la
razionalità della scienza moderna a quella del misticismo e osservò come
essi non ammettano “né la rivelazione né il puro ragionamento, poiché
sono interessati non al problema della verità ma alla scoperta di una
conoscenza operante della realtà”. Per questo, quando negli anni Ottanta
è cominciata la cosiddetta crisi delle ideologie, che era in realtà
soprattutto la crisi del marxismo, si è cercato di arginarla ricorrendo
a un Weber analitico e alla distinzione tra una Zweckrationalität, la
razionalità rispetto allo scopo o strumentale, e una
Richtigkeitsrationalität, propria dell’agire orientato ‘correttamente’
in vista di ciò che vale “oggettivamente”, ovvero la razionalità di un
comportamento fondato sull’assunzione della “validità oggettiva” dello
scopo che persegue.
Diversamente da quella francese e tedesca, la tradizione anglosassone
non considera negativamente le passioni e non ritiene possibile, né
auspicabile la loro eliminazione. Per Albert Hirschmann, dal pensiero
inglese emerge un paradigma della modernità nel quale sono piuttosto le
passioni a modellare la ragione e non viceversa. Hirschman ricorda Hume,
per il quale la ragione è schiava delle passioni, al servizio delle
passioni, ma l’inquietante filosofo perbene Hume o il prudente Hume –
come talvolta si preferisce definirlo - aveva un precursore radicale in
Hobbes, per il quale la ragione non è nient’altro che un calcolo fra
passioni, lontana da enfatiche Raison e Vernunft. Un ruolo fondamentale
nella filosofia di Hobbes ha l’analisi del linguaggio attraverso il
quale gli uomini occultano e schermano gli obiettivi delle loro
passioni, presentando come logiche, per usare un lessico paretiano, i
loro desiderata e loro azioni non logiche.
Se si riflette su quest’ultimo aspetto si ha la portata della sfida
teorica lanciata da Kagan agli europei quando li rimprovera di
astrattismo kantiano e suggerisce loro di riprendere in mano Thomas
Hobbes. Una sfida delle cui conseguenze Robert Kagan non è forse
completamente consapevole e che coinvolge anche l’universalismo
democratico con cui gli Stati Uniti legittimano dai tempi di Woodrow
Wilson la loro politica di potenza. Kagan inizia il suo saggio
affermando che europei ed americani non condividono più una comune
visione del mondo, cita Thomas Hobbes, un filosofo non particolarmente
amato dalla cultura europea del secondo Novecento, che, dominata dal
marxismo, ha alimentato vari progetti culturali, inserendo sul suo
tronco, trasfigurati, secondo le esigenze del momento, Hegel, Kant,
Rousseau, Voltaire, Hume, Locke, Descartes, Bacon e perfino Nietzsche,
Spengler, Heidegger, Schmitt. In generale, la cultura egemone
dell’Europa del secondo Novecento, impossessatasi della modernità l’ha
deformata nel concetto di progresso e nella critica della tecnica,
modelli funzionali al mantenimento dello statu quo, svolgendo
sostanzialmente un ruolo antimoderno che ha prodotto la decadenza
dell’Europa.
Hobbes, generalmente ignorato nell’Ottocento, riscoperto alla fine del
secolo da Ferdinand Tönnies, in una Germania postbismarckiana nella
quale si discuteva del futuro assetto costituzionale, divenne nel primo
Novecento interlocutore di pensatori come Carl Schmitt, Leo Strauss,
Hannah Arendt, Elias Canetti. La sua eclissi cominciò nel 1937, a
Parigi, dove si tenne un grande convegno internazionale su Descartes.
Raymond Polin ricorda che da allora Hobbes cominciò ad essere
considerato l’inglese freddo e crudele, autore del mostro Leviatano.
Dopo il ’45, i contrasti ideologici lo relegarono al ruolo di cerbero
del capitalismo, del liberalismo, del fascismo e del nazismo. Negli anni
Ottanta, in occasione dell’anniversario della nascita, Hobbes è stato
cautamente riscoperto, ma si è tentato spesso di esorcizzarlo
riducendolo a Descartes, il suo avversario. D’altronde anche la Royal
Society, il cui santo patrono era stato il Lord Cancelliere Francis
Bacon, che trascurò gli studi sulla circolazione del sangue di William
Harvery, disprezzò Copernicò, ignorò Keplero e Galileo, gli preferì lo
sperimentalista Boyle, ritenendo la sua epistemologia eterodossa.
Certamente Kant, risvegliato dal sonno dogmatico della ragione dal
rapporto con la filosofia di Hume, deve aver frequentato anche Hobbes
per il quale “il colore e la luce non sono accidenti degli oggetti, ma
nostri fantasmi” e Dio non può essere oggetto di scienza, ma solo di
fede. La figura del fantasma non rientrava nel metodo di Descartes, che
considerava le idee innate, chiare e distinte, mentre l’”Io penso”
kantiano conosce la realtà solo nei fantasmi del tempo e del spazio.
Descartes temette a tal punto “l’Anglois”, come lo chiamava, da
augurargli che il De Cive fosse condannato dalla Chiesa di Roma. Non gli
perdonò mai le critiche alla sua Dioptrique e soprattutto alle sue
Méditations. “
E’ certissimo –aveva obiettato Hobbes – che la conoscenza di questa
proposizione: io esisto, dipende da questa: io penso, come egli ci ha
insegnato benissimo. Ma da dove viene la conoscenza di questa: io
penso?”. Per una filosofia essenzialistica, come quella di Descartes, il
cui principale obiettivo è di stabilire conclusioni certe ed evidenti,
le critiche di Hobbes erano particolarmente erosive. Anche i principi
del De Cive erano per Descartes “molto malvagi e pericolosi, in quanto
suppone gli uomini cattivi”. Descartes trasmise la sua avversione per
l’Anglois a Rousseau il cui problema principale fu la negazione dell’
“orribile sistema di Hobbes”, già contestato da Montesquieu, per il
quale Hobbes attribuisce all’uomo passioni a lui derivate solo dalla
socializzazione e non comprende la timidezza estrema dei selvaggi. Se
Hobbes ossessionò due importanti filosofi francesi come Descartes e
Rousseau, non meraviglia che Paul Ricoeur consideri la filosofia di
Hobbes dominata dalla morte.
“Il terrorismo ha provocato un ritorno alla paura. Tutta la nostra
civiltà occidentale è passata dall’ottimismo culturale di Locke,
filosofo inglese del XVII secolo, al dominio della morte di Hobbes,
anche lui inglese e dello stesso periodo. Un mondo quello di Hobbes,
dove regnano “passioni tristi”, come le chiamava Spinoza. I giorni
dell’homo homini lupus, i giorni dell’uomo che è lupo per l’altro uomo.
Noi ci distinguiamo dagli animali per la nostra crudeltà. Che l’uomo
voglia far soffrire l’uomo e ricavarne godimento, ecco qualcosa di
tipicamente umano. L’invidia, l’odio, il piacere della tortura: l’uomo
cova passioni tristi come fondo permanente. Hobbes si esprimeva ai tempi
delle guerre di religione e dell’apparizione dei conflitti tra
stati-nazioni”. A parte alcune lacune sulle biografie di Hobbes e Locke,
che non vissero sempre nello stesso periodo (il primo dal 1588 al 1678,
il secondo dal 1632 al 1704), e sul periodo storico vissuto da Hobbes
caratterizzato dalla guerra civile inglese, rimane l’idea del “mostruoso
Leviatano” e la definizione della filosofia hobbesiana come affascinata
dalla male. Basta pensare al cartoon americano Calvin and Hobbes di Bill
Watterson e al suo Hobbes paziente, ironico e saggio, per avere un’idea
del diverso atteggiamento degli americani nei confronti di Hobbes. Un
atteggiamento nel quale nel quale si sconta innanzitutto la diversa
familiarità con l’opera hobbesiana. Leggere il Leviatano è una gioia,
poiché - come ha osservato John Plamenatz – è un grande trattato
meravigliosamente coinciso, ben costruito, potente, veloce, robusto,
colorito ed anche ironico. Lanciando Hobbes nella discussione su
americani ed europei, Kagan non ha insomma dato una semplice puntura di
spillo. Ha riaperto una discussione che gli europei preferirebbero
certamente eludere.
Hobbes fu comunque uno scandalo anche per i suoi contemporanei che
bruciarono i suoi libri sulla pubblica piazza di Oxford quattro anni
dopo la sua morte. Se l’ insulto di Oxford fu poi riscattato dal posto
d’onore riservatogli nella tradizione anglosassone, permane invece
presso i continentali la diffidenza per l’Inglese. Hobbes è il filosofo
moderno che analizza con un tale realismo il comportamento umano da far
impallidire il Nietzsche della volontà di potenza : compie una tale
rivoluzione filosofica da essere giudicato empio, mentre si comporta in
realtà come uno scienziato che studia i comportamenti umani sine ira ac
studio. Un individuo senza qualche grande passione, infatti, secondo
Hobbes, difficilmente potrà essere un grand’uomo. Egli scrive: “ Le
passioni che più causano differenze di ingegno sono principalmente il
maggiore o il minore desiderio di potere, ricchezza, di conoscenza, di
onore; tutti questi si possono ridurre al primo, cioè al desiderio di
potere, poiché ricchezze, conoscenza e onore sono diverse specie di
potere. E perciò un uomo che non ha una grande passione per una di
queste cose, ma è, come si dice indifferente, sebbene possa essere tanto
buono da essere scevro dal recare offesa, pure non è possibile che abbia
una grande fantasia e molto giudizio. I pensieri sono infatti per i
desideri come esploratori che vagano qua e là per trovare la via verso
le cose desiderate, dato che tutta la fermezza e la rapidità della mente
procede da lì”.
Come scrisse Elias Canetti, Hobbes tolse la maschera al potere, che non
è più concentrato in un solo punto, dall’alto al basso, ma presente
dovunque ed elemento centrale di ogni comportamento umano. Per Hobbes il
potere non è una istituzione giuridico-politico, né una struttura
economica, come in Marx, ma un elemento onnipresente in ogni aspetto
dell’agire degli individui e alla base di tutti i rapporti di forza
presenti nella molteplicità delle relazioni umane. Il filosofo che ha
forse meglio scavato la teoria del potere di Hobbes è Michel Foucault,
che non a caso, seguendo la metodologia di Hobbes, afferma ne La volonté
de savoir la necessità di essere nominalisti per capire la logica del
potere. L’autore de Les mots et les choses è come Hobbes concentrato sul
ruolo linguaggio. Come Hobbes anche Foucault ritiene che possiamo
conoscere solo i nostri discorsi sulle cose, perché tutto il nostro
sapere è un complesso sistema artificiale di lingue, simboli, operazioni
logiche, creato solo da noi. Per Foucault come per Hobbes, nomina nuda
tenemus. Il potere è una situazione strategica e come la guerra è la
continuazione della politica, così anche tutte le resistenze al potere
non dipendono da un elemento eterogeneo, né sfuggono mai alla logica del
potere, ma si inseriscono nel grande gioco del potere, anche quando si
allestisce la rivoluzione e si taglia la testa al re. La rivoluzione
francese è in fondo idealtipica del gioco del cervo e della lepre
descritto da Rousseau come la logica che l’”uomo nuovo” dovrà adottare.
Uniti si uccide il cervo, poi chi è più veloce si prende la lepre, ma
indossando la maschera dell’ideologia. Con lucidità Hobbes afferma che
la misura della capacità di provar pietà per le disgrazie altrui
consiste nella valutazione della possibilità di essere esposti alle
stesse disgrazie. Per questo, interpretare l’attuale conflitto in Iraq,
come suggerisce Kagan, secondo uno schema di lotta di Bene contro Male,
susciterebbe il sorriso di Hobbes. Il successo o la sconfitta nel gioco
del potere sono per Hobbes una conseguenza delle circostanze, delle armi
migliori, della maggiore abilità e autodisciplina, non di convinzioni
morali. Lo stesso successo di un’invasione straniera, per Hobbes -
traduttore della Guerra del Peloponneso di Tucidide - dipende dai
conflitti interni al paese invaso: i collaborazionisti sono coloro per i
quali è più vantaggioso allearsi con gli invasori per infrangere il
sistema di potere dominante nei loro paesi. Hobbes, che fu uno dei
maggiori grecisti del suo tempo (ottantasettenne tradusse in inglese
l’Odissea), è stato considerato postmoderno dopo la cosiddetta fine
delle ideologie proprio perché con il suo disincantato realismo dissolve
la tattica intrinseca ad ogni ideologia di legittimare la guerra sulla
base della denigrazione morale dell’avversario. Proprio perché Hobbes
ritiene immodificabile il Dna umano e, come Pareto, considera le
ideologie derivazioni per legittimare i conflitti, artifici prodotti
dalla capacità umana di elaborare retoriche attraverso il linguaggio,
esse possono rappresentare un’arma ben più distruttiva dei denti e degli
artigli delle fiere. Il limite della legittimazione ideologica della
guerra è politico, poiché innesca una spirale di conflitti che rendono
difficile allo stesso vincitore il controllo degli stati conquistati,
con i quali sarebbe invece più utile regolare i nuovi rapporti di forza
con una serie di trattati che anche ai paesi sconfitti potrebbe
convenire sottoscrivere. In questo senso, l’Europa, se riuscisse a
scrollarsi di dosso l’utopia kantiana della pace perpetua e recuperasse
il suo secolare realismo politico potrebbe dare un grande contributo
alla stabilizzazione del cosiddetto terzo mondo, in fibrillazione da
decenni per una errata decolonizzazione e per gli effetti devastanti
della Guerra Fredda, contribuendo con gli Stati Uniti alla difesa degli
interessi occidentali in vaste aree del globo e sollevando gli americani
dal ruolo di sceriffi del Bene in lotta perpetua contro l’asse del Male.
Hobbes torna attuale in tempi di realismo politico, di cui fu il padre
con Machiavelli. La differenza tra Hobbes e Machiavelli consiste nella
diversa soluzione data da essi al problema del bene e del male. Il
pagano Machiavelli riduce la virtù all’abilità. Machiavelli elabora una
retorica della virtù per la quale essa consiste nella capacità di
adattare il proprio comportamento al carattere dei tempi e può essere
identificata con qualsiasi atto – criminale o no – mirante alla
conservazione di se stessi, al successo personale e a quello della
propria Civitas. La strategia retorica di Machiavelli, che distingue tra
crudeltà “bene usate” e crudeltà “male usate” rende autonoma la virtù da
ogni contenuto morale. La virtù diventa un’abilità tecnica in politica e
la politica diventa autonoma dalla morale. Hobbes è più radicale. Per
Hobbes, l’individuo è costruito in modo tale che solo il suo piacere e
il suo interesse (self-interest) è la misura della morale: l’individuo
hobbesiano è egoista, come usualmente si dice, o, meglio, un nichilista.
Hobbes distingue però tra l’individuo dello stato natura e quello che ha
accettato di entrare nel Leviatano. Proprio perché, per ogni uomo, bene
e male sono soli dei nomi “ che significano i nostri appetiti e le
nostre avversioni che sono differenti nei differenti temperamenti,
costumi e dottrine degli uomini”, finché il singolo individuo è nello
stato di guerra dello stato natura, “il suo appetito personale è la
misura del bene e del male”. Ma, poiché nello stato di guerra totale la
vita e la proprietà di ognuno è in continuo pericolo, “tutti gli uomini
si accordano su questo, che la pace è un bene e perciò anche la via o i
mezzi per ottenere la pace”. Una volta accettato il patto e la
sovranità, è “la legge civile che determina ciò che onesto e disonesto,
ciò che è giusto, e generalmente ciò che è bene e male”. Ma, poiché
Hobbes non è Kant e non identifica la razionalità con un ordine
oggettivo della realtà, né attribuisce ad esso – come Kant - alcun
finalità, in quanto per il suo convenzionalismo epistemologico ci è
preclusa la conoscenza oggettiva della realtà e il movimento -
fondamento di ogni fenomeno dell’universo fisico e umano - è causa sui e
senza alcuna finalità, le leggi, prodotte sono valide finché dura il
patto che ha prodotto lo Stato. Affermerà nel De Homine: “Proprio per il
fatto che siamo stati noi stessi a creare le figure, avviene che c’è una
geometria e che è dimostrabile”. Lo stesso avviene per le leggi che
regolano la convivenza nel Leviathan: “ il giusto e l’equo, l’ingiusto e
l’iniquo, cioè le cause della giustizia, le leggi, le convenzioni, sono
cose che abbiamo fatto noi stessi”. La revisione in senso antiontologico
del nominalismo e il convenzionalismo epistemologico permettono a Hobbes
di superare il nichilismo etico nella scienza politica, alla quale
affida il compito della sopravvivenza di una specie le cui due passioni
più forti sono il desiderio di potere e di sopravvivenza.
Si comprende come oggi, mentre nella crisi delle grandi organizzazioni
internazionale come l’Onu e della stessa Unione Europea ricompaiono le
nazioni, gli stati e si parla di impero americano, il fondatore dello
stato moderno Thomas Hobbes sia attuale. Pagano quanto Machiavelli, per
dirlo con Berlin, poiché non crede all’illusione razionalistica di poter
cambiar gli uomini, né i suoi valori sono quelli cristiani della pietà e
della sofferenza, il problema di Hobbes è trovare un sistema per
governare la conflittualità all’interno dello stato, affinché il
Leviatano, dio mortale, non precipiti nella guerra civile. La politica è
per Hobbes il dominio dell’utile, costruzione di un ordine artificiale
il cui obiettivo è la pace all’interno dello stato. Se all’interno del
Leviatano è possibile governare i conflitti, la guerra invece permane
tra i Leviatani, ma per Hobbes non può esistere come bellum justum, come
strumento per ristabilire un ordine morale violato o imporre ad uno
stato i valori del vincitore. La guerra è una prerogativa dello stato
per ragioni di interesse e il nemico è justus hostis e i nemici hostes
utrimque justi. Hobbes rifiuta il concetto di bellum justum proprio
perché sa che il desiderio di potere è centrale in ogni comportamento:
il desiderio di potere nasce dal desiderio di piacere, diverso per ogni
individuo, e dal desiderio di “assicurarsi per sempre la via del proprio
desiderio futuro”. Il potere rappresenta “una inclinazione generale
dell’umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo
l’altro che cessa solo con la morte”. Per questo, gli uomini entrano in
conflitto, ma dall’ impostazione hobbesiana è chiaro che questa lotta
per il potere riguarda non il campo del giusto, ma quello dell’utile.
Per Hobbes la guerra esterna e la guerra interna (guerra civile) sono le
due cause di dissolvimento di uno stato e tutta l’opera di Hobbes è tesa
a evitare la guerra civile e l’obbligazione politica, fondata sul
diritto naturale, mira a considerare la cittadinanza come un antidoto
alla guerra. Ma Hobbes sa che la politica e la guerra si compenetrano:
disarma i cittadini, ma sa che permanendo anche nel Leviatano le
passioni che portano al conflitto, permane la possibilità della guerra.
Scrive infatti “ E sebbene la sovranità, nell’intenzione di quelli che
la fanno, sia immortale, tuttavia, per natura non solo è esposta a morte
violenta per una guerra esterna, ma, a causa dell’ignoranza e delle
passioni degli uomini, ha in sé, fin dalla sua stessa istituzione, molti
germi di mortalità naturale, per discordie intestine”. I Leviatani non
sono immortali, possono distruggersi, perché gli stati sono in continua
lotta come gli individui. Proprio perché la guerra non è legittimata da
Hobbes come bellum justum, ma è considerata connaturata al Dna umano e
diffusa tra i singoli individui come tra gli stati, esplosione violenta
della competizione eterna per il potere, Hobbes tende a preservare i
diritti dei cittadini e dei sovrano sconfitti attraverso trattati tra
stati.
Nel rilanciare Thomas Hobbes nella discussione politica, Robert Kagan
non tiene conto che Hobbes non avrebbe accettato la legittimazione
americana della seconda guerra mondiale come crociata per la democrazia
in Europa, come è deducibile dalla complessa regolamentazione hobbesiana
dei diritti dei cittadini e dei sovrani degli stati sconfitti. Lo stato
vincitore per Hobbes dissolve lo stato sconfitto e i cittadini dello
stato sconfitto non hanno altro mezzo per preservare la loro vita di
accettare la sovranità di uno stato straniero vincitore nel caso in cui
il sovrano sconfitto si sia sottomesso al vincitore. “ Se un monarca,
sottomesso in guerra si rende suddito del vincitore, i suoi sudditi sono
liberi dall’obbligo precedente e diventano obbligati col vincitore. Ma
se è tenuto prigioniero, o non ha libertà del suo corpo, s’intende che
non ha abbandonato il diritto di sovranità e perciò i suoi sudditi sono
obbligati a prestare obbedienza ai magistrati posti precedentemente che
governano non in nome proprio, ma in nome suo. Infatti, se il suo
diritto permane, la questione verte solo sull’amministrazione, vale a
dire, sui magistrati e gli ufficiali; se il sovrano non ha modo di
governarli, si suppone che approvi quelli che ha designati
precedentemente”. Proprio perché Hobbes sa come la guerra sia
ineliminabile dall’universo umano, tende a preservare i diritti dei
cittadini e del sovrano di uno Stato sconfitto. La guerra non può avere
per Hobbes nessuna legittimazione morale, né può pretendere per la sua
stessa essenza di essere considerata strumento di restaurazione di un
ordine morale violato. Lo Stato vincitore non può imporre la propria
sovranità sui cittadini dello Stato sconfitto se imprigiona o elimina
con violenza il loro sovrano, ma solo se quest’ultimo accetta di
diventare suddito del sovrano che lo ha sconfitto.
Come ha concluso Carlo Galli, Hobbes, riconoscendo allo Stato uno jus ad
bellum , tende a riconoscere uno jus in bello, una serie di patti per
ridurre “la distruttività della guerra, limitandola ad evento puramente
militare, rivolto contro le sole forze armate del nemico, con esclusione
quindi dei civili, e finalizzato a obiettivi solo politici, non
religiosi, né sociali”. Hobbes ha ben chiaro, come gli uomini possano
ingannarsi attraverso il linguaggio, ma teorizza anche la possibilità di
costruire un ordine artificiale fondato sul principio pacta sunt
servanda e quindi anche di una comunicazione fondata sulla lealtà. Sarà
la rivoluzione francese a rilegittimare la guerra come bellum justum,
affidandole l’obiettivo di trasformare l’ordine civile, politico,
religioso, sociale degli stati europei, obiettivo che diverrà nel XX
secolo addirittura universale con la teorizzazione della creazione di un
unico ordine politico e sociale universale, un Leviatano universale
impensabile per Hobbes, per il quale i grandi ed ampi stati sono i più
fragili e più adatti alla dissoluzione. E’ da notare però che se Hobbes
tende ad un contenimento della distruttività della guerra negli stati
europei, non si pone questo obiettivo per il mondo extraeuropeo per lui
vivente in uno stato di guerra endemica e quindi legittima la
colonizzazione, a cominciare da quella britannica in Virginia e nelle
Bermude.
Quando Arthur James Balfour il 13 giugno 1910 tenne una conferenza alla
House of Commons sull’impero inglese e in particolare dell’Egitto,
occupato dal 1882, egli doveva a Thomas Hobbes il concetto fondamentale
della sua retorica. Egli non legittimò l’occupazione inglese con la
maggiore potenza economica e militare britannica, né adducendo una
superiorità morale della civiltà occidentale su quella orientale, ma con
l’incapacità orientale del self-government. Nel momento in cui è in
corso la seconda Guerra del Golfo, occorre riflettere alla parola chiave
self-government del discorso di Balfour, per comprendere quanto
profondamente il concetto del contratto come principio basilare di ogni
stato non dispotico sia penetrato nella cultura politica anglosassone e
quanto l’abbia modellata. Si comprende meglio il senso della parola
self-government se si tiene conto che il Leviathan è scritto da Hobbes
durante la guerra civile inglese, da lui ricondotta nel Behemont alla
predicazione sediziosa del clero puritano che incitava il proprio
uditorio ad interpretare la Scrittura secondo la propria coscienza
individuale. Il problema che attualmente sta affrontando il mondo arabo,
scosso da un’ondata di fondamentalismo religioso che minaccia la guerra
civile negli stati arabi, è quello della secolarizzazione della
politica, sulla quale si basa la capacità di self-government. Hobbes
troverebbe però errata la codificazione della guerra preventiva come
bellum justum e chissà quali sarcasmi riserverebbe al richiamo a
sant’Agostino del teologo, politologo, filosofo cattolico Michael Novak.
Da buon realista politico Hobbes è favorevole alla tradizionale guerra
preventiva, non essendo contrario a prevenire e reprimere eventuali
attentati all’esistenza di uno stato. Hobbes considera, per esempio, una
malattia capace di condurre alla fine della sovranità di uno stato
l’eccessiva popolarità di un uomo potente, che può diventare soprattutto
in una democrazia il punto di riferimento di vari ed importanti settori
della società e, se ottiene il favore dell’esercito, finire per guidare
una rivoluzione. Per questo, indirettamente consiglia i responsabili
della sovranità di prevenire tali fenomeni. Ritiene però una malattia
ancora più devastante per uno stato “l’insaziabile appetito o bulimia di
allargare i domini, con le incurabili ferite che molte volte si ricevono
dal nemico e le natte di conquiste di conquiste disgregate che sono
molte volte un peso ed è minor pericolo perderle che conservarle”.
Hobbes non fu contrario all’idea di impero, tanto da ammirare nei Three
Discourses Augusto, fondatore dell’impero romano, va però considerato
che la vastità dell’impero romano non era paragonabile all’impero
americano che si prospetta dopo la vittoria in Iraq e per il filosofo di
Malmesbury un tale imperium sarebbe difficile da governare, focolaio di
ribellioni tali da innescare una spirale di guerra civile mondiale. Né
va dimenticato che Hobbes ammira Augusto perché con l’instaurazione
dell’impero mette fine alle sanguinose guerre civili della repubblica
romana, le cui fazioni si riproducevano nelle province, tartassate da
magistrati corrotti ed avidi, fino al punto che era andato perduto ogni
rispetto delle leggi, essendo queste amministrate in ossequio al
capriccio del capo della fazione di cui i magistrati erano seguaci.
Augusto, cauto e intelligente politico, mette fine anche alla anarchia
giuridica delle province e l’impero diventa uno strumento di
pacificazione. Ma la cautela e l’abilità politica di Augusto non furono
qualità di tutti i suoi successori e la superbia e crudeltà suscitarono
reazioni che alimentarono divisioni, rivalità, violenza, fino a
trascinare l’impero sull’orlo della dissoluzione. Per Hobbes, quale sia
la forma di governo dello stato ( monarchica, aristocratica,
democratica), l’obiettivo è la neutralizzazione della carica distruttiva
della conflittualità e quindi in un’ ottica hobbesiana l’attuale guerra
in Iraq dovrebbe favorire l’uscita – non l’ampliamento - dello stato di
guerra in cui si trova l’ordine internazionale dopo l’11 settembre,
perché il fine della politica è costruire un ordine artificiale capace
di assicurare benessere, sicurezza e libertà ai cittadini. Non a caso il
modello di Hobbes nel Leviathan non è Roma, ma Lucca, la città che dal
Trecento fu per oltre un secolo in una posizione di primato finanziario
e commerciale rispetto agli altri centri italiani e nel Cinquecento
diventò un mito per la l’impegno dei suoi cittadini contro ogni potere
particolaristico. L’Unione Europea, se riuscisse a comporre i suoi
dissidi, potrebbe con i suoi rapporti secolari col Vicino Oriente,
svolgere un ruolo importante nell’attuale situazione internazionale e
dovrà decidere nei prossimi mesi se vuole frenare la bulimia americana.
Per Hobbes il bene dello stato non differisce da quello comune e sa che
gli uomini gioiscono quando prevalgono sugli altri. Dominati da appetiti
ed avversioni, gli uomini possono o distruggersi oppure trovare un
ordine nel quale competere sulla base del self-interest. Qui sta la
differenza fondamentale con Machiavelli per il quale la politica è
l’arte della conquista e della conservazione del potere da parte di un
singolo o di una élite che tiene unita tutta una società attraverso una
religione civile. Per Hobbes non è una religione civile a tenere unito
uno stato, ma la capacità della convivenza tra individui dominati
dall’interesse personale e la possibilità di una competizione regolata
dalla stessa “corsa della vita”. Ciò che tiene insieme la Civitas
hobbesiana, più del timore della spada, è la trama delle passioni e
degli interessi. E’ un ordine artificiale che può rompersi quando la
spada del sovrano non ha più l’autorità di imporsi o quando la
competizione delle passioni e degli interessi sfocia nella guerra
civile. Si comprende quindi come il potere nel Leviatano non stia in un
solo punto, nella istituzione del sovrano, ma costituisca una trama di
relazioni che attraversa tutti i corpi e le istituzioni senza
localizzarsi mai del tutto in essi e, proprio per questa tendenza alla
dispersione e all’atomizzazione del potere, l’ordine del Leviatano è
fragile. D’altronde, Hobbes sa che la felicità è non per gli uomini la
quiete, l’assenza totale di passioni, di desideri, di conflitti, che
coincide con la fine del movimento biologico e psichico, ovvero con la
morte. Felicità è per gli uomini una infinita conquista, è desiderare; e
la legge del desiderio è tale da non esaurirsi mai nella conquista.
Questa concezione della felicità è anche alla base dell’antagonismo tra
gli uomini. Il problema di Hobbes è di trovare un ordine artificiale in
cui sia possibile la competizione, la “corsa della vita” senza
l’autodistruzione della specie, perché è la “corsa della vita” che rende
felici gli uomini e dà un senso alla loro vita.
La modernità di Hobbes si fonda sulla rottura con Aristotele. Hobbes
rifiuta non solo la teoria aristotelica della naturale socialità degli
uomini, ma anche quella della disuguaglianza naturale perché nessun
individuo – anche il meno perspicace – sarà disposto ad entrare in uno
stato fondato sul principio che alcuni sono più saggi degli altri e
destinati a governare. Questo principio è da tenere particolarmente
presente quando si afferma di stare combattendo per la democrazia in
Iraq. Ogni uomo infatti, secondo Hobbes, ritiene di valere almeno quanto
ogni altro, perciò, sia che siano uguali, siano che non lo siano, deve
essere ammessa una uguaglianza formale. Il paradosso che Hobbes ci pone
davanti è che gli uomini non sono in grado di rispettare questa
uguaglianza perché in competizione continua, ma senza la presenza
dell’uguaglianza, anche solo formale, non sono capaci di accettare alcun
patto. Il Leviatano di Hobbes non è fondato da un sovrano, da un
principe attraverso una guerra di conquista, ma dagli individui che
attraverso il patto creano loro stessi la sovranità per uscire dallo
stato di guerra. Per Hobbes, infatti, gli individui, al contrario di
quanto pensa Aristotele non sono api e formiche, per le quali il bene
privato non differisce da quello comune, ma sono in continua
competizione e gioiscono quando prevalgono sugli altri. Dominati da
appetiti ed avversioni, gli uomini possono distruggersi, oppure
competere sulla base del self-interest e da questa competizione può
nascere la ricchezza e il benessere di una comunità. Nel Leviatano non è
il Principe a tenere in mano con le arti della forza e dell’astuzia il
destino della Civitas, ma sono gli stessi individui, in ultima istanza,
i responsabili della sorte dell’ordine creato attraverso il patto. Se
Machiavelli arma i cittadini, Hobbes li responsabilizza perché gli
uomini non sono creature miti e socievoli ma naturaliter avversari e per
questo l’ordine che rende possibile la loro convivenza è artificiale e
può rompersi.
Paretianamente, Hobbes avrebbe potuto affermare che la storia è un
cimitero di Leviatani, proprio perché il Dna umano non è modificabile.
La razionalità degli uomini è limitata per Hobbes, in quanto, la stessa
ragione non è altro che uno strumento di calcolo al servizio delle
passioni, che possono degenerare nella distruzione della stessa specie
umana. Dalla considerazione della logica conflittuale della stessa
razionalità umana deriva il pessimismo hobbesiano, e la coscienza della
precarietà di qualsiasi ordine. Lo stesso Leviatano era considerato da
Hobbes un’ipotesi fin dalla prima frase. Per Hobbes il progresso
scientifico rendeva gli uomini più potenti, ma non poteva cambiare la
loro natura, essendone il prodotto. La quiete, la calma, poteva arrivare
– come affermò negli Elements – solo alla fine della corsa della vita.
Elias Canetti non si trovava mai d’accordo con Hobbes, ma fu tanto
sedotto dal Leviathan da decidere di farne la sua Bibbia ideale. La
seduzione di Hobbes, come scrisse Canetti, sta nella sua religiosa
empietà, nella sua “riservatezza, che gli consenti di tenere per sé
pensieri maturi e robusti per decenni, e di decidere il loro momento da
solo, inflessibile e impietoso”. Sta nel gusto sottile della sfida.
Ancora oggi il suo sorriso sardonico ci sfida.
4 luglio 2003
(da Ideazione 3-2003, maggio-giugno) |