La sfida del pluralismo dei media arabi
di Alessandro Gisotti

In principio era la Cnn. Dodici anni fa, chiunque volesse vedere le immagini di Baghdad sotto attacco, avvolta nella notte di una irreale nebbiolina verde scalfita solo dai traccianti della contraerea del raìs, doveva sintonizzarsi sul network americano. A New York come a Dubai. Il primo conflitto del dopo Guerra Fredda è stato così raccontato con tempi e ritmi scanditi dalla tv satellitare di Ted Turner. Ci si è abituati, a San Francisco come a Beirut, alla luce intermittente - inquietante e attraente, al tempo stesso - delle “breaking news” della tv globale a stelle e strisce. Un monopolio, quello della Cnn, rimasto in piedi fino all’11 settembre 2001. Data, che, anche per il mondo dell’informazione, ha significato un punto di non ritorno. La guerra in Afghanistan - il contrattacco dell’America ferita dalla follia cieca del terrorismo - ha infatti visto emergere quale competitor dell’emittente di Atlanta la tv araba Al Jazeera. 

Nata nel 1996 a Doha, in Qatar, grazie ad un investimento governativo di oltre cento milioni di dollari, Al Jazeera (in arabo “penisola”) ha conquistato fama planetaria con la messa in onda dei messaggi del famigerato Osama Bin Laden. Ma nel Medio Oriente era ben nota già da tempo per l’eccellente livello tecnologico della sua struttura, il look occidentale dei suoi giornalisti – donne comprese, cosa di non poco conto per una rete televisiva di un Paese musulmano – e soprattutto per la linea editoriale decisamente anticonformista, spesso giudicata “sensazionalista”. Un atteggiamento molto gradito dalle masse arabe (si calcola che Al Jazeera sia seguita dal 70 per cento della popolazione dell’area del Golfo Persico), che, tuttavia, le ha procurato una lunga schiera di nemici tra i governi della regione. Governi per lo più dittatoriali, quindi non abituati all’analisi critica di un mezzo di comunicazione non eterodiretto. Unica televisione presente a Kabul durante la guerra al regime talebano, l’emittente qatariota è stata ora definita sionista (dal Baherein), ora antisemita (da Israele). Criticata duramente da Paesi come Arabia Saudita, Pakistan, Tunisia ed Algeria per il linguaggio poco tenero verso le proprie leadership, ha anche innescato una crisi diplomatica tra i governi di Qatar e Giordania, dopo la trasmissione di alcuni servizi considerati da Amman poco rispettosi nei confronti della famiglia reale hashemita. Dei rapporti con il Kuwait, basterà dire che a nessun giornalista della tv, sorta sulle ceneri della sezione in lingua araba della Bbc, è stato permesso di essere presente sul territorio da cui è partita l’offensiva anglo-americana contro Saddam Hussein.

Il successo di Al Jazeera e la sua forza di penetrazione e persuasione non ha, d’altro canto, mancato di suscitare roventi polemiche con il governo di Washington. La Casa Bianca ha stigmatizzato l’antiamericanismo, a suo giudizio, imperante nel network arabo, che - ironia della sorte - trasmette a pochi chilometri dal Centcom di Doha, il Comando centrale alleato dell’operazione “Iraqi Freedom”. Le immagini crude e crudeli di bambini rimasti uccisi a Bassora e Baghdad nei raid alleati – mostrate ripetutamente sugli schermi della tv araba – hanno infiammato gli animi di milioni di musulmani dal Marocco all’Iran, non aiutando certo a conseguire quella “conquista delle menti e dei cuori”, che, nello scacchiere mediorientale, gli americani ritengono non meno rilevante della conquista di Baghdad. 

Da un anno a questa parte, Al Jazeera ha iniziato a sottotitolare in inglese alcuni suoi programmi. Una decisione presa quasi contemporaneamente con il lancio del sito in lingua araba della Cnn. Dimostrazione non solo di un sistema concorrenziale esteso ormai ben oltre i confini nazionali e regionali, ma anche segno evidente della progressiva compenetrazione mass-mediale tra il mondo occidentale e quello arabo. Processo, peraltro, che va letto nel più ampio fenomeno della globalizzazione dell’informazione, che negli ultimi anni ha subito una sorprendente accelerazione.

Elemento significativo di questa nuova stagione del villaggio globale è proprio l’irrompere nell’etere di alcune reti televisive arabe, che affiancandosi ad Al Jazeera ne mettono già in discussione il primato. Con la Seconda Guerra del Golfo - grazie alla tecnologia satellitare - gli arabi hanno, per la prima volta, la possibilità di scegliere tra una serie di network “all news” che parlano la propria lingua e ragionano sulla base degli stessi paradigmi culturali, seppur con visioni e sensibilità diverse. E’ il caso della piccola ma agguerrita Abu Dhabi Tv (ADTV), degli Emirati Arabi Uniti, e di Al Arabyia, con sede centrale a Dubai. La prima è l’unica emittente che conta uno studio televisivo a Baghdad con quattro telecamere che dominano dall’alto la capitale irachena, in azione 24 ore al giorno. Come nel caso di Al Jazeera, anche ADTV viene spesso accusata di “sensazionalismo”. Ma questa “è una guerra sensazionale”, ha risposto di tutto punto il suo direttore Ali Al Ahmed. Al Arabyia è, invece, considerata l’“equilibrata alternativa” al network qatariota. Creata proprio in vista dell’attacco all’Iraq, è di proprietà del cognato di re Fahd dell’Arabia Saudita e ha potuto usufruire di un capitale iniziale di 300 milioni di dollari con investitori sauditi, kuwaitiani e libanesi. Le critiche che gli vengono mosse dai telespettatori arabi sono antitetiche a quelle avanzate nei confronti di Al Jazeera e Abu Dhabi Tv. Troppo filo-americana. Ma il direttore del dipartimento notizie, Salah Najim, respinge ogni addebito. “Offriamo al pubblico un’alternativa, scevra da provocazioni deliberate”, ha dichiarato senza battere ciglio. Un suo spazio se lo è anche ritagliato la Lebanese Broadcasting Corporation (Lbc), che recentemente ha iniziato a collaborare con il quotidiano internazionale arabo, Al Hayat. 

Promuovere l’informazione libera e plurale in Medio Oriente è una missione difficilissima. Non impossibile. Durante la guerra del 1967 contro Israele, i media arabi annunciavano quotidianamente alla popolazione dei Paesi belligeranti l’abbattimento di cento aerei nemici, assicurando che presto lo Stato ebraico sarebbe stato cancellato dalla cartina geografica. Dopo sei giorni di conflitto, le truppe con la stella di David avevano vinto la guerra. La lezione, forse, è stata imparata. 

28 marzo 2003

gisotti@iol.it
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