Roadmap. Il muro di fuoco di Hamas
di Stefano Magni

E’ guerra aperta in Israele. Apparentemente (ma solo apparentemente) ci si trova di fronte a una nuova “spirale di violenza” fra Hamas e le Forze di Difesa israeliane: l’8 giugno l’imboscata al varco di Erez ai danni di una pattuglia israeliana, l’11 il tentativo (fallito) di uccidere il leader politico di Hamas, Abdul Aziz Rantissi, il giorno successivo l’esplosione di un autobus a Gerusalemme che ha causato la morte di 17 civili israeliani e poi l’ennesima sequenza di azioni “che affogano nel sangue il processo di pace”. Sembra quindi di trovarsi di fronte all’ennesimo tentativo di impedire il dialogo fra israeliani e palestinesi, condotto dai “falchi” delle due parti. Su questa linea si è mossa anche la diplomazia internazionale, con Bush che si è detto “profondamente turbato” dall’azione israeliana contro Rantissi, la quale, secondo il presidente degli Stati Uniti “danneggia la roadmap”. La reazione della stampa israeliana ai commenti di Bush è stato un coro unanime di disapprovazione. “E’ possibile trattare con Hamas? No – si legge su un fondo di Yediot Aharonot – non si può trattare con organizzazioni terroristiche che mirano, esplicitamente, alla distruzione della società israeliana. Il terrorismo va eliminato, se solo qualcuno sapesse come… Il presidente Bush non può costringere Hamas a fermare la sua campagna di terrore né può impedire a Sharon di lanciare operazioni di anti-terrorismo. Un cessate il fuoco? E con chi?”. Il Jerusalem Post è ancora più duro: “A quanto pare, Bush ritiene che eliminare uno come Rantissi danneggerebbe il processo di pace. Non ci eravamo resi conto che, dal punto di vista degli Stati Uniti, Hamas è un’organizzazione da proteggere e garantire”.

L’indignazione della stampa israeliana è più che comprensibile. L’idea che esista una “spirale di violenza”, scatenata da reazioni israeliane “esagerate”, non è che una semplificazione mediatica e diplomatica che non regge alla prova dei fatti. Per esempio è impensabile, in questo caso, considerare l’ultimo attentato di Gerusalemme come una risposta rapida di Hamas al tentativo di uccidere il suo leader. Un attentato di questo genere richiede almeno due settimane di accurata preparazione, non 24 ore. Dal vertice di Aqaba all’attentato di Gerusalemme, le forze di difesa israeliane hanno mandato in fumo altri 50 progetti di attentati suicidi. Gli israeliani, dunque, si trovano a fronteggiare un attacco continuo, che non conosce pause diplomatiche, da parte del terrorismo palestinese.

Sharon punta il dito esclusivamente contro Hamas. Le operazioni anti-terrorismo condotte dagli israeliani in questi giorni, mirano unicamente a colpire questa organizzazione integralista islamica, in quella che è già stata battezzata dalla stampa come la “guerra contro Hamas”. Ma anche questa è una semplificazione del conflitto, derivata, molto probabilmente, dalla volontà (israeliana, questa volta) di isolare l’organizzazione giudicata più pericolosa o, almeno, di combattere un nemico per volta. Però non è solo Hamas che sta colpendo Israele in queste settimane di guerra. A Tulkarem le Forze di Difesa israeliane hanno sventato in tempo un attentato suicida, pianificato dalla Jihad islamica in collaborazione con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, l’estrema sinistra palestinese. Peggio ancora: l’agguato al varco di Erez, che ha causato 4 morti fra i militari israeliani, non è stato rivendicato solo da Hamas, ma anche dalla Jihad islamica e dalle Brigate al Aqsa, il braccio armato di Al Fatah, il partito di Arafat in cui milita la stessa “colomba” Abu Mazen.

Chi, da parte palestinese, dovrebbe negoziare e, allo stesso tempo, combattere contro i propri estremisti, mantiene un atteggiamento ambiguo. Abu Mazen, il 9 giugno, ha cancellato un incontro con i leader di Hamas a Gaza, temendo per la sua stessa vita. Forse, proprio per questo timore, ha escluso di poter usare la forza contro i terroristi islamici. La sua intenzione è quella di voler proseguire il dialogo con loro a qualsiasi condizione. In un’intervista rilasciata al quotidiano arabo londinese Al Sharq, Al Awsat, il segretario dell’ufficio politico dell’Olp, Farouq al Qaddumi, ha spiegato molto chiaramente quali sono le idee che circolano all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina: “Noi sosteniamo che Sharon, che non capisce altra lingua se non quella della forza, è in una posizione debole a causa della forte pressione esercitata dalla società israeliana che ha perso la sua sicurezza. Questo vuol dire che siamo vicini a raggiungere i nostri obiettivi. Ciò che intendo dire è che alimentando la resistenza, possiamo costringere gli israeliani a ritirarsi e a firmare un trattato di pace”. Ufficialmente l’Olp è cosa diversa rispetto all’Autorità Nazionale Palestinese e dunque le intenzioni bellicose dell’Organizzazione potrebbero non riflettere la politica estera palestinese, ma, anche in questo caso, Qaddumi provvede a fugare ogni dubbio: “L’Olp rimane la principale fonte di autorità della Palestina. L’Autorità Nazionale Palestinese non può prendere decisioni in politica estera, senza l’autorizzazione del Comitato Esecutivo dell’Olp, che ha nominato Abu Mazen primo ministro, in quanto membro del Comitato Esecutivo”.

Anche l’ultimo discorso tenuto dallo stesso Arafat, in occasione del Giorno della Nakba (letteralmente: “catastrofe”, riferita alla nascita dello Stato di Israele) non è molto pacifico, per lo meno nei termini impiegati dall’anziano leader dell’Olp: “La grande cospirazione imperialista dei Sionisti contro la nostra nazione araba e la nostra patria palestinese, che è incominciata con il Congresso Sionista del 1897 a Basilea, ha raggiunto il suo culmine il 15 maggio 1948. Quel tragico giorno, lo Stato di Israele è stato fondato con la forza delle armi, come risultato di una cospirazione internazionale, sulle rovine della nostra patria palestinese”. E per quanto riguarda il presente, Arafat ha ringraziato i “martiri” che hanno “arricchito la terra con il loro sangue”, per la difesa dei luoghi sacri dell’Islam e della Cristianità. Ha giudicato “un’allucinazione” il credere in una “pace finta”. E infine ha invitato la “nazione araba” a “serrare i ranghi” per la riconquista di Gerusalemme: “La capitale della Palestina e di nessun altro Stato”.

20 giugno 2003
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