Il treno perduto dell’Europa politica
di Pierluigi Mennitti
Gli occhi sono puntati al dopoguerra. Da Bruxelles si prova a guardar
lontano, quando sino ad ora non si è riusciti a guardare neppure a pochi
metri dal proprio naso. L’Europa proietta al futuro ambizioni e
iniziative sperando che il tempo sani i dissidi e le profonde divisioni
strategiche che animano le sue varie, troppo varie componenti. Le buone
intenzioni, infagottate in un elaborato e calibrato linguaggio
diplomatico, sono l’unica cosa che l’Unione produce in quantità
industriale. Le parole costano poco, una dichiarazione di bei principi
non la si nega a nessuno. Da queste parti è pratica costante per
amalgamare dissensi e contrasti e procedere sulla strada di
un’unificazione difficile. Figuriamoci quando c’è da saltare a piè pari
sulla più grave divisione strategica che l’UE abbia vissuto da quando,
nel 1992, avviò il processo che l’ha portata alla moneta unica e alle
soglie di una storica riunificazione continentale.
Mentre nei palazzi istituzionali si lavora di fino per ricostruire le
basi di partenza di una nuova avventura comune e al Parlamento europeo i
partiti transnazionali faticano a ricucire rapporti lacerati
innanzitutto al loro interno (nell’ultima assemblea nessuna delle
risoluzioni sull’Iraq presentate ha ottenuto la maggioranza), le
conseguenze della divisione si riflettono sui prossimi appuntamenti
dell’Unione: la conclusione dei lavori della Convenzione, che dovrebbe
formulare la nuova Costituzione europea e l’allargamento ai 10 nuovi
paesi dell’Europa centro-orientale e mediterranea. Due processi legati a
doppio filo che dovrebbero rappresentare il punto di arrivo di dodici
anni di transizione politica. L’una e l’altro, la Convenzione e
l’allargamento, avrebbero dovuto completarsi nel semestre di presidenza
italiano che scatterà dal prossimo primo luglio. L’una e l’altro sono
oggi messi in discussione da ripensamenti e ricatti che gli Stati membri
stanno minacciando in una triste replica locale del tira e molla giocato
qualche settimana fa al Consiglio di sicurezza dell’Onu sulla seconda
risoluzione contro Saddam.
L’Italia vorrebbe accrescere il proprio prestigio continentale portando
a maturazione sotto il proprio semestre i due appuntamenti storici.
Berlusconi vorrebbe firmare la nuova Costituzione nelle stesse sale dove
vide la luce, cinquant’anni fa, il Trattato di Roma, l’atto di
fondazione della Comunità economica europea. Ma la Francia frena, il
presidente della Convenzione, il francese Valery Giscard d’Estaing
adesso vorrebbe inserire una dichiarazione d’indipendenza dell’Europa
(ma indipendenza da chi?) perché “il comportamento d'un certo numero di
stati membri porta a interrogarsi sullo spazio dato alla solidarietà in
seno all'Unione europea”: a Parigi c’è una gran voglia di mettere il
bastone tra le ruote delle ambizioni italiane. Stessa posizione
sull’allargamento. Chirac non ha mandato giù l’appoggio alla guerra di
quasi tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia che, memori del ruolo
fondamentale svolto dagli Stati Uniti nella sconfitta del comunismo,
hanno sostanziato con l’Appello degli Otto (proposto da Gran Bretagna,
Spagna e Italia) la solidarietà euro-atlantica. E fornito, chi più chi
meno, supporto politico e militare all’azione anglo-americana.
L’atteggiamento francese più che velleitario appare sprezzante verso i
nuovi arrivati trattati alla stregua di Stati-paria, già mortificati da
un’estenuante trattativa sui sussidi agricoli ingaggiata dalla
burocrazia transalpina lo scorso autunno. Sulle patate e sull’America la
grandeur non transige.
L’impressione è che mentre a Bruxelles si prova con fatica a gettare
acqua sul fuoco delle polemiche con la speranza che il tempo (e una
rapida vittoria degli anglo-americani in Iraq) possa far ripartire la
macchina del dialogo, nelle capitali dei Quindici questo fuoco venga
continuamente riattizzato: a proposito dei rapporti italo-francesi
l’ambasciatore di Parigi in Italia ha detto di recente che “non sono mai
stati così in basso come oggi”. L’opera di mediazione può fare alcune
cose, può consentire un alleggerimento dei rapporti fra le parti anche
se il nulla di fatto del Parlamento che non è riuscito ad approvare
nessuna delle risoluzioni presentate sull’Iraq, la dice lunga sullo
stallo. Ma non può fare tutto. Non può soprattutto sciogliere il nodo di
fondo che ha determinato la spaccatura sulla guerra. Questo nodo è la
lotta ormai scoperta per l’egemonia continentale. La lotta tra la
Vecchia Europa riaggregatasi attorno all’asse euro-continentale di
Parigi e Berlino (ma con la Francia in posizione assolutamente
dominante) e la Nuova Europa dell’asse euro-atlantico guidato da Londra
e Madrid che è capace di aggregare l’Italia e i paesi dell’Europa
centro-orientale.
I margini di un compromesso sono legati a una serie di interessi. Quello
di Blai di non abbandonare uno degli obiettivi politici del suo mandato
governativo, l’ingresso dell’euroscettica Gran Bretagna nell’euro.
Quello di Aznar di proseguire in Europa una carriera politica ormai agli
sgoccioli in patria. Quello di Schröder di recuperare un ruolo
internazionale dopo aver dilapidato il capitale geopolitico avuto in
dote dal crollo del blocco sovietico. E quello di Berlusconi,
mortificato nelle ambizioni di disegnare un ruolo più rilevante per la
politica estera italiana dalle resistenze istituzionali, politiche e
sociali di un paese che non riesce a superare la palude
dell’interminabile transizione. Tutti questi interessi messi assieme
possono fare un compromesso. Difficilmente faranno una politica estera e
militare comune. Chi ha messo in gioco i propri destini politici e la
vita dei propri uomini per disegnare un nuovo ordine mondiale esiterà a
farsi imbrigliare da chi non sembra all’altezza delle sfide drammatiche
del nuovo secolo. Non sempre i treni passano due volte e quello
dell’Europa politica rischia di essere un treno irrimediabilmente
perduto.
28
marzo 2003
pmennitti@ideazione.com
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