La transizione infinita di Belgrado
di Elisa Benzoni

L’analisi su quanto accaduto in Serbia lo scorso 12 marzo è passata per lo più attraverso un duplice schema: quello della fatalità della violenza come caratteristica storica e strutturale dei popoli balcanici; e, per altro verso, quello della più che mai generica suddivisione tra buoni e cattivi nella quale la morte di Zoran Djindjic rappresenta il prezzo di sangue pagato da chi voleva democratizzare il paese per condurlo in Europa. Le cose non stanno propriamente così. Primo perché il passato non condiziona in maniera inevitabile il futuro. Secondo perché nella difficile fase di transizione che la Serbia attraversa è arduo distribuire i torti e, tantomeno, le ragioni. In sintesi, il premier serbo è stato vittima delle difficoltà e delle contraddizioni insite nella transizione; difficoltà che per altro non aveva saputo padroneggiare e che anzi, in qualche modo, aveva contribuito a creare.

In questo quadro, non ci sembra poi così determinante sapere per mano di chi il premier sia stato ucciso – seguaci di Slobodan Milosevic, mafia, servizi segreti – perché tutti questi attori sono, in diversi modi, espressione di un rapporto perverso tra politica e società civile; un nodo con cui la classe dirigente si è confrontata troppo tardi, e che solo ora (dopo l’assassinio del primo ministro) è stato affrontato alla radice.

E’ questo un dato, nei confronti del quale Vojislav Kostunica, ex presidente federale, e Zoran Djindjic, primo ministro della Repubblica serba, hanno dovuto confrontarsi dopo la caduta di Milosevic nel settembre del 2000. Ma hanno affrontato il problema in maniera sensibilmente diversa. Kostunica ha sempre ritenuto che il passaggio alla democrazia dovesse essere graduale, pensando che prima dovessero essere affrontati problemi di stabilità istituzionale, per poi combattere la criminalità e la società ancora legata agli illeciti dell’era Milosevic: prima le regole, insomma, lo Stato di diritto, poi l’affermazione piena della democrazia e del mercato. Al contrario, Djindjic, più spregiudicato, ha voluto forzare i tempi; identificando il successo del processo democratico con la propria affermazione. A tal fine si è anche, in qualche modo, servito dell’instabilità istituzionale, arrivando a spingere i serbi a disertare le urne per evitare il raggiungimento del quorum e con esso l’elezione alla presidenza serba di Kostunica. La sua speranza era, infatti, quella di rafforzare i consensi attorno al suo partito per ripresentare, in nuove elezioni, in tempi da definire, un suo candidato in grado di battere l’avversario non più avvantaggiato dell’attenzione mediatica riservata alla prima carica dello Federazione (carica che Kostunica avrebbe ed ha abbandonato in maggio).

Anche per questo con l’uccisione del premier a Belgrado si è verificato un vero e proprio vuoto di potere: perché l’uomo più rappresentativo del paese, Kostunica, era in procinto di perdere il suo ruolo istituzionale e politico. Oggi il partito di Djindjic, ironia della sorte ma soprattutto reazione di una nazione a un assassinio illustre, ha guadagnato i consensi per cui il suo leader si era tanto battuto con una grande varietà di mezzi, più o meno corretti. Ad ucciderlo una democrazia imperfetta: imperfezione che, per inciso, la politica del premier non è valsa ad eliminare. Per sconfiggere l’intreccio perverso tra mafia e politica occorre il concorso di tutte le forze democratiche; e speriamo che quell’uccisione a Belgrado possa servire almeno a questo.

23 maggio 2003

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