Impressioni d’Argentina
di Sergio Benvenuto

Nell’agosto del 2002 sono stato per la prima volta in Argentina – quindi, non ho termini di confronto con il paese prima della catastrofe. Ma, come sottolinea Incisa di Camerana, almeno a Buenos Aires la crisi si vede poco. Certo, nel centro della città si incontrano barboni e senza tetto – molti di più di quanto non ce ne fossero prima, mi assicurano i porteños (i cittadini di Buenos Aires). I poverissimi preferiscono farsi vedere nelle belle piazze fastose del centro, come Plaza de Mayo (ovunque gli indigenti si concedono il privilegio di “risiedere” in posti che solo la classe dirigente si può permettere, ad esempio di fronte alla White House a Washington). Si vede più la reazione spettacolare alla miseria, che la miseria stessa. Molto spesso il centro della capitale è percorso da cortei di protesta più o meno colorati, dove si ribadisce, con mille scritte, “Qué se vayan todos”. I todos sono i politici. Ovviamente c’è voglia di fare giustizia sommaria della classe politica in toto.

Su tanti muri c’è un bel graffito mille volte ripetuto, che recita: Ahora o nunca. Che cosa “ora o mai”? Ovviamente la Rivoluzione! Ma non credo che gli argentini siano sull’orlo della Rivoluzione promossa dal loro concittadino Che Guevara: di fatto, El Paìs de la Plata – a differenza di tanti altri paesi latino-americani – non ha mai fatto né farà alcuna Rivoluzione1. Ma la sogna continuamente. I media (anche italiani) si sforzano di catturare gli aspetti pittoreschi – visibili, impressionanti – della crisi. Così sono diventati celebri i cartoneros, la legione dei nuovi poveri che raccolgono rifiuti per la città per rivenderli ai grossisti del riciclaggio: sappiamo così che i cartoneros muovono circa trenta milioni di dollari al mese, anche se ognuno di loro guadagna tra uno e due dollari al giorno. 

Si parla dei bambini che ogni tanto muoiono di fame in provincia. Tentativo di dare contenuto pittorico ad una crisi squisitamente economica, quindi più intelligibile che sensibile. Ma bisogna starci un po’ in Argentina per sentire questa crisi invisibile. Per percepire il terrore della criminalità che àgita la gente di Buenos Aires, molto di più di quanto prima non fosse. Ti raccomandano di prendere solo i taxi chiamati col radiotaxi, più facilmente controllabili. "Se vai ad un Bancomat – ti dicono – non andarci mai da solo: molti ladri si appostano vicino alle banche per derubarti". È questa la crisi: la paura che chiunque, dappertutto, possa privarti di quello che hai. Molte amicizie si rompono, e quando si indaga sui perché, si scopre che è spesso per ragioni economiche: la crisi non permette ad alcuni di pagare i debiti agli amici, altri si aspettavano più amicizia nel momento del bisogno. Così anche i giornali parlano di una donna che rapisce il bambino di una coppia, al fine di farsi restituire i suoi crediti.

Questi italiani che parlano spagnolo

Quando si incontra un argentino, puoi scommettere – con circa il 50 per cento di probabilità di vincere – che ti citerà una frase di Borges ripetuta a qualsiasi straniero: "Gli argentini sono degli italiani che parlano spagnolo, che vestono come gli inglesi e pensano come i francesi". Questo per dirti, se ancora non l’hai capito, che non sanno bene che cosa significhi “essere argentini”. Da questo punto di vista gli argentini – anche se certo non avrebbero piacere nel sentirselo dire – sono come gli statunitensi, altre persone che, malgrado tutta la forza di cui dispongono, non sanno esattamente cosa voglia dire essere americani: di loro si potrebbe dire che, a parte i Wasp, sono italiani-o-africani-o-ebrei che parlano inglese, pensano in tedesco, si vestono e arredano all’italiana, mangiano come i messicani, cinesi, giapponesi, ecc. Si tratta di creature dell’emigrazione che non si riconoscono davvero in una nazionalità, piuttosto in una cittadinanza. Anche se storicamente il grande flusso migratorio verso l’Argentina risale a prima del 1929.

Altra scommessa: che non appena un argentino sente che sei italiano, nel 50 per cento dei casi ti dirà che lui stesso è di origine italiana, oppure in ogni caso che lo spagnolo che parlano è intriso di italianismi. Ti dirà che in argentino si dice laburar e non trabajar. Del resto Borges affermava – ma non per vantarsene – che lui era diverso dai suoi compatrioti, perché era uno dei pochi argentini a non avere nemmeno una goccia di sangue italiano.Ho così redatto una piccola lista di termini del lunfardo (il gergo dei porteños) di derivazione italiana: birra, buseca (pancia), busarda (pancia), camorra, gamba, vafangulo, mafioso, manyar, cucuza (testa), percanta (amante, concubina), pesto, vento, yeta (disgrazia, influsso maligno – da “jettatura”). Ma la lista potrebbe allungarsi. Un’altra battuta suona “I francesi discendono dai galli. Gli inglesi discendono dagli angli e dai sassoni: gli italiani discendono dagli antichi romani. Gli argentini discendono... dalla nave”. Sicuramente questo sradicamento, questa mancanza di origini, questa non-identità migratoria, è motivo di orgoglio per gli argentini – ma trapela allo stesso tempo un auto-ironico senso di colpa, quasi un segreto strazio. 

Cosa alquanto difficile da capire per noi italiani, che siamo – assieme ai greci e ai cinesi – la nazione più radicata al mondo. Sono duemila e più anni che parliamo (quasi) la stessa lingua, che ci chiamiamo e ci chiamano “italiani” (pur avendo assorbito sangue di vari popoli invasori e dominatori), che da secoli mangiamo magnificamente all’italiana e veneriamo un dio che più italiano non si può, quello cattolico romano. Chi italiano ha mai un dubbio sul significato che può avere “essere italiano”? Per molti di noi, il vero problema è piuttosto di dis-italianizzarsi, ovvero di cercare di districarsi un po’ da questa fin troppo radicante identità. Così, questi "italiani che parlano spagnolo e pensano come i francesi" ci offrono l’immagine a noi inversa di gente che aspira a superare la propria dis-identità, la propria nostalgia per quel che non è.

L’Argentina e le icone dei magnifici quattro

Si capisce presto che l’Argentina si auto-rappresenta in quattro figure fondamentali, che vedi raffigurate nelle più svariate occasioni: Carlos Gardel, Evita Perón, Ernesto Che Guevara e Jorge-Luis Borges. Certo questi quattro non hanno avuto né avrebbero avuto la minima simpatia reciproca. Anche attraverso i poster con le loro facce che decorano i chioschi, paiono guardarsi in cagnesco. Borges, per esempio, ha nutrito sempre un disprezzo profondo per Perón e la sua consorte, e certo un anti-comunista come lui non doveva avere grande ammirazione per il guerrigliero più fotogenico e guapo della storia (ma non abbiamo anche noi italiani eletto a Padri della Patria tre figure che, in fondo, si odiavano cordialmente – Mazzini, Garibaldi, Cavour?). Di questi Magnifici Quattro dell’Argentina, quello che a noi italiani ci è meno noto è forse Gardel: il più celeberrimo autore di tangos. Vale allora la pena dirne qualcosa.

Nessuno sa chi, come e quando inventò il tango – ma gli argentini hanno fatto di Gardel il padre simbolico della loro musica-danza nazionale. Gardel nasce francese, nel 1890 a Tolosa, da Berthe Gardés e da padre ignoto. Berthe emigra in Argentina con Carlos di due anni, per fuggire la vergogna del suo stato di ragazza-madre. Nel 1912 Gardel comincia la sua carriera di musicista con il Duo Gardel-Razzano – che si scioglierà nel 1925 – ma è solo agli inizi degli anni Venti che il Nostro si specializza nel “genere tango”, allora relativamente nuovo, ottenendo presto un successo prima nazionale e poi internazionale in Europa e in America del Nord. Il successo gli spalanca le porte di New York: è qui che, tra il 1933 e il 1935, gira come protagonista cinque film. E certo la sua carriera americana sarebbe andata avanti trionfalmente se il 24 giugno 1935, all’aeroporto di Medellin, Colombia, l’aereo in cui viaggiava non si fosse schiantato al decollo contro un altro aereo, uccidendolo. "Chi muore giovane è caro agli dei", ma anche agli argentini, che ne hanno fatto il simbolo dell’immigrato un po’ parya che trionfa all’estero creando qualcosa di squisitamente argentino. C’è da chiedersi se dalle quattro figure “fondatrici” non emerga un tratto comune, a dispetto delle loro abissali differenze. Probabilmente sì: in fondo tutte e quattro sono state protagoniste di fantasie affascinanti, specialiste del privilegiare il sogno sulla realtà. Gardel, il ragazzo senza padre del quartiere di Abasto che conquista il mondo con il tango, incarna il sogno di costruirsi un’identità llamativa attraverso l’arte; Evita mette in atto il sogno populista di risolvere i problemi complessi della miseria con la semplicissima generosità della mamma bella e buona; Che Guevara il sogno della Rivoluzione mondiale, senza patrie né frontiere; con Borges la letteratura realizza il sogno di trasformare in eventi le creature impossibili della scrittura e dell’immaginazione. Tutti, in fondo, maestri d’utopia. E se fosse questo il nocciolo dell’essere argentini? 

Un gigantesco Io con i piedi d’argilla

Facendo la fila di fronte ad una sala di tango nel quartiere San Telmo, una coppia di anziani argentini, di ceto sociale modesto, prende a chiacchierare con me e, dopo qualche minuto di conversazione, decide di pagare l’entrata per lo spettacolo a me e alla mia compagna. Cosa non inconsueta: malgrado la crisi, gli argentini ci tengono a “fare i generosi” con gli stranieri, che pur portano euro o dollari. "Ma perché lo fate?", chiedo. E l’uomo della coppia: "Perché noi argentini non siamo affatto amati nel mondo!" Traligna qui un oscuro senso di colpa di questo popolo iper-freudiano: sono convinti che gli stranieri non li amino! Eppure, a parte forse i britannici – per la guerra delle Falkland-Malvinas – non mi pare che sia diffuso nel mondo un vivo sentimento anti-argentino. Cosa potrebbero aver fatto di tanto male gli argentini per meritarsi tutto questo astio? 

Certo gli altri latino-americani indulgono nel cliché dell’argentino arrogante, che "non vuol essere latino-americano come noi". Una certa megalomania argentina è gnomica – a Buenos Aires si trova, per esempio, il viale più lungo e più ampio di tutto il mondo. Una barzelletta venezuelana la dice lunga: "Sapete come si suicida un argentino? Sale in cima al proprio Io e da lì si butta giù". Ma la battuta mi viene raccontata da argentini, non da venezuelani. Probabilmente questo motto di spirito rende bene l’attuale crisi dell’Argentina, risultato, in fondo, di una sorta di suicidio economico: gli argentini hanno preferito ingrandire il loro Io – portando i loro soldi all’estero, consumando prodotti stranieri, comprandosi talvolta pezzi di Stato – piuttosto che darsi alla grigia e lenta attività produttiva. Un gigantesco Io con i piedi economici d’argilla. Così gli argentini paiono oscillare narcisisticamente tra i due estremi dell’auto-stima: per un lato si sentono i migliori al mondo, per un altro i peggiori. O troppo superiori agli altri (soprattutto latino-americani), o troppo inferiori. 

Tra la nostalgia per l’Europa e l’ostilità per i gringos

Non si è riflettuto abbastanza sul ruolo dell’ “immaginario geografico” nel determinare le identificazioni delle nazioni – e quindi anche certe loro scelte politiche fondamentali. In America Latina una certa eccentricità dei cileni, ad esempio, è messa sul conto della geografia loca, geografia matta, di quel paese: un bastone lungo e stretto che borda come un merletto il subcontinente sul versante del Pacifico. Ma come non vedere anche nello stivale italiano – penzolante da sotto l’Europa, e frusciante l’Africa – il prototipo di tante angosce politico-culturali italiane “dobbiamo legarci all’Europa per non cadere nel sottosviluppo africano!”.

Mi pare che anche la posizione geografica dell’Argentina sia rilevante per i suoi abitanti. Questo Paese è il più meridionale al mondo, tracima verso l’Antartide, si appuntisce colando giù in un emisfero rado di terre emerse: viene vissuto dai suoi abitanti, insomma, come il culo del mondo. 

Oggi poi che c’è la crisi, questo sentimento di “essere ai margini del globo terraqueo” si acutizza. “Siamo tagliati fuori dal mondo per colpa della crisi", mi ripetono spesso gli amici. Da qui lo spasmodico bisogno di dissetarsi a quella che loro considerano la loro vera appartenenza culturale, fonte da cui nutrire la loro identità: l’Europa occidentale. Insistere sull’europeità di Buenos Aires è un luogo comune. In effetti questa città ha tratti e quartieri che ricordano Parigi, altri Londra, altri altre città europee. Molti di Buenos Aires vorrebbero andare a Budapest, se non ci sono già andati, perché hanno sentito che è la città europea che più assomiglia alla loro metropoli. Non a caso il film-musical Evita con Madonna (di Alan Parker) è stato girato a Budapest, che offriva l’ambiente più simile alla Buenos Aires dell’epoca. Uno dei film argentini che ha riscosso il maggior successo in Europa negli ultimi decenni è sicuramente Tangos, el exilio de Gardel (1985) di Fernando Solanas. Descrive e “danza” la vita degli esuli argentini in Francia, sfuggiti alla repressione della dittatura militare. Il film si svolge tutto a Parigi, e risulta essere un’esaltazione oleografica della capitale francese, non certo di Buenos Aires, che non si vede. Indubbiamente il tema di fondo del film – la nostalgia per la patria lontana, la rabbia contro gli oppressori, le pene dell’emigrazione – appare come smussato, complicato, dal fatto che in fondo questi esuli stanno proprio là dove desideravano stare: agli occhi degli argentini rimasti in patria appaiono quasi dei privilegiati. Un’ambiguità sottile sdrammatizza il film: il dolore di questi espatriati è quello che accompagna, in fondo, il sogno realizzato, non la semplice perdita dell’hogar, del focolare.

Patria ideale dell’argentino è l’insieme di Spagna, Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania; sue capitali, Londra e Parigi. Mai gli Stati Uniti. L’ostilità per i gringos – gli americani – non è certo un’originalità argentina: (quasi) tutti gli intellettuali latino-americani la condividono. Un amico argentino, storico molto quotato, che ha vissuto e lavorato per molti anni in Inghilterra, l’anno scorso fu invitato da un’importante università americana per sviluppare là una brillante carriera. Il mio amico ha rifiutato, perché “non avrei mai potuto vivere in America!” E’ stato quasi un suicidio professionale. “Ma non ti sentivi straniero anche in Inghilterra?” chiedo ingenuamente. No, si sentiva a casa sua – l’Europa per un argentino è casa propria. Ora, un italiano che abbia vissuto sia negli Stati Uniti che in Inghilterra sa che è per lui di solito più facile ambientarsi nel primo paese che nel secondo: gli inglesi saranno europei quanto si vorrà, sono meno accoglienti degli americani. Ma questo non vale per gli argentini: l’America per loro – a parte qualche sorprendente eccezione – è “il cattivo” da evitare.

Alla base dell’a priori anti-americano c’è la convinzione che gli Usa siano se non la causa prima, certo una causa importante – direi il deus ex machina – dei loro guai. Ma solo gli argentini bilanciano questa ostilità per il Nord-America con un amore viscerale per la vecchia Europa. In questo, la differenza con il Brasile, ad esempio, è plateale. Il Brasile non ha nulla di europeo; Sao Paulo, con i suoi grattacieli fitti e il suo smog, ricorda molto una città nord-americana e per nulla una metropoli europea. Sia Buenos Aires che Sao Paulo sono in gran parte un prodotto dell’immigrazione italiana: eppure come sono diverse! Persino le costruzioni mastodontiche sul golfo di Rio de Janeiro ricordano molto più il West americano che Napoli. E’ sbagliato mettere tutti i paesi latino-americani in un solo fascio. Ognuno di quelli che io conosco mi appare del tutto diverso da tutti gli altri. L’Argentina non ha nessun culto e nessuna memoria delle radici pre-colombiane: paese di immigrati, che nel paese d’Argento hanno trovato solo qualche sparuta tribù india, ha ricostituito ex novo quell’Europa che quelli avevano lasciato alle loro spalle. Tutto il contrario del Messico, per esempio, orgogliosissimo del proprio speciale melting tra aztechi, maya, indios vari e colonizzatori spagnoli: paese con radici profonde in un passato grandioso, che sbandiera i mille colori del proprio immenso folklore.

Un amico argentino, invece, mi dice che andare in Europa per un argentino è, come per i prigionieri nel mito di Platone, uscire dalla caverna – dove si prendono le ombre per realtà – e vedere finalmente la luce vera. “Chi ha vissuto all’estero – mi dice – è per noi qualcuno che ha visto la Verità”. Perché ci sarebbe tutto questo buio in Argentina? Andare nell’Europa-luce forse è tornare non solo alle proprie origini, ma mettersi, come Telemaco, alla ricerca di una sorta di paternità perduta? E’ come se lo status di eterno emigrato di cui l’argentino pare fregiarsi ed addolorarsi fosse la sua colpa oscura.

L’Europa come anti-America

Ma l’Europa che adorano gli argentini mi pare essere la loro Europa, non esattamente quella che vediamo noi. Per loro l’Europa è essenzialmente una sorta di anti-America (mentre sappiamo bene che non lo è, siamo dieci volte più americanizzati di loro). L’Europa è per loro un Parnaso essenzialmente umanistico, dominato dal pensiero post-moderno, decostruzionista e post-strutturalista, una civiltà che non obbedisce alle leggi promulgate dalla scienza e dall’economia, insomma, luogo ideale dello Spirito che resiste alla dominazione della razionalità oggettiva. Mi pare che dalla loro immagine dell’Europa abbiano asportato tutta una fetta di europeità, in modo in fondo alquanto simile a quello che fanno i nostri filo-angloamericani in Europa. Anche in Europa in genere si ammira (o si odia) l’America come il trionfo della tecno-scienza e della libertà economica, dello spirito analitico e del libero mercato, della società di massa e dell’auto-congratulazione, cancellando da questa immagine tutto ciò che non quadra con questo ideale: il fervore religioso e le passioni decostruzioniste, l’irrazionalismo e i fondamentalismi religiosi, i fanatismi etnici e lo Stato super-repressivo, l’ammirazione per il Vecchio Mondo e il politically correct. E come gli americani spesso penano a farci capire che il loro paese non si riduce al nostro odiosamato paradigma dell’Amerika, analogamente è talvolta difficile convincere gli argentini che la nostra Europa non è tutta Luce dello Spirito che illumina il mondo. Per noi l’Europa è stata artefice degli orrori dei totalitarismi e dei razzismi, come anche di quel liberalismo e di quella cultura scientifica, di quel capitalismo e di quel paradigma di mondo moderno che l’America si è limitata, in fondo ad amplificare. L’Europa è per noi proprio culla e teatro di quel paradigma cui l’intellettuale argentino volge le spalle, guardando affascinato proprio verso quel teatro e quella culla.

Alle quattro Grandi Figure – Gardel, Evita, Guevara, Borges – gli argentini avrebbero voluto aggiungerne una quinta, se fosse stata argentina: Sigmund Freud. Una quindicina di anni fa in un quiz televisivo in Italia, dove il concorrente doveva scegliere tra tre risposte possibili, si chiese: "Buenos Aires è la città al mondo dove ci sono più: 1) ballerini, 2) macellai, 3) psicoanalisti?". La risposta corretta era la 3.

Di questa passione per Freud e la psicoanalisi – soprattutto nelle sue declinazioni lacaniane – gli argentini menano vanto. Quante volte gli analisti di origine argentina raccontano “spesso, quando a Buenos Aires prendi un taxi, il taxista non ti parla di calcio ma della sua analisi”. Eppure l’importanza della psicoanalisi argentina non poggia su qualche maître penseur indiscusso in patria o all’estero – non mi pare che ci sia stato, almeno finora, un Gardel o un Borges della psicoanalisi. Mi pare esserci piuttosto un alto livello medio, un diffuso volersi analizzare gli uni con gli altri, un vivere al ritmo di Freud – la psicoanalisi appare più parte di un patrimonio popolare che emanazione originale di creatori isolati. 

Mi dicono che ci sono psicoanalisti di scuola parigina anche nella Tierra del Fuego, la propaggine meridionale dell’Argentina più gelida e inospitale. Propongo anzi un incontro tra questi analisti quasi antartici e un analista mio amico che esercita a Tromso in Norvegia, nel circolo polare artico, in una delle città più nordiche del pianeta. Psicoanalisti in capo al mondo. Ma penso che probabilmente non si capirebbero molto: l’analista di Tromso, essendo norvegese, pensa all’americana – gli analisti della Tierra del Fuego pensano alla francese. Opposti geograficamente, non convergenti culturalmente.

Certo, almeno in parte, questa popolarità della psicoanalisi è un corollario dell’europeità argentina, paese che si sente più vicino alla Mitteleuropa che al Paraguay, più affine a Vienna che ad Asunción. Ma cosa spinge questi formidabili mangiatori di carne – quali sono i livelli medi di colesterolo in Argentina? – a stendersi, prima o poi, su un lettino analitico? E se una possibile risposta fosse proprio nella loro “cultura del sogno da realizzare”, vale a dire quella stessa cultura che li fa sentire o i migliori o i peggiori del mondo?

Che cosa sono riuscito a capire io – da non-economista qual sono – della crisi argentina? Prima di tutto occorre distinguerla dalla crisi del Brasile, ad essa simultanea: in Brasile si è trattato di una crisi soprattutto politica, dovuta al panico per la prevista elezione dell’ex-sindacalista Lula alla presidenza della Repubblica. La crisi argentina è invece squisitamente economica, e credo che i principali responsabili ne siano se non tutti gli argentini, certo una parte di loro: la classe politica argentina e le classi agiate, data la loro propensione ad espatriare i propri soldi senza investirli in patria. Gli argentini esportano i capitali – compresi parte dei 150.000 miliardi di dollari prestati dall’Fmi a questo paese – perché negli ultimi 30-40 anni il peso è andato incontro a ripetute e costanti svalutazioni. Accumulare capitali in pesos è per tutti derisorio, soprattutto se si vogliono comprare prodotti stranieri e viaggiare all’estero. Il peso ha dovuto essere svalutato nel corso dei decenni soprattutto per rendere competitive le esportazioni argentine, che riguardano materie prime, carbone e carne. Da qui la spirale viziosa di un paese che non è riuscito a creare un’industria sofisticata di trasformazione: per difendere le esportazioni di materie prime si svaluta la moneta, allora i capitali emigrano all’estero, quindi è difficile trovare capitali da investire per creare imprese sofisticate, quindi si ripiega sull’esportazione delle materie prime, e così via… 

Per rompere questo circolo vizioso, dal 1992 Menem pensò bene di puntare tutto sulla parità dollaro-peso. A quell’epoca l’inflazione – dovuta alle varie svalutazioni della moneta – era arrivata al 1.000 per cento (ma prima aveva toccato punte del 9.000 per cento). Grazie all’aggancio al dollaro, l’inflazione è stata domata, gli argentini potevano di nuovo viaggiare orgogliosamente pagando in “dollari”. Finita l’era della mortificazione valutaria. Gli anni Novanta per gli argentini furono gli anni del “privato è bello”, delle aspirazioni yuppy al successo individuale, dell’ “edonismo reaganiano” come si diceva in Italia negli anni Ottanta. Ma tutto ha un prezzo: le esportazioni sono crollate, quindi per rimettere in moto l’economia si è dovuto chiedere un enorme prestito all’Fmi. Che lo ha facilmente elargito, perché il governo argentino appariva un buon discepolo dell’ortodossia monetarista, Buenos Aires una succursale di Chicago. E infatti, fino a due anni fa l’Fmi citava l’Argentina come uno dei paesi più virtuosi, che gestiva ottimamente la propria economia. Oggi molti argentini dicono "la nostra bancarotta è l’esempio più vistoso del fallimento del Washington Consensus, della dottrina liberista che ci è stata imposta negli anni Novanta". La mia impressione è che ogni fondamentalismo – compreso il fondamentalismo liberista – prima o poi porta disastri. In economia, non c’è nessuna formula magica che funzioni sempre e per tutti: al limite, ogni paese è un caso a sé. La filosofia dell’Fmi ha funzionato con certi paesi asiatici, ma non con la Russia, la Turchia, l’Ecuador o El Salvador; e soprattutto non con l’Argentina. Il fatto che tutti questi siano “mercati emergenti” non implica che se una ricetta è buona per l’uno allora sia buona per qualsiasi altro. Ci sono più cose in cielo e in terra, che in tutta la teoria economica contemporanea.

I risultati dell’applicazione delle dottrine dei Chicago boys sono sotto gli occhi di tutti. La disoccupazione, che era al 6 per cento nel 1995 (inferiore a quella dell’Italia), ora è al 25 per cento. Fino al 1995 il cibo era a buon mercato: oggi è carissimo persino in questo paese di grande produzione alimentare. Il debito estero del paese ammonta al 52 per cento dell’intera economia. Per ogni dollaro che l’Argentina ha avuto in prestito dall’Fmi, oggi ne paga cinque. Il lettore che è stato costretto a chiedere prestiti ad uno strozzino può farsi una buona idea dell’Argentina oggi. Dove sono finiti i soldi del prestito? Non nel sistema produttivo, ma nel vasto sistema finanziario – l’Argentina ha oltre 400 banche. I potentati politici hanno intercettato questa ricchezza, dicono gli amici argentini che se ne intendono, attraverso il sistema finanziario; il danaro prestato è stato utilizzato per privatizzare parti dello Stato da parte di notabili corrotti, e per partecipare ad investimenti finanziari all’estero. Gli argentini dicono che gran parte del danaro prestato oggi rimpingua i forzieri delle banche svizzere e americane. “Tutti qui – a parte quelli che hanno esportato i loro capitali – ci sentiamo dei truffati, dei bidonati”.

L’Argentina – tradizionalmente il più ricco dei paesi latino-americani – non è un paese agricolo. A differenza di paesi con tanti contadini – come Messico, Perù, Cile o Bolivia – ci sono pochi contadini: nella pampa, bastano poche persone per provvedere a vastissime coltivazioni e a grandi allevamenti. Quindi, non basta una riforma agraria per risolvere i problemi economici del paese. La maggior parte della popolazione argentina è urbana, il che significa che le crisi colpiscono subito e prima di tutto i ceti urbani: quelli che più fanno pressione sul potere politico, sui media, sull’opinione internazionale. Perciò tutto il mondo ha seguito la crisi argentina: è stata resa fotogenica grazie al fastoso palcoscenico della capitale. Quando i contadini muoiono di fame, nessuno o quasi se ne accorge – ma la crisi nelle città diventa subito mass-mediatica. Indubbiamente questa crisi ha fatto spettacolo – così tutti ci siamo sentiti un po’ coinvolti nei guai di questi nostri parenti emigrati, avventurieri sfortunati.

Ma mi chiedo se alla fine tutti, sia i truffati che i truffatori d’Argentina, non ne siano usciti perdenti. Questa ritrosìa argentina ad investire in casa si spiega solo con il terrore dell’inflazione? Che gli argentini amino il loro paese è fuori di dubbio. Ma il punto è che forse non lo considerano veramente proprio: non si fidano di esso, cioè, non si fidano di se stessi. Sono troppo bravi, troppo intelligenti, troppo cosmopolitici, per fidarsi di se stessi. Per parafrasare Groucho Marx, sembra che non accettino veramente di essere cittadini di uno Stato che li ha accettati come cittadini.

9 maggio 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)


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