Come superare gli eterni ostacoli
di Giuseppe Mancini

Un nuovo successo per la strategia mediorientale di George Bush. Dopo lo smantellamento del regime dei Talebani, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein, i summit di Sharm el-Sheik e di Aqaba hanno infatti portato all’approvazione della Roadmap da parte di alcuni Stati arabi moderati (Egitto e Giordania su tutti), del primo ministro israeliano Ariel Sharon e del primo ministro palestinese Abu Mazen. Dalla fase distruttiva della guerra in Afghanistan e in Iraq, si passa alla fase costruttiva: e la pace tra israeliani e palestinesi diventa l’anello di congiunzione tra le due fasi, l’iniziativa politica da cui far partire la rinascita dell’Iraq, attraverso una rilegittimazione degli obiettivi americani presso le popolazioni e i governi arabi, superando di slancio le enormi difficoltà incontrate nei primi due mesi di occupazione. L’appoggio degli Stati della regione e dell’Europa, come Bush ha intelligentemente capito, è indispensabile per raggiungere in tempi brevi i traguardi che l’amministrazione americana si è prefissa: per assicurarsi quest’appoggio, il modo più sicuro è proprio quello di contribuire a risolvere una volta per tutte il conflitto israelo-palestinese.

Il fallimento del processo di pace di Oslo, gli errori della mediazione Clinton e l’opposizione da parte degli estremisti di una parte (l’ala più intransigente del Likud, i coloni ultranazionalisti e i fondamentalisti religiosi ebraici) e dall’altra (Hibullah, Hamas e Jihad islamica), fanno sorgere ragionevoli dubbi sulla concreta possibilità di un accordo definitivo: e purtroppo, così com’è stata concepita da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite (il cosiddetto Quartetto), la Roadmap non supera le incongruenze di tutti i piani che, negli ultimi anni, sono sempre naufragati nell’incapacità di arrestare la reciproca violenza della seconda Intifada palestinese e delle rappresaglie israeliane – il rapporto Mitchell, il piano Tenet, il piano Zinni, il piano del principe saudita Abdullah (pace e riconoscimento per Israele in cambio della restituzione integrale dei territori palestinesi) respinto dagli israeliani. Certo, la Roadmap contiene delle novità concrete e apparentemente decisive: soprattutto l’accettazione da parte israeliana di uno Stato palestinese sovrano e contiguo, con conseguente smantellamento di alcune colonie ebraiche; soprattutto la supervisione affidata elusivamente agli Stati Uniti, gli unici in grado di imporre a entrambe le parti il rispetto degli impegni presi.

Ma alcuni errori del passato vengono riproposti con inspiegabile ottusità: i negoziati su tutti i nodi più spinosi all’origine del conflitto – confini dello Stato palestinese, colonie ebraiche, status di Gerusalemme, rifugiati palestinesi – vengono confinati alle ultime fasi del processo di pace; si ripropone lo stesso percorso a tappe che nel caso di Oslo, a causa di applicazioni parziali e dilazioni, ha dato spazio per l’intervento degli estremisti intenzionati a sabotare l’intesa. Del resto, come si può pensare che le autorità palestinesi potranno neutralizzare il terrorismo, senza che le cause più rilevanti del terrorismo – l’occupazione militare israeliana e la colonizzazione – abbiano termine? Come si possono ipotizzare negoziati in buona fede, quando l’accettazione israeliana della Roadmap è stata condizionata a delle riserve che impediscono ogni possibilità di negoziato (soprattutto sul diritto dei profughi palestinesi al ritorno nelle loro terre d’origine)? Quando il governo israeliano è impegnato nella costruzione di una barriera di separazione che non ricalca la linea verde del 1967, ma ingloba vaste porzioni di terre che appartengono ai palestinesi, incluse terre agricole che vengono irrimediabilmente devastate?

Il problema fondamentale della Roadmap è che offre un percorso preciso verso una soluzione, senza offrire indicazioni concrete su quale dovrà essere questa soluzione. Ossia, uno Stato palestinese sovrano, sui confini del 1967 (con possibili, modeste rettifiche), con lo smantellamento delle colonie ebraiche (che per il diritto internazionale sono tutte illegali), con il riconoscimento da parte israeliana del diritto dei rifugiati palestinesi che hanno subito la pulizia etnica nel 1948-1949 a ritornare nelle loro terre (un diritto simbolico a cui dar corso quasi esclusivamente tramite risarcimenti monetari), la proclamazione di Gerusalemme come capitale di tutti e due gli Stati (possibilmente a sovranità congiunta): come controparte, Israele avrà il riconoscimento a esistere in pace e in tutta sicurezza da parte dei palestinesi (dello Stato di Palestina) e degli Stati arabi della regione – punto di partenza di un compromesso generale che porti alla pace anche tra Israele e Siria (previa restituzione delle alterare del Golan ai siriani) e la fine dell’occupazione militare siriana in Libano. A Taba, nel gennaio 2001, i negoziatori israeliani e palestinesi avevano compiuto passi importanti in vista di un accordo complessivo: con compromessi che consentivano di raggiungere un’intesa di massima sul contenzioso territoriale e sul problema dei rifugiati: le colonie ebraiche contigue a Israele (con circa l’80% dei coloni) sarebbero state inglobate, in virtù di uno scambio territoriale su base uno a uno; un piccolo numero di rifugiati (alcune decine di migliaia) sarebbero stati accolti in Israele, mentre gli altri sarebbero stati risarciti per le proprietà a loro sottratte dagli israeliani con incentivi per il loro definitivo insediamento in Palestina o negli Stati arabi di residenza. Solo se i nuovi negoziati partiranno da questi accordi già raggiunti (ma poi abbandonati dopo l’elezione di Sharon) e non da posizioni più intransigenti che negano ai palestinesi i loro diritti, la Roadmap avrà qualche speranza di successo.

6 giugno 2003

giuse.mancini@libero.it
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