Neoconservatori americani, tra leggende e realtà
di Alessandro Gisotti
No, non sono cowboys. Sebbene nel Vecchio Continente vengano spesso
descritti né più né meno come incalliti giocatori di Risiko, i
neoconservatori americani non hanno “sequestrato” la politica estera
statunitense, come si è letto da qualche parte. Soprattutto, non sono
carbonari a stelle e strisce che tramano nell’ombra, come vorrebbe far
credere una certa corrente di pensiero, inguaribilmente affezionata alle
teorie del complotto. I “neocon”, che si raccolgono attorno a centri
studi come l’American
Enterprise Institute e riviste quali
Weekly Standard, non sono nati
all’indomani dell’11 settembre 2001. Sono trent’anni che giocano la loro
partita sulla scacchiera politica e culturale americana. E nascono a
sinistra, nel Partito democratico. Non negli ambienti dell’ultradestra
repubblicana.
Il termine neoconservative compare per la prima volta negli anni ’70 ed
è utilizzato con accezioni negative. Viene, infatti, affibbiato ad un
gruppo di liberal, che si opponeva al nuovo corso intrapreso dai
democratici sulla scia del movimento del ’68. Insomma, una sorta di
“ribelli contro la ribellione”, come ben sintetizzato da Joshua
Muravchik sull’International Herald Tribune. Più morbidi dei propri
compagni di partito nel giudizio sulla guerra in Vietnam, più duri nei
confronti dell’Unione Sovietica - sulle orme del percorso ideologico
tracciato dal presidente Truman - i neoconservatori rifiutarono
all’inizio questa categorizzazione, che, nella definizione medesima, li
avrebbe esclusi dal campo liberal. Un’etichetta, nelle parole del
politologo Seymour Martin Lipset, creata ad arte per “indebolire i
propri oppositori politici” ritenuti intellettualmente traditori della
causa liberale. Più mito che realtà, invece, la loro predilezione per
Leon Trotsky. Il New York Times ha parlato piuttosto di neoconservatori
straussiani, in riferimento al filosofo Leo Strauss (recentemente anche
Policy Review si è occupata del
rapporto tra l’autore di “Pensieri su Machiavelli” e il conservatorismo
nordamericano, in un articolo a firma Steven Lenzner). Tuttavia, è pur
vero che negli anni ’30 un gruppo di studenti newyorchesi, considerati
antesignani dei “neocon”, mostrò attenzione per l’antistalinista
teorizzatore della “rivoluzione permanente”.
Idealisti ma non utopisti, progressivamente gli ormai ex democratici
accetteranno l’appellativo neoconservative. Nel 1979, lo farà in modo
clamoroso Irving Kristol - padre di William, direttore di Weekly
Standard - con un libro intitolato “Confessioni di un vero, reo confesso
neoconservatore” (Confessions of a True, Self-Confessed
Neoconservative). E’ lo stesso Kristol, ci ricorda Jonah Goldberg su
National Review On Line, a spiegare che il forte individualismo alla
radice della diaspora dei “neocon” impedisce loro di dar vita ad un
movimento coerente. Tanto meno, quindi, ad un blocco di potere. “Quando
due neoconservatori si incontrano – affermava Kristol senior – è più
facile che si mettano a litigare tra loro, piuttosto che a cospirare
insieme”.
La svolta avviene nei ruggenti anni ’80 di Ronald Reagan. E’ con la sua
presidenza che i neoconservatori traslocano definitivamente nel Partito
repubblicano ed entrano nella stanza dei bottoni. La loro filosofia
funge da linfa vitale per la crociata anticomunista ingaggiata da
Reagan. L’Unione Sovietica diventa l’impero del male (evil empire). Alla
stessa maniera in cui oggi gli “Stati canaglia” sono racchiusi nella
formula ideo-geometrica dell’asse del male (axis of evil). I “neocon” si
dimostrano alfieri della promozione “muscolare” dei diritti umani nel
mondo e dell’esportazione di democrazia e libero mercato, anche in
quelle aree – vedi il quadrante islamico – che sembrano impermeabili
all’american way of life. La loro piattaforma programmatica è scandalosa
anche per i repubblicani tradizionali - i paleoconservative à la Patrick
Buchanan - più vicini per sensibilità e obiettivi alla destra europea,
legata al motto d’antan “law and order”. Alla base del pensiero
neoconservatore c’è, dunque, il convincimento che, in un mondo più
libero – soprattutto libero da tiranni e dittatori, compresi quelli in
passato sponsorizzati da Washington – l’America sarà più sicura. Di qui,
l’idea di una “missione” americana per la democrazia, cavallo di
battaglia ieri di Reagan, ora di Bush junior. Per raggiungere questo
obiettivo, i “neocon”, che qualcuno ha già ribattezzato “imperialisti
democratici”, si affidano alla forza militare almeno nella misura in cui
ripongono fiducia nelle arti del negoziato. Anzi, più che l’Onu e la
fragilità del suo Palazzo di Vetro, tengono in considerazione la
solidità del Pentagono. Che notoriamente è di cemento armato. Insomma,
per dirla con Robert Kagan, autore dell’ormai celebre “Of Paradise and
Power”, gli americani - nella visione neoconservative - vivono nel mondo
di Hobbes, mentre gli europei si sono rifugiati nell’utopica “pace
perpetua” kantiana.
Imbevuti di messianismo democratico, pulsante fin dalla nascita nella
nazione americana e portato in auge nel secolo scorso dal presidente
Wilson, i neoconservatori sono molto meno cinici e proni alle ragioni
della Realpolitik di quanto si potrebbe comunemente, e comodamente,
pensare. Nell’era clintoniana, sono proprio loro i più convinti
assertori di un intervento americano in Bosnia e poi in Serbia. In nome
dei diritti umani, contro la dittatura di Milosevic. E, tutto sommato,
contro gli interessi della stessa America, impegnatasi non senza dubbi e
perplessità nelle “guerre umanitarie” dei Balcani. Nei lunghi anni
dell’era Clinton, i “neocon” preparano quel sostrato culturale a cui
Bush jr attingerà per plasmare “enduring freedom”, la lotta al
terrorismo senza distinzione di meridiani e paralleli. Il think thank
che maggiormente contribuisce alla rivincita “neocon” è il
Project For the New American Century
(Progetto per un nuovo secolo americano). Un nome, verrebbe da dire, che
è tutto un progetto. Fondato nel 1997 dal solito William Kristol,
annovera tra i suoi padri fondatori molti dei personaggi che ora dettano
tempi e modi della politica estera statunitense. Tra questi, il
vicepresidente Cheney, il segretario alla Difesa, il superfalco Rumsfeld
e il numero due del Pentagono, Wolfowitz. Ma anche Jeb Bush, fratello di
George W. e governatore della Florida. Nella dichiarazione di principi
del Centro si legge: “Dobbiamo accettare la responsabilità di un ruolo
unico dell’America nel preservare ed estendere l’ordine internazionale”.
E ancora, la “leadership globale americana è un bene per l’America, ma
anche per il mondo intero”. Linguaggio da pionieri, da nuova frontiera.
Forse sì, sono un po’ cowboys.
6 giugno 2003
gisotti@iol.it |