Germania, le disillusioni degli Schröder boys
di Pierluigi Mennitti

La mattina li ritrovi tutti lì, fra gli scaffali e i compact disc della libreria multimediale Dussmann, un palazzetto moderno all’angolo della Friedrichstrasse, qualche metro distante dal vecchio passaggio sotterraneo di confine tra Est ed Ovest. Sono i disoccupati dello zoo di Berlino, una nuova generazione tedesca che raggruppa soprattutto i trentenni, giovani in cerca di prima occupazione dopo un’interminabile adolescenza fatta di studi, vita agiata e lavoretti precari, tanto per non smentire l’antica idea che i ragazzi, in Germania, smammano da casa presto e tirano su la paghetta sparecchiando in bar, birrerie e ristoranti. Sono gli “Schröder boys”, i figli dell’era socialdemocratica, illusi dalle parole d’ordine del buonismo governativo: pace, tolleranza e sicurezza sociale. Più occidentali (wessis) che orientali (ossis), più ricchi che poveri, assomigliano in tutto e per tutto alla gioventù pigra e sfaccendata di casa nostra che però si trascina da decenni il fardello di esser mammona ed indolente. Trascorrono le lunghe ore della mattina pencolando da un corridoio all’altro, dalla mensola dei tascabili di narrativa alla pila dei libri di ricette etniche, dalla sezione musicale di vecchie glorie del cabaret berlinese alle cuffie che introducono alle melodie della world music. E poi su, al terzo piano, per controllare la posta elettronica in uno degli internet point, e poi giù, nel sotterraneo, per concludere la visita con una bella carrellata di musica classica, senza dimenticare di passare per le sale con le ultime uscite dei film in Dvd. “Non sono mai stata così aggiornata in fatto di libri e musica”, sorride Maren Hanimann, trent’anni, un diploma di manager alberghiero appena conquistato e un sogno di rapido impiego già riposto nel cassetto. “Non ho molto da fare e passare qualche ora qui, oltre ad essere divertente, mi aiuta a restare informata sulle novità letterarie e musicali. Ne vedo tanti di giovani disoccupati alla Dussmann, è un luogo di ritrovo, meglio di un ufficio di collocamento: in fin dei conti libri e musica sono cultura, no?”.

La disoccupazione morde i fianchi dell’intero paese come mai negli anni passati. Ma, per la prima volta, coinvolge la fascia giovanile istruita e agiata, i figli di quella borghesia che ha costruito il miracolo economico tedesco e non ha saputo adattarlo ai tempi che cambiavano. E così altri neo laureati, appena giunti alla soglia della professione, fanno una scelta diversa e affrontano le incertezze dell’emigrazione. Come Marc e Vera Zorn, trentenni anche loro e freschi di altare, architetti poco occupati in uno studio professionale di Göttingen, in Bassa Sassonia, nel cuore della Germania. “Le commesse diminuivano di mese in mese, il lavoro svaniva sotto i nostri occhi. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto: andiamo”. Da qualche mese si sono trasferiti a Londra dove le politiche economiche non seguono il registro ideologico della vecchia socialdemocrazia continentale ma quello più innovatito del New Labour blairiano. E dove il lavoro si trova.

Una crisi che sfianca il paese

L’ufficio federale ha fornito il dato ufficiale della disoccupazione a gennaio 2003: 4 milioni 623 mila senza lavoro, la cifra più alta da quando Schröder si è insediato alla Cancelleria nel 1998. Il tasso è salito all’11,1 per cento: su cento tedeschi, undici stanno a casa a girarsi i pollici. Ne sono colpiti un po’ tutti: ad Ovest come ad Est, giovani e anziani, uomini e donne senza riguardo per distinzione geografica, anagrafica o di sesso. Ma non è solo sul lavoro che i dati economici della Germania sembrano un bollettino di guerra. Man mano che i festeggiamenti per la rielezione si allontanavano, il governo Schröder ha dovuto snocciolare le verità nascoste in campagna elettorale. Il deficit pubblico del 2003 sarà superiore al previsto e per il secondo anno consecutivo la Germania supererà i limiti imposti dall’Unione europea. Con questi chiari di luna è in pericolo anche il pareggio di bilancio nel 2006. Il governo ha rivisto anche le stime della crescita per il 2003, passando dall’1,5 all’1 per cento mentre quelle del disavanzo peggiorano di settimana in settimana: l’ultima previsione indica una cifra superiore al 2,7 per cento mentre è ormai ufficiale che il disavanzo del 2002 si sia aggirato attorno al 4 per cento. Gli operatori internazionali sono ancora più pessimisti: la Morgan Stanley, ad esempio, prevede una crescita allo 0,4 per cento e un rapporto deficit/Pil al 3,2.

Ma le cifre, che pure misurano la crisi con la freddezza dei numeri, non possono raccontare il sentimento di sfiducia e di insicurezza che pervade i cittadini in ogni momento della vita quotidiana. Ai tedeschi piace spaccare il capello in quattro in ogni discussione e riflettere, analizzare, soppesare e, se possibile, affliggersi. In questi mesi vanno a nozze se capita di parlare della loro situazione economica. E capita quasi sempre: di fatto non esiste altro argomento di conversazione che li appassioni. Vi racconteranno dei diversi settori commerciali in affanno, dei negozi che chiudono, delle grandi catene distributive che fanno ricorso a saldi mai visti, scontando gli articoli sino al 70-80 per cento pur di non restare con la merce invenduta. Si lamenteranno degli aumenti legati all’introduzione dell’euro, che in Germania sono stati superiori a quelli degli altri paesi europei e hanno mobilitato le potentissime associazioni dei consumatori in un’azione di pressione verso le autorità politiche e verso i commercianti. Vi diranno comunque che nessuno spende più, che le vie dello shopping sono affollate ma i negozi restano desolatamente vuoti e le statistiche delle organizzazioni del commercio confermeranno tali impressioni. Ma anche in questo settore le leggi rigide imposte dai sindacati impediscono alla Germania di riorganizzare su basi più flessibili l’intero comparto, a cominciare dagli orari di apertura dei negozi. Una parziale liberalizzazione c’era stata negli anni scorsi ma ha riguardato solo le grandi città: l’orario di chiusura si è protratto sino alle 20 ma il sabato è rimasto sacro. Nelle piccole e medie città tedesche le saracinesche calano alle 18. Nessuna possibilità di apertura domenicale. Città come Berlino, Amburgo, Francoforte o Monaco non conoscono quella sorta di istituzione occidentale che è divenuta lo shopping del sabato sera: nelle stesse ore in cui a Londra, Roma e New York la gente invade strade affollate e negozi illuminati in Germania si spengono i lampioni e ci si ritira di buon ordine a casa, lasciando le vie dei centri storici e commerciali desolate e silenziose. La vita prende i ritmi lenti e compassati dei bei tempi andati: un paradiso per i no-global ma se la domanda interna è debole l’economia soffre.

Altri settori sono in difficoltà. Quello immobiliare ad esempio, soprattutto nei nuovi Länder dell’Est, dove le case non si vendono e neppure si affittano mentre in altri paesi europei l’immobile viene visto come un bene rifugio in questi tempi di crisi generalizzata. Dalle finestre dei nuovi condomini per uffici e abitazioni, sorti come funghi nel centro della ricostruita Berlino, spuntano striscioni delle agenzie di vendita che sollecitano all’acquisto clienti che non ci sono. Ma anche qui uno Stato troppo invadente impedisce al mercato di svolgere la sua funzione: una legge obbliga i venditori a mantenere inalterato il prezzo di vendita e in più consente al Comune una sorta di prelazione nell’acquisto. Ma il Comune è in bancarotta, così i prezzi rimangono artificiosamente elevati e gli appartamenti tristemente vuoti: in molti isolati del Mitte, il quartiere centrale, Berlino assomiglia a una città fantasma. 

Dagli immobili alla stampa la musica non cambia: i cari vecchi giornali tedeschi, gonfi di pubblicità e inserti, sono diventati magri e sottili come aringhe. Lo Spiegel, istituzione settimanale della sinistra pensante (e pedante) ha perso un terzo delle pagine. La Frankfurter Allgemeine Zeitung, autorevole quotidiano di Francoforte, ha invece perso un terzo dei suoi giornalisti. Nella classifica delle vendite è stato superato dalla bavarese Süddeutsche Zeitung, ma a Monaco non hanno festeggiato: è stato un sorpasso a passo di gambero, cioè la Frankfurter ha perso più lettori della Süddeutsche. Meno lettori, meno pubblicità (si calcola che il calo degli introiti pubblicitari sia del 30 per cento), meno giornalisti: la crisi colpisce il florido settore dei media, anche questa volta fedele specchio delle condizioni del paese. E non risparmia neppure le televisioni, come testimoniarono le insolvenze del gruppo privato Kirch.

La fine del Modell Deutschland

La Germania perde competitività, il costo del lavoro è troppo elevato, la concorrenza difficile da sostenere con uno Stato assistenziale che nessuno ha voluto riformare. A questa vera e propria debacle economica, tanto più preoccupante in quanto colpisce il paese che sinora è stato il motore dell’Europa, il governo rosso-verde ha risposto con una ricetta tanto obsoleta quanto inefficace, se non addirittura deleteria: un ulteriore aumento delle imposte (la benzina è recentemente aumentata di 3 centesimi di euro al litro) e dei contributi previdenziali saliti dal 19,1 al 19,5 per cento dello stipendio. Misure che si aggiungono a precedenti abolizioni di sussidi e detrazioni fiscali per le imprese e al rinvio della riforma fiscale per recuperare fondi da destinare alla ricostruzione delle città colpite dall’alluvione estiva. La crisi internazionale pesa su un’industria che fa dell’export di qualità la sua principale risorsa. Ma il dubbio si insinua oltre la contingenza. E se fosse una crisi di modello? Se le cause di questa frenata, evidenziata da una congiuntura sfavorevole, fossero in realtà sistemiche? Se all’orizzonte non ci fosse la ripresa ma il lento e inesorabile declino del paese? Per evitare lo spettro di un destino giapponese, molti osservatori ritengono sia il momento di ripensare il “Modell Deutschland”, l’economia sociale di mercato, cinquant’anni di stabilità e successi legati a quello strano capitalismo noto al mondo come “renano”, fatto di crescita lenta ma costante, benessere diffuso, pace sociale e welfare. Elementi che non sembrano reggere il confronto con la globalizzazione.

Prendiamo il sistema delle relazioni industriali. L’economia globale impone velocità nelle decisioni dei manager, flessibilità nelle dimensioni dell’azienda, dinamicità nell’adattarsi a condizioni che mutano rapidamente. In Germania, invece, resiste come un dogma la “Mitbestimmung”, l’istituto della codecisione paritetica con i consigli di sorveglianza da parte dei rappresentanti dei lavoratori e dell’impresa. Anzi, il cancelliere Schröder ne ha ampliato le competenze scontentando gli imprenditori. O prendiamo la natura estremamente rigida del rapporto banche-imprese, con queste ultime che tendono a reperire il capitale prevalentemente tramite il sistema bancario e in misura minore attraverso il mercato borsistico. Questo ruolo centrale esercitato dalle banche sulla conduzione dell’impresa, anche attraverso l’acquisizione di grossi pacchetti azionari, è poco compatibile con la dinamica del mercato aperto. Tanto più che la concorrenza fra istituti di credito è falsata dalla presenza di banche pubbliche dei Länder che godono di sovvenzioni. Un intreccio rischioso per le stesse imprese e per il sistema nel suo complesso. Nel 2002 Dresdner Bank, controllata dal gigante assicurativo Allianz, e Commerz Bank del gruppo Hvb hanno chiuso il bilancio con notevoli perdite: se il trend negativo dovesse proseguire, Commerz Bank e Hvb potrebbero diventare insolventi e richiedere un salvataggio da parte della Bundesbank.

I limiti della classe dirigente politica

Ma i politici affrontano con indolenza il tema della riforma. Quella del mercato del lavoro, presentata un mese prima del voto da un gruppo messo in piedi in fretta e furia dal cancelliere, è apparsa già allora una semplice trovata elettorale. E tale è rimasta, visto che in sei mesi nulla si è mosso. Ma se la coalizione di governo agisce con i paraocchi dell’ideologia statalista, l’opposizione non sembra proporre una vera alternativa. Qualche concessione alle richieste delle imprese, un programma di riduzione fiscale e di incentivi per gli investimenti: ma nei programmi elettorali della Cdu, il partito cattolico-democratico che guida l’opposizione, non si ritrovano concrete misure di riforma dello Stato sociale. I partiti, d’altronde, riflettono su questo punto l’atteggiamento assai conservatore dell’elettorato che lamenta le continue erosioni dei privilegi assistenziali: per i tedeschi il sistema sociale che li ha accompagnati nei lunghi anni del benessere economico è un totem intoccabile e risponde a esigenze anche di tipo esistenziale. E’ un popolo programmatore che non ama i cambiamenti e si adatta con difficoltà a una vita che scorre in argini meno solidi e certi. In un sondaggio pubblicato dallo Spiegel qualche settimana fa, alla domanda “Siete pronti per le riforme?” il 48 per cento ha risposto sì, il 45 no: un elettorato spaccato a metà, molto favorevoli i lavoratori autonomi, molto contrari gli operai.

Il panorama politico tedesco riflette a pieno la realtà del paese e se a sinistra il cancelliere si sostiene al potere paralizzante del potente sindacato, a destra Angela Merkel sconta forse la propria origine tedesco-orientale e l’ex candidato Edmund Stoiber la dimensione regionale della sua leadership politica. Sono comunque tutti figli del modello di economia sociale di mercato. Manca una classe dirigente all’altezza del compito di ridisegnare l’impalcatura di questo modello per far sopravvivere il meglio della tradizione di welfare e liberare nello stesso tempo energie e iniziative private: la Germania resta un paese talmente forte e strutturato che le sue potenzialità sarebbero immense. Ma i padri della patria, vecchia e nuova, non ci sono più: la generazione degli Adenauer è scomparsa da un pezzo per motivi anagrafici, quella dei Kohl è stata sepolta sotto scandali finanziari e aveva comunque fatto il suo tempo, consegnando ai successori l’eredità agrodolce della riunificazione. Non resta che guardare con una certa invidia i vicini di casa: sulla stampa il dibattito su come riformare è serrato e i giornali snocciolano statistiche e tabelle che dimostrano come Inghilterra, Olanda, Francia, Svizzera e soprattutto i paesi scandinavi siano riusciti a rimodellare i sistemi di welfare e dare slancio alle loro economie.

Un governo dal futuro incerto

Il quadro politico generale, dopo le elezioni federali dello scorso settembre che hanno confermato la guida rosso-verde, resta instabile e incerto. Un’analisi dettagliata della geografia elettorale emersa dal voto nazionale di settembre non promette nulla di buono per la coalizione di governo. Primo: la delusione degli ambienti imprenditoriali, espressa anche nei mesi più recenti dal capo dell’organizzazione di categoria, si è rafforzata in seguito all’immobilismo riformista del cancelliere. Nel 1998 furono proprio gli industriali a decretare la svolta politica e a benedire il Neue Mitte socialdemocratico, dopo sedici anni di era Kohl. Secondo: l’appoggio decisivo al nuovo governo è venuto dai Länder dell’Est, dove le paure hanno prevalso sulle speranze, l’atteggiamento passivo sull’ottimismo, il bisogno di sicurezza sulla voglia di rischiare. E dove l’antiamericanismo, che Schröder ha utilizzato in campagna elettorale e che sembra diventata la nuova cifra di una politica estera tanto ideologica quanto isolazionista, tocca ancora corde antiche che risuonavano negli anni del regime. L’Ovest ha votato Cdu. O meglio, è tornato a votare la Cdu, consentendole di uscire dalla crisi in cui l’aveva gettata lo scandalo dei fondi neri e di recuperare il ruolo di catalizzatore degli interessi della parte più dinamica del paese. E le elezioni amministrative di febbraio in due Länder chiave come l’Assia e la Bassa Sassonia stravinte dal centro-destra, ne sono ulteriore conferma. Terzo: i Verdi non sono solo Joschka Fischer. Sono anche e soprattutto un partito intriso di ideologismo, che predica un’arcadia terrestre i cui costi finiscono sempre sulle bollette altrui. Lo Stato sociale al servizio delle utopie. Ma oggi quella bisaccia è vuota e la scelta pauperistica costa in termini di diminuzione della ricchezza e assenza dello sviluppo, come dimostrerà la scelta di abbandonare il nucleare. I Verdi pesano di più sul nuovo governo, perché lo hanno fatto vincere. Hanno acquisito nuovo voto borghese ma è una borghesia non imprenditoriale, che vive delle rendite passate e vuole godersele nel giardino di casa.

Dal voto di settembre sono ormai passati sei mesi e tutte le difficoltà indicate dall’analisi post-elettorale si sono verificate. In più si è appannata l’immagine del cancelliere che pure era riuscito, con il suo carisma, a ribaltare l’esito elettorale con un’intensa campagna personale nelle ultime settimane. Le misure prese per affrontare la crisi economica, l’assenza di una strategia di riforma, le rivelazioni sulla verità dei conti pubblici e, da ultimo, la poco accorta gestione del rapporto internazionale con gli Stati Uniti hanno evidenziato la difficoltà di Gerhard Schröder a misurarsi con le sfide epocali che la Germania deve affrontare: il cancelliere non trasmette fiducia, sta vivendo una difficile stagione politica, le sconfitte elettorali regionali sono state più pesanti del previsto e la sua leadership può essere messa a dura prova nei mesi a venire, anche all’interno della Spd.

Alla ricerca del ruolo internazionale perduto

L’altro versante della crisi riguarda la politica estera, la nebulosità del progetto nazionale, il ruolo della Germania in Europa e nel mondo. Fin dai primi passi dell’esperienza di governo, la coalizione rosso-verde si è mossa senza una strategia precisa, operativa. Più che il rafforzamento del profilo internazionale, la Germania ha perseguito un egoismo di corto respiro. Ha colto molte opportunità commerciali e imprenditoriali che la globalizzazione dei mercati le offriva, prima nelle vicine aree dell’Est europeo, poi nelle lontane terre asiatiche e in Cina. Salvo poi mettersi alla testa dei paesi critici verso la globalizzazione. Ha intensificato le missioni militari all’estero, anche forzando le direttive costituzionali e le resistenze politiche dei Verdi, salvo poi rompere platealmente con gli Stati Uniti sulla guerra all’Irak cedendo a toni di antiamericanismo inusuali in un paese dalla solida tradizione occidentale. Ha snobbato il rafforzamento dell’Unione europea rifiutando quel ruolo di locomotiva del processo di integrazione che Helmut Kohl aveva costruito e sostenuto grazie a un rapporto di ferro con l’alleato francese. Nei primi quattro anni di governo rosso-verde si è segnato il punto più basso nei rapporti franco-tedeschi dalla fine della seconda guerra mondiale, salvo poi riesumare con Parigi un’asse ormai sfiatato per imporre all’Europa una posizione pilatesca sulla guerra all’Irak. Ma quel che più sorprende è che la Germania abbia smarrito il ruolo di guida verso i paesi dell’Europa centro-orientale, assunto naturalmente dopo la caduta del muro e il crollo dei regimi comunisti, a vantaggio dei paesi scandinavi. E’ il Baltico il nuovo motore di un’Europa il cui baricentro economico è slittato più a Nord: Svezia, Finlandia, Estonia, Danimarca e Norvegia sono le tigri artiche che hanno rubato la scena a Berlino.

Agli inizi degli anni Novanta gli equilibri geo-politici continentali esaltavano la centralità tedesca, cerniera irrinunciabile tra due realtà diverse che intraprendevano la lunga marcia dell’unificazione. La Germania aveva vissuto sul suo territorio la divisione che per quarant’anni aveva separato i destini delle due Europe e sembrava dunque storicamente più preparata di altre nazioni occidentali a interpretare bisogni, esigenze e speranze dei vicini ritrovati. E invece anche su questo versante l’eredità di Kohl è stata vissuta con fastidio ed è stata liquidata in quattro anni di disattenzioni, piccole frizioni, scelte strategiche sbagliate. Oggi la Germania si confronta con un Est molto agguerrito, non più subalterno né complementare, semmai concorrenziale soprattutto rispetto all’Est tedesco, quei cinque nuovi Länder irrorati da trasferimenti di denaro al ritmo di 70 miliardi di euro l’anno dal 1991 ad oggi. Ma l’80/85 per cento di questi trasferimenti è finito ad alimentare uno Stato assistenziale che ha mantenuto artificialmente alto il costo del lavoro (soprattutto in riferimento alla produttività della manodopera tedesco-orientale) e solo il 15/20 per cento è stato finalizzato al miglioramento delle infrastrutture. I collegamenti su strada e su rotaia rappresentano tuttora l’unico vantaggio competitivo dei nuovi Länder ma gli Stati che fra un anno entreranno a pieno titolo nell’Unione europea – Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia, Lettonia e Lituania – hanno istituzioni economiche più moderne e agili, perché passate attraverso la cura dimagrante delle riforme che in Germania nessuno ha voluto fare: mercato del lavoro, pensioni, misure per attrarre investimenti dall’estero. I numeri, anche qui, non tradiscono: dal 1998 al 2001 i nuovi Länder tedeschi hanno attirato 3,5 miliardi di euro di investimenti diretti dall’estero; dal 2000 al 2002 la Repubblica Ceca ne ha attirati 13 miliardi.

Competitori sui mercati economici, i vicini dell’Est stanno diventando rivali sullo scacchiere politico. La guerra all’Irak è uno spartiacque decisivo tra diverse concezioni dell’Europa e la riproposizione dell’asse franco-tedesco si è scontrata con l’offensiva anglo-italo-spagnola concretizzatasi con l’ormai famoso Appello degli Otto di solidarietà con gli Stati Uniti d’America. Tra i firmatari, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Le cicatrici del lungo totalitarismo comunista sono ancora troppo recenti per diluire quella voglia di Occidente che gli Stati centro-orientali sublimano negli Stati Uniti prima ancora che nell’Europa. In fin dei conti sono stati loro, gli americani, a sconfiggere il comunismo in una lunga guerra di posizione, così come furono gli americani a sconfiggere il nazismo liberando tedeschi ed europei da un altro totalitarismo continentale. I tedeschi lo stanno dimenticando, polacchi, cechi e ungheresi no. E’ troppo presto per dire se davvero una nuova Europa si appresti a sostituire quella vecchia mandando in soffitta l’asse continentale franco-tedesco, come ha affermato il segretario alla Difesa Usa, Donald Rumsfeld. Ma la Germania corre un grande rischio: quello che doveva essere il secolo del suo ritorno fra le grandi potenze mondiali può trasformarsi nel secolo dell’Europa senza la Germania. 

9 maggio 2003

pmennitti@ideazione.com

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)



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