“L’Iraq a rischio kamikaze”
intervista a Ludovico Incisa di Camerana di Cristiana Vivenzio

“Gli attentati di Riad e Casablanca aumentano il rischio Iraq. Se non si troverà una via rapida verso la normalizzazione politica e istituzionale, il paese finirà per popolarsi di kamikaze, diventerà un campo di battaglia ideale per il terrorismo islamico”. Un’analisi di ampio raggio quella che propone l’ex ambasciatore Ludovico Incisa di Camerana, che identifica in una rapida risoluzione politico-istituzionale della questione irachena una delle chiavi di volta per la stabilizzazione dell’intera area mediorientale.

Ambasciatore, qual è la posizione americana di fronte al rinnovarsi della violenza terrorista?

Gli americani si sono accorti del pericolo e lo hanno dimostrato mettendo l’amministratore già designato per la ricostruzione dell’Iraq, il generale Jay Gardner, agli ordini di Paul Remer, l’ex capo dell’ufficio del contro-terrorismo al Dipartimento di Stato. Manca tuttavia un’indicazione precisa sul futuro assetto del paese, che in principio dovrebbe trasformarsi in un modello di democrazia nella sua area, in un esempio per il Medio Oriente e il mondo arabo, come lo è, tuttora, per l’Asia un esperimento riuscito come il modello giapponese. Per ora l’Iraq si aggiunge alla lista degli Stati o degli aspiranti Stati sottoposti ad un’amministrazione controllata esterna. E’ una categoria che sta infoltendosi: comprende già in Europa la Bosnia e il Kosovo e in una certa misura la Macedonia, in Asia l’Afghanistan e Timor. E il numero potrebbe crescere.

Per quale motivo, ambasciatore?

A causa all’inettitudine delle Nazioni Unite, tanto invocate a sproposito nel caso dell’Iraq, ma assolutamente indifferenti di fronte al dissolvimento di certi Stati africani come la Liberia, la Sierra Leone, la Somalia, e laddove sono presenti come nel Congo, incapaci di evitare, come accadde a suo tempo a Srebrenica in Bosnia, massacri di massa di civili inermi. 

Tornando all’Iraq e agli Stati Uniti, a suo avviso quali possibili soluzioni si prospettano all’orizzonte? 

In Iraq è rassicurante il fatto che la responsabilità sull’avvenire del paese ricada esclusivamente sugli Stati Uniti e sui loro alleati. Ma è lecito domandarsi se sia o meno realistico pronosticare una rapida modernizzazione del paese o dell’intero paese secondo un modello liberaldemocratico di tipo occidentale. A questo riguardo è utile considerare un caso per certi versi analogo: l’ex Jugoslavia. Come l’Iraq, l’ex Jugoslavia era uno Stato artificiale, un satellite dei due imperi europei, la Gran Bretagna e la Francia, usciti vittoriosi dallo scontro nella prima guerra mondiale con gli Imperi centrali, la Germania e l’Austria-Ungheria, e l’Impero ottomano. Tenuta insieme da una monarchia autoritaria, la Jugoslavia si sfasciò nel 1941 al primo urto delle forze dell’Asse, proprio quello che accadrà pochi mesi dopo all’Iraq, occupato dalle truppe britanniche, che così scongiurarono il suo passaggio dalla parte della Germania e dell’Italia. Dopo la seconda guerra mondiale la Jugoslavia viene rimessa insieme da un dittatore, Tito, che, usando la mano pesante con le forze centrifughe, si barcamena grazie alla guerra fredda e ad un abile gioco diplomatico tra l’Est, l’Ovest e i non allineati, ottenendo l’appoggio di tutti. Ma una dozzina d’anni dopo la sua morte, basterà l’onda d’urto della fine della guerra fredda per mandare tutto a catafascio e dar luogo alla secessione e alla scomparsa della Jugoslavia. 

E in Iraq con Saddam è accaduto qualcosa di simile alla Jugoslavia di Tito? 

Anche Saddam Hussein è riuscito durante la guerra fredda sia a destreggiarsi tra l’Occidente e l’Urss sia a far piazza pulita degli oppositori interni, usando metodi più barbari e tribali di quelli di Tito, forse altrettanto crudeli, non tali peraltro da suscitare tempestivamente l’indignazione internazionale. Ma ovviamente il sistema da lui posto in essere e la politica estera schizofrenica da lui scelta non potevano essere più tollerati. Oggi, tuttavia, rimosso il regime, scacciato dal palcoscenico Saddam e la sua tribù, per l’Iraq si pone la stessa alternativa che si pose alle diverse parti della Jugoslavia negli anni ’90.

Qual è questa alternativa?

O un’unità forzata o la secessione; o ricercare, riadattando lo schema politico unitario di Saddam, opportunamente disinfettato e addomesticato, una leadership nazionale forte e secolarizzata, magari utilizzando i resti del partito governativo, il Baas, la sola struttura istituzionale ancora esistente (ma ci si può davvero fidare dell’apparato del regime debellato?) ovvero ricominciare da capo, scegliere la via jugoslava, la divisione del paese, magari in tre Stati, riuniti o meno in una federazione, il Nord curdo, il centro con la capitale Baghdad, il Sud sciita. Lasciati a sé stessi gli iracheni profondamente divisi tra loro per etnia (curdi, arabi, assiri) e per religione (sciiti, sunniti, cristiani) dovrebbero scegliere la seconda alternativa, spingendola fino a conseguenze di tipo jugoslavo: niente federazione, ma Stati indipendenti.

Con quali conseguenze?

Naturalmente, contro uno Stato curdo pende il veto della Turchia, che vede come il fumo negli occhi la nascita, alle sue frontiere, di uno Stato indipendente, ricco grazie alle risorse petrolifere, e militarmente agguerrito da una resistenza pluridecennale. Uno Stato sciita del Sud diventerebbe una copia del vicino Iran, e quindi, anche se in formato ridotto, sgradita per gli Stati Uniti. Lo Stato centrale di Baghdad non avrebbe le risorse petrolifere concentrate soprattutto nelle altre due zone. Una simile spartizione inoltre complicherebbe ulteriormente quella ricomposizione del Medio Oriente “ad uso occidentale”, vagheggiata dagli Stati Uniti e nel fondo desiderata anche dalla maggioranza dei paesi europei. 

E allora quale alternativa concreta rimane?

Scartata questa seconda soluzione e tenuta presente la difficoltà di selezionare la nuova classe dirigente locale, è probabile che l’amministrazione controllata dell’Iraq sia destinata a durare, come sta durando quella della Bosnia e del Kosovo. Ma se non sarà accompagnata da una attenta e continua campagna contro l’estensione all’Iraq della rete terrorista, non si potrà scongiurare un dopoguerra più confuso e cruento della guerra che l’ha preceduto. 

23 maggio 2003

vivenzio@ideazione.com

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