Il nuovo Iraq fra India e Giappone
di Barbara Mennitti

I cittadini di Baghdad ballano festanti sulle macerie del regime che li ha oppressi per oltre un ventennio, i marines, sui loro cingolati, entrano quasi senza incontrare resistenza nella roccaforte del rais. Dopo i primi momenti di circospezione si mescolano alla folla degli iracheni, si abbracciano con i ragazzi scesi in strada a festeggiarli, li aiutano a buttare giù i simboli dell’oppressione. La guerra non è ancora finita, ma si avvia alle fasi conclusive. L’attenzione, dunque, si sposta ora sull’Iraq del dopo Saddam. Cosa fare e come farlo per evitare di sprecare questa guerra e questa vittoria. Stanley Kurz, studioso della Hoover Foundation ed editorialista del Wall Street Journal, del Weekly Standard e della National Rewiev, cerca di dare una risposta sull’ultimo numero della Policy Review, autorevole bimestrale statunitense. Il suo lungo saggio si intitola: “Democratic imperialism: a blueprint”.

L’obiettivo dell’Amministrazione Usa è la democratizzazione dell’Iraq e possibilmente di tutta l’area mediorientale perché, come ha detto il presidente Bush, “le nazioni libere non alimentano le idologie omicide”. Ma come è possibile educare alla democrazia una società che da tanto tempo vive in contrasto con i valori dell’Occidente? L’esempio che ricorre spesso in questi giorni, quello della democratizzazione del Giappone nel secondo dopoguerra, non appare calzante, perché essa si fondava su una serie di prerequisiti economici, sociali e storici che in Iraq non ci sono. Il Giappone era per molti aspetti un paese già moderno, culturalmente omogeneo e monoetnico. Secondo Kurtz, invece, l’esempio cui guardare è quello dell’India, trasformata dall’influenza inglese in una delle poche democrazie del mondo non occidentale.

Fino al 1830, la politica coloniale britannica tendeva a non interferire con il sistema sociale indiano e a rispettarne le élites. Ma ben presto gli inglesi si accorsero di aver bisogno di amministratori per un territorio tanto vasto e così, sotto l’influenza delle politiche liberali di alfabetizzazione ispirate da James Mill, si creò una classe di funzionari indiani anglicizzati, ai quali si iniziò a devolvere parte del potere. Fu proprio questa classe, spiega Kurtz, a diventare “il cuore del movimento indipendentista indiano”. Altre politiche di amministratori liberali, la costruzione di una rete di comunicazione e di trasporto, contribuirono a dare agli indiani una coscienza nazionale e la consapevolezza di una identità comune.

Un processo lungo, sembra dunque sugerire Kurtz, che passa attraverso la formazione di un gruppo di riformatori locali e non attraverso l’acquisizione improvvisa delle istituzioni democratiche. Per accelerare questo processo che nel caso dell’Iraq non può evidentemente essere secolare, il primo espediente potrebbe essere quello di ricorrere agli esuli iracheni che, avendo vissuto per anni in Occidente, ne hanno già assimilato i valori democratici. Loro potrebbero essere il tramite con la società irachena e servirebbero anche ad arginare una reazione nazionalista araba.

La risposta, dunque, sembra essere una specie di colonialismo illuminato, come lo chiamava Mill, non aggressivo ma giustificato solo in chiave autodifensiva, seguendo, qui sì, l’esempio dell’occupazione del Giappone nel dopoguerra. Un imperialismo liberale che accompagni per mano l’Iraq sulla strada della democratizzazione, “un gradualismo che – conclude Kurtz – non è un tradimento del principio democratico. Al contrario è un’intuizione che ci hanno tramandato i fondatori stessi del liberalismo”.

11 aprile 2003

bamennitti@ideazione.com
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