Usa, parte la lunga corsa alla riconferma di Bush
di Alessandro Gisotti

Con un gesto che poco concede al romanticismo, la compilazione da parte di un impiegato della Casa Bianca del modulo di “intenzioni” indirizzato alla Commissione elettorale federale, è iniziata ufficialmente - il 16 maggio - la campagna presidenziale 2004 di George W. Bush. Un passaggio burocratico cruciale, che permette ora all’ex governatore del Texas di iniziare la raccolta dei fondi elettorali. Nei prossimi giorni, dunque, i “grandi elettori” d’America si vedranno recapitare le lettere con le quali Bush jr. chiederà il sostegno, rigorosamente monetizzabile, per un nuovo mandato. Come richiesto dalla legge, il presidente ha dovuto rendere pubblica la consistenza del suo patrimonio personale. Ranch texano compreso, Bush ha dichiarato un valore di 8,8 milioni di dollari. Meno della metà del suo vice, Dick Cheney, (19 milioni di dollari). In giugno, il presidente potrebbe partecipare alla prima manifestazione di fund-raising e c’è già chi tra i Repubblicani prevede di doppiare i 100 milioni di dollari raccolti nella tornata del 2000. Gli ultimi dettagli della lunga corsa verso le presidenziali di novembre 2004 saranno messi a punto, in Virginia, nel quartier generale, ritrovo di tutti gli uomini del presidente.

Tuttavia, a credere ai sondaggi che stampa e Tv americane stanno pubblicando in questo periodo, sembra che la partita sia chiusa prima ancora di iniziare. Prevale l’idea che il voto si ridurrà ad un atto formale, che tributerà un semiplebiscito a quel George W. Bush, uscito vittorioso tre anni fa contro Al Gore solo grazie ad una manciata di voti e all’intervento dirimente della Corte Suprema. Le ultime rilevazioni demoscopiche attribuiscono al presidente in carica un consenso tra il 65 e il 70 per cento. Così, nel tracciare possibili scenari da qui al giorno del voto, in molti - da questa, ma non dall’altra parte dell’Atlantico - hanno voluto intravedere una similitudine tra i due Bush. Sbagliando. Certo, nel 1992 Bush senior aveva da poco vinto la guerra in Iraq. Ma quello era un conflitto “a sé stante”, che non rientrava nella più ampia lotta al terrorismo, oggi – come nel day after l’11 settembre – nemico pubblico numero uno del popolo americano. D’altro canto, Bush padre subì un’emorragia di voti a causa del terzo incomodo, Ross Perot, mentre nessuno insidia Bush figlio. Per quanto riguarda, poi, l’economia statunitense - traballante oggi come nel ’92 - l’attuale presidente, facendo tesoro degli errori del padre, ha mantenuto le promesse elettorali, varando proprio in questi giorni un imponente taglio delle tasse, il terzo nella storia americana. Un provvedimento, criticato dall’opposizione, che lancia l’allarme rosso sui conti pubblici, ma che al Senato ha ottenuto l’ok anche da esponenti democratici. Last but not least, Bush sr. si trovò di fronte Bill Clinton, al tempo sconosciuto governatore di uno Stato marginale, quale l’Arkansas, ma uomo politico dalle qualità comunicative straordinarie. 

Un leader carismatico, come non si vedeva dai tempi di JFK, tanto brillante e vivace quanto grigio appariva l’ex capo della Cia succeduto a Reagan. Oggi, invece, il fronte democratico presenta nove candidati “rissosi” che si oppongono a un presidente “spavaldo”, secondo le icastiche definizioni del Time. Paradossalmente, tra loro, non compaiono i due democratici, che, forse, davvero avrebbero potuto rendere meno tranquilli i sogni di Bush il giovane: Al Gore (tanto amato dalle diplomazie del Vecchio Continente) e Clinton. Non Bill, ma Hillary Rodham. Ieri first lady, oggi lady di ferro della politica a stelle e strisce.

Nella prima uscita pubblica, nel Sud Carolina, gli “anonimi nove” – un sondaggio riferisce, infatti, che due terzi degli americani non conoscono neanche il loro nome – se le sono date di santa ragione, mostrando il fianco a quanti parlano di un partito caotico e, dunque, inevitabilmente ondivago. Incapace di una posizione netta in politica estera e altrettanto negli affari interni. Un malessere, quello del partito dell’asinello, sintetizzato, causticamente, dal titolo del libro di Kenneth R. Libbey: “Cara, non ricordo, perché siamo democratici?” (I Forgot, Honey, Why Are We Democrats?). Insomma, la versione americana del morettiano “dì qualcosa di sinistra”. In realtà, tra i nove “Dems”, non mancano le figure di rilievo come il senatore Joseph Liberman (ricco avvocato del Connecticut, punta di diamante della lobby ebraica), il senatore del Massachussets, John Kerry (erede, tramite la moglie, del gigante alimentare “Heinz”), il senatore della Nord Carolina, John Edwards (anch’egli avvocato di grido) e, ancora, il volitivo deputato del Missouri, Richard Gephardt. I mali del partito, in realtà, non derivano tanto dal profilo dei candidati quanto piuttosto da una serie di questioni di fondo irrisolte. Quesiti a cui i democratici dovranno rispondere in fretta, se vogliono nutrire qualche speranza di rivincita. In uno speciale sul Time, Joe Klein ha provato a tracciare un “promemoria” per la costruzione di un partito democratico migliore. L’articolo è stato duramente, e prevedibilmente, criticato dai neoconservatori. “Time – ha scritto Lee Bockorn sulla rivista Weekly Standard – è sempre stato uno dei magazine più liberal d’America, ma non avrei mai pensato di vedere i suoi editori trasformarlo nel bollettino del partito democratico”. 

Cosa sostiene, dunque, il settimanale più diffuso negli Usa? Per l’editorialista del Time, i democratici avranno qualche chance contro Bush solamente “diventando qualcosa di diverso da ciò che sono”. Affrontando con coraggio le tre sfide, “patriottismo, ottimismo e fiducia”, all’insegna di tre imperativi categorici: “riappropriarsi della bandiera”, “abbandonare il pessimismo” e “far fuori i consulenti”. Secondo Klein, i “Dems” dovranno convincere il pubblico di essere impegnati sulla difesa nazionale non meno dei repubblicani. Quindi, dovranno proporre “alternative politiche chiare e ragionevoli”. Soprattutto, comprensibili. Infine, un consiglio e un monito, basta con lo “stile difensivo” dettato dai consulenti delle ultime campagne presidenziali. “Mimetizzarsi – conclude lapidario – non sarà sufficiente questa volta”. Nota di merito al Riformista, che qualche settimana fa, - all’indomani della capitolazione di Baghdad – aveva anticipato l’analisi del Time scrivendo: “Durante tutta la seconda parte della guerra fredda, da Nixon in poi, quando i democratici si colombizzavano venivano impallinati, come è avvenuto in ben cinque elezioni su sei”. Significativamente, lo speciale del Time è accompagnato da un sondaggio on line, che chiede ai lettori su quale “issue” dovranno puntare i democratici per vincere le presidenziali. Alla data del 22 maggio - su 19.431 voti espressi - il responso è inequivocabile: il 49,2 per cento dice politica estera, il 28 sanità, il 22,8 economia.

Nell’aspro dibattito politico-culturale tra democratici e repubblicani, si è inserito l’American Enterprise Institute, think thank “neocon”, che vanta un plotone di suoi uomini nell’amministrazione Bush. La bordata agli orfani di Clinton (stavolta Bill) è arrivata sotto forma di un articolo a firma David Frum (già speechwriter di Bush jr e autore della biografia sul presidente “L’uomo giusto”, The Right Man). Il pezzo è costruito con efficacia. Frum si cala nelle vesti del presidente Truman, che 55 anni fa prevalse al di là di ogni pronostico contro il repubblicano Dewey, e si rivolge ai suoi compagni di partito, forte della sua esperienza. Valida oggi, come mezzo secolo fa. Nel 1948, spiega Frum-Truman, il problema politico numero uno era “evitare il verificarsi di una nuova Depressione”. Guerra e pace, inflazione e corruzione non erano paragonabili alla paura degli americani di una nuova disoccupazione di massa e l’angoscia di dover fare la fila per acquistare il pane. Nonostante questo, prosegue, “Dewey continuava a raccontare che la Depressione era acqua passata e che era tempo di dedicarsi ad altri temi”. Grave errore, perché i politici, chiosa, non devono scegliere quali sono le priorità. “Solo gli elettori lo possono fare”. Ed ecco la lezione per il presente. Nel 2004, incalza Frum-Truman, la questione prioritaria sarà la sicurezza. Ci saranno altre “issues”, ma la lotta al terrorismo sarà l’ago della bilancia. Di qui, il giudizio senza appello di Frum (ora solo Frum e non più Truman) nei confronti dei democratici: “Se volevate vincere nel 2004, dovevate supportare la guerra al terrore al 150 per cento, invece di piagnucolare sui diritti degli immigrati illegali. Ora è troppo tardi”. 

Insomma, anche non sposando le tesi ipercritiche di Frum, il partito democratico sembra, comunque, in cerca d’identità e i suoi nove candidati, personaggi in cerca d’autore. Ben presto, d’altronde, i più deboli tra loro si faranno da parte. Le difficoltà per Bush potrebbero, allora, emergere proprio nel suo partito, specie dall’ala destra dei repubblicani. Un problema potenziale, su cui recentemente si è soffermato l’Economist in un servizio dal titolo “Un matrimonio travagliato” (A troubled marriage). L’articolo si sofferma sui malumori dei Social Conservative (fedeli ad una piattaforma tradizionale del partito) a causa di alcune nomine di gay nell’amministrazione Bush, compreso un ambasciatore. Il rapporto ha subito dei sali-scendi, ma il momento della verità è vicino. Tra qualche mese, infatti, si dovrebbe ritirare uno dei giudici della Corte Suprema. In tale frangente, gli occhi della destra religiosa saranno tutti puntati sul presidente, a cui spetta la nomina dei membri della massima autorità giuridica federale. I Social Conservative hanno già mal digerito la nomina del giudice “liberal” David Souter. Bush è avvertito. D’altra parte, se certo non traslocheranno mai nel campo democratico, i Social Conservative potranno far mancare il proprio voto, che - tanto per intenderci - è stato decisivo, nelle elezioni di midterm del 2002, per conquistare i seggi senatoriali di Georgia e Missouri.

Anche a questo dovrà pensare Karl Rove, lo stratega di Bush jr, a cui la stampa italiana (eccetto il Foglio) dedica poca attenzione, ma che negli States riceve il trattamento di una superstar. Sul guru, che ha inventato la formula “conservatorismo compassionevole”, sono usciti ultimamente nelle librerie americane due volumi, uno nel quale viene definito il “cervello di Bush”; l’altro “Boy Genius”, ragazzo prodigio. In realtà, come ben tratteggiato in un gustoso ritratto di Christian Rocca sul blog Camillo, Rove (cinquantaduenne) ha soprattutto il volto del ragazzino. E l’inventiva. Che sommata a nervi d’acciaio ne fanno uno degli uomini più temuti d’America. Definito ora lo “Spielberg” della Casa Bianca, ora il “Machiavelli di Bush” (così lo ha soprannominato Eleanor Clift su Newsweek), Rove ha saputo trasformare ogni uscita presidenziale in un evento. Spettacolarizzazione ricercata con estrema professionalità da un team hollywoodiano. Che non ha mancato, tuttavia, di sollevare polemiche. Anche roventi. Come nel caso dell’atterraggio di Bush sulla USS Lincoln - atto conclusivo della campagna militare in Iraq - alla guida di un jet della Marina. Sembra che l’ex produttore del network Abc, Scott Sforza – uno degli esperti arruolati da Rove – si sia recato sulla portaerei qualche giorno prima del “Bush Day” per studiare ogni dettaglio, dalla posizione della nave rispetto alla luce solare ai colori delle magliette dei marines. Insomma, una di quelle americanate, che fanno inorridire i cittadini della Vecchia Europa. Ma che, nella terra dove un attore di second’ordine è diventato uno dei più grandi presidenti del secolo scorso, qualche volta aiutano a vincere le elezioni. 

23 maggio 2003

gisotti@iol.it


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