Roadmap, tutti i dubbi di Israele
di Stefano Magni

Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Onu, il “quartetto” che ha presentato il nuovo “percorso di pace” per il Medio Oriente, sembrano soddisfatti. Le dimissioni di Arafat e la nomina di un nuovo governo dell’Autorità Nazionale Palestinese, guidato da Mahmud Abbas (Abu Mazen), giudicato universalmente come la colomba palestinese, hanno reso euforiche le cancellerie e la stampa internazionale. Sembra che, come alla fine della precedente guerra del Golfo, il Medio Oriente sia destinato ad attraversare un nuovo periodo di pace e stabilità. 

Tuttavia, soprattutto dopo i due attentati a Kfar Saba e Tel Aviv, avvenuti proprio mentre erano in corso le trattative per il nuovo governo palestinese, gli israeliani non paiono così ottimisti come i loro alleati d’oltre oceano. Gli ultimi attentati suicidi, secondo la rivendicazione pervenuta all’agenzia France Presse, sono frutto di un’operazione congiunta degli integralisti Hamas (organizzazione che può ostacolare, come sempre ha fatto, il nuovo processo di pace) e dei “laici” delle Brigate Martiri di Al Aqsa, braccio armato di Fatah, il partito di Arafat e dello stesso Abu Mazen. Lotta di potere fra il vecchio e il nuovo leader sulla pelle degli israeliani? Può darsi. Rimane il fatto che nuovi attentati nel corso delle trattative, gettano un’ombra già all’inizio del nuovo “percorso di pace”.

Altro dubbio israeliano: Arafat ha veramente lasciato il potere ad Abu Mazen? Come da accordi raggiunti, contemporaneamente al giuramento del nuovo governo, Arafat ha ordinato la creazione di un Consiglio di Sicurezza Nazionale, il cui compito è quello di controllare, in modo trasparente, tutti gli apparati della sicurezza dell’ANP. Dopo una tenace opposizione di Arafat e dopo un lungo e feroce dibattito interno, il nuovo organo di controllo non è stato affidato al vecchio leader dell’Olp, ma a un altro dirigente palestinese considerato una “colomba”: Mohammed Dahlan. Non senza giungere a un compromesso, però: l’Intelligence Generale e Forza 17 sono tuttora sotto il controllo diretto di Arafat. Ciò viola gli accordi che erano alla base del “percorso di pace”. E non si tratta di particolari irrilevanti nell’apparato di sicurezza palestinese: l’Intelligence Generale, guidata da Tawfik al Tirawi è l’ente più sospettato di coprire il terrorismo suicida delle brigate Al Aqsa da tre anni a questa parte. Al Tirawi, infatti, compariva in tutti i documenti sequestrati dai militari Israeliani durante l’Operazione Muro di Difesa, quale principale anello di congiunzione fra Arafat e le Brigate Martiri. Il mantenimento del controllo dei servizi di sicurezza palestinesi da parte di Arafat, combinato con i due ultimi attentati suicidi, gettano un’ombra ancora più pesante sull’inizio del “percorso di pace”.

Terzo dubbio israeliano: Mahmud Abbas/Abu Mazen è veramente quella “colomba” così come viene dipinto dalla stampa e da tutte le cancellerie impegnate nel processo di pace? Nel suo discorso di investitura, Mazen ha incluso nel suo programma il cosiddetto “diritto al ritorno”, ciò che aveva contribuito a far naufragare i precedenti accordi di Camp David: il programma prevede il reintegro in Israele di tutti gli otto milioni di profughi palestinesi (compresi i loro discendenti, anche coloro che in Israele non sono mai vissuti) cosa che, obiettivamente, costituirebbe una bomba demografica tale da cancellare, di fatto, lo Stato di Israele. Su questo punto è possibile che le future trattative fra israeliani e palestinesi possano naufragare. Nel passato recente, Abu Mazen si è presentato come il leader moderato e pronto alla trattativa con Israele, ma da lui non è mai giunta una sola autentica condanna al terrorismo palestinese. Il 3 marzo aveva dichiarato al giornale arabo di Londra Al Sharq Al Awsat: “Sulla base degli accordi presi al Cairo (con Hamas e la Jihad, ndr) abbiamo raggiunto un accordo per il congelamento delle operazioni militari palestinesi per un anno (…) Questo non vuol dire, naturalmente, che abbiamo accantonato la lotta armata. L’Intifada deve continuare”.

In un’altra dichiarazione pubblica, dopo aver condannato il terrorismo islamico, Abu Mazen aveva fatto dei distinguo molto importanti, sostenendo che la “resistenza armata” contro Israele non deve essere confusa con il terrorismo. Anzi: Abu Mazen ha sempre elogiato la “coraggiosa insurrezione contro l’aggressione israeliana” e i palestinesi che “hanno combattuto con onore”. E nel linguaggio abituale del nuovo leader palestinese, i terroristi suicidi sono ancora chiamati “martiri”. Il passato meno recente di Mazen rivela dei particolari ancora meno confortanti. Sospettato di essere uno dei finanziatori del massacro della squadra olimpica israeliana alle Olimpiadi di Monaco, Abu Mazen ha studiato a Mosca dove si è specializzato in tesi anti-sioniste. Secondo il leader “moderato”, il movimento internazionale sionista avrebbe inventato l’Olocausto per giustificare la nascita di Israele. Senza temere contraddizioni, un altro suo testo, “La relazione segreta fra il nazismo e il movimento sionista”, sostiene invece che i sionisti abbiano premuto sui nazisti per intensificare lo sterminio degli ebrei, onde ottenere maggior consenso per la creazione di uno Stato di Israele. Nonostante tutto, il premier israeliano Ariel Sharon e il ministro della Difesa Shaul Mofaz parlano del governo di Abu Mazen come di uno “sviluppo positivo”. Evidentemente la leadership palestinese non ha niente di meglio da offrire. 

9 maggio 2003

stefano.magni@fastwebnet.it


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