L’America che verrà
di Alessandro Gisotti

Il discorso con il quale, sulla portaerei Lincoln, George W. Bush ha dichiarato conclusa la Seconda Guerra del Golfo non ha ricevuto in generale, sulla stampa italiana, un adeguato spazio di approfondimento. L’attenzione è stata rivolta pressoché esclusivamente alla parola “fine” della guerra, trascurando di leggere - tra le righe della retorica - quello che può essere definito un compendio della strategia americana sullo scacchiere internazionale per l’immediato futuro. Una chiave di lettura, insomma, per comprendere dove sta e, soprattutto, dove si dirige l’America del dopo 11 settembre e ora del dopo Saddam Hussein. Vale, dunque, la pena di soffermarsi su alcuni passaggi dell’intervento (il testo integrale è su www.whitehouse.gov) che, significativamente, ha suscitato il vivo apprezzamento dei neoconservatori, in crescita costante nel processo di decision making della Casa Bianca. 

E’ stata una battaglia combattuta “per la causa della libertà e la pace nel mondo”, ha detto il presidente americano attribuendo al conflitto una legittimità sostanziale, moralmente superiore a quella formale non ottenuta in sede Onu. Una guerra, ha aggiunto, che ha reso gli Stati Uniti “una nazione più sicura”. Quindi, Bush ha manifestato la propria soddisfazione, mista ad orgoglio, per l’eccezionale capacità tecnologica dimostrata dalle forze armate di “Iraqi Freedom”. Un’operazione, “condotta con una combinazione di precisione, velocità e coraggio che il nemico non si aspettava e che il mondo non aveva mai visto prima”. Il Commander-in-Chief ha, così, lodato lo spirito immutato nel tempo dei soldati americani, dallo sbarco in Normandia alla liberazione di Baghdad. Un elogio dello strumento militare, che riecheggia la tesi espressa da Robert Kagan in Power and Weakness, secondo cui gli americani, diversamente dagli europei, ritengono il ricorso alla forza uno dei metodi possibili per dirimere le controversie internazionali. 

Proprio sulla “novità” della guerra ipertecnologica – caldeggiata dal segretario alla Difesa, Rumsfeld, nonostante i mal di pancia del segretario di Stato, Powell – Bush ha speso le parole più interessanti e, al tempo stesso, gravide di conseguenze. Nel secolo scorso, ha constatato, la tecnologia militare culminata nell’era nucleare è stata “pensata e programmata” per infliggere perdite sempre crescenti nel campo nemico. Nello sconfiggere la Germania nazista e l’Impero nipponico, gli Alleati hanno distrutto città intere, mentre i leader nemici, che avevano determinato l’inizio del conflitto rimanevano al sicuro. “Il potere militare – ha rilevato – era utilizzato per sconfiggere un regime, distruggendo una nazione. Oggi abbiamo un potere più grande, quello di liberare una nazione distruggendo un pericoloso e aggressivo regime”. Un messaggio chiaro, che certo fa rabbrividire le cancellerie dell’Unione Europea impegnata, specie nella sua versione franco-tedesca, a costruire un ordine internazionale basato sul primato assoluto del negoziato, piuttosto che sui rapporti di forza. D’altro canto, l’Unione europea - “pigmeo militare” secondo la ben nota definizione del segretario generale della Nato, Robertson - guarda con angoscia allo strapotere dell’iperpotenza stellata. Una superiorità solitaria che, appunto, fa presagire il ricorso alle armi con frequenza maggiore rispetto al passato. “Con le nuove tattiche ed armi di precisione – ha, infatti, affermato Bush – possiamo raggiungere obiettivi militari senza indirizzare la violenza contro i civili. Nessun dispositivo umano può rimuovere le tragedie di una guerra – ha concesso – ma è una grande conquista morale il fatto che in una guerra i colpevoli debbano temere più degli innocenti”. 

Dopo aver parlato del “mezzo”, il presidente americano ha rivolto l’attenzione al “fine” prendendo spunto dalle immagini di giubilo degli iracheni di fronte alla liquefazione del regime del raìs di Baghdad. Manifestazioni che, a suo dire, hanno dimostrato come “decenni di falsità e intimidazioni non abbiano spinto il popolo dell’Iraq ad amare i propri oppressori o desiderare la propria schiavitù”. E’ stata, quindi, la volta di un passaggio dal sapore decisamente wilsoniano. “Gli uomini e le donne di ogni cultura – ha detto Bush – hanno bisogno della libertà quanto del cibo, dell’acqua e dell’aria. Dovunque arriva la democrazia, l’umanità gioisce”. Nella parte del discorso relativa alla ricostruzione postbellica dell’Iraq, Bush ha dedicato solo una riga e mezza alle armi di distruzione di massa, ragione dichiarata dell’intervento nel Golfo, ed ha riconosciuto che la transizione dalla dittatura alla democrazia richiederà del tempo. Un aspetto ben tratteggiato da Stanley Kurtz sull’ultimo numero della rivista Policy Review. Il presidente degli Stati Uniti ha ribadito che la “coalizione sarà presente fino a quando il lavoro sarà fatto e quando lascerà l’Iraq, lascerà un paese libero”. 

Allargando, poi, il campo d’osservazione, l’ex governatore del Texas ha inquadrato la battaglia irachena nella guerra al terrore, iniziata l’11 settembre 2001. I terroristi, ha avvertito, hanno pensato che quella data fosse “l’inizio della fine dell’America. Hanno creduto che avrebbero potuto annientare la risolutezza di questa nazione, obbligandola a ritirarsi dal mondo. Hanno fallito”. Bush rivendica così il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Dopo l’attacco alle Torri, l’isolazionismo non è più proponibile. Altra cosa è il dibattito in corso nei corridoi del Pentagono, Foggy Bottom e Casa Bianca sull’opportunità, in politica estera, di un approccio unilaterale o multilaterale. Bush ha rammentato che dal Pakistan alla Filippine, fino al Corno d’Africa, gli Stati Uniti stanno colpendo la rete del terrore. La liberazione dell’Iraq è dunque un “passo cruciale nella campagna contro il terrorismo, perché è stato rimosso un alleato di Al Qaeda e tagliata una fonte di finanziamento dei terroristi”. Per il capo della Casa Bianca, le azioni messe in atto dagli Americani, nei 19 mesi successivi alla tragedia del World Trade Center, sono state “mirate e proporzionate all’offesa”. Con gli attacchi dell’11 settembre, ha aggiunto, i terroristi e i loro supporter hanno dichiarato guerra agli Stati Uniti. “E la guerra è ciò che hanno ottenuto”. Bush è molto netto su questo punto: ogni persona, organizzazione o governo che aiuta o protegge i terroristi è un “nemico degli Stati Uniti e un obiettivo della giustizia americana”. Ma “chiunque nel mondo, compreso il mondo arabo, lavora e si sacrifica per la libertà, ha un amico leale negli Stati Uniti d’America”. 

L’impegno per la libertà - ha affermato con toni messianici, e non a caso ha concluso il discorso con una frase del profeta Isaia - è “nella tradizione dell’America”. Un principio irrinunciabile, quindi, e oggi anche caposaldo strategico. Lo spiega bene affermando che il “progresso della libertà è la strategia più sicura per affrontare il terrorismo nel mondo”. D’altro canto, quando la “libertà si radica”, gli uomini si dedicano alla “pacifica ricerca di una vita migliore”. E’ la mistica della libertà, dell’America Home of freedom. Di qui, l’avvertimento di Bush “tanto agli amici quanto ai nemici”, affinché sappiano che gli Stati Uniti considerano una “missione” la difesa e la promozione di libertà e democrazia. Ancora una volta, il linguaggio è duro e semplice. E’ lo stesso del Day After, del 12 settembre 2001: con noi, o contro di noi. 

9 maggio 2003 

gisotti@iol.it


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