Finanza in altalena ma il problema non è la guerra
di Giuseppe Pennisi

Il 2 aprile esce contemporaneamente in migliaia delle migliori librerie americane il saggio di economia la cui pubblicazione ha avuto, negli ultimi anni, la più attenta preparazione mediatica (anticipazioni al congresso scientifico annuale dell’American Economic Associations, articoli sui principali quotidiani, un sunto di due pagine sul settimanale “The Economist”). E’ il volume di Robert Shiller, Università di Yale, dal titolo “The new financial order: risk in the 21st century” (Princeton University Press). La traduzione italiana sarà pronta in autunno. 

Delle bozze del libro di Shiller (autore, si ricorderà, del fortunatissimo “Irrational exuberance” che tre anni fa anticipò il tracollo delle borse) circolano già copie tra gli addetti ai lavori. In che misura la sua lettura è utile ad interpretare l’andamento dei mercati in questi primi di dieci giorni di guerra in Irak? Shiller sostiene che la tecnologia dell’informazione e della comunicazione permette di avere una miriade di dati su cui, quali che siano le leggi sulla privacy, si possono stimare con accuratezza i profili di rischio di individui, imprese, Stati e situazioni e mettere, quindi, in atto complessi, ma efficienti, meccanismi assicurativi in grado di tutelarsi da tutti i sinistri, modificando in tal mondo la finanza, le banche, le assicurazioni e lo stato sociale.

Applichiamo il ragionamento di Shiller all’impennata della borsa nei primi giorni di guerra, alla caduta dopo le prime notizie di difficoltà degli alleati (presa di prigionieri Usa da parte degli iracheni, perdite per “fuoco nemico”, tempesta di sabbia), e alla ripresa dopo l’assedio di Bassora, la rottura del fronte del Nord e le prospettive di un progressivo accerchiamento di Baghdad. I mercati si sono comportati razionalmente di fronte ad un’evoluzione resa del tutto prevedibile non tanto da quanto si legge e vede nei media sulla guerra quanto da come i modelli previsionali del conflitto (messi a punto dai maggiori investitori istituzionali con l’ausilio delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione) affermano da tempo: una prima fase di rapidi successi, seguita da una di difficoltà relative nonché dal rischio che, all’accerchiamento di Baghdad, Saddam Hussein faccia scattare gli armamenti chimico-batteriologici in suo possesso con l’eventualità di colpire anche Israele e dilatare il conflitto.

La prevedibilità è stata accentuata da una determinante: dopo tre anni di flessione dell’azionario, c’erano, nelle settimane precedenti l’inizio delle ostilità, le condizioni per una ripresa di quello Usa (dove il Pil sta crescendo ad un tasso annuo del 3%). Una ripresa moderata in quanto il dibattito tra specialisti finanziari negli “anni dell’orso” e l’impiego di una migliore metodologia statistica hanno portato ad opinioni più sobrie in materia di “equità risk premio” (il premio di rischio da attribuirsi all’azionario rispetto all’obbligazionario): un 2-3% invece del 5-7% di cui si è spesso discettato negli ultimi 50 anni. E l’Europa? A Francoforte, la borsa che più ha sofferto negli ultimi tre anni, ha fatto un balzo del 18%; il Vecchio Continente, però, cresce a un esangue 1% l’anno. Guerra o non guerra, ci vorrà tempo perché le borse tornino alla normalità.

28 marzo 2003

gi.pennisi@agora.it

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