“Shock and awe”, così gli Usa combattono in Iraq
di Giuseppe Mancini

In principio, era la “dottrina Powell”: basata sulla convinzione che gli Stati Uniti avrebbero dovuto combattere una guerra solo con una superiorità schiacciante sul campo – di mezzi ma anche di uomini. Come avvenne durante la Seconda guerra del golfo (1990-1991, l’invasione e la liberazione del Kuwait), quando l’Attuale Segretario di Stato era a capo dei Joint Chiefs of Staff e oltre mezzo milione di soldati scatenarono l’offensiva di terra dopo 39 giorni di pesanti bombardamenti sull’Iraq. Nella Terza guerra del golfo, è invece la “dottrina Rumsfeld” che sta trovando applicazione – con non pochi aggiustamenti e correzioni di rotta: una nuova concezione della guerra, con truppe ridotte in effettivi e più leggere nell’armamento, in grado di integrare al meglio le nuove tecnologie elettroniche e informatiche. Una dottrina che trova il suo caposaldo nella strategia dello “shock and awe”, maldestramente tradotta nella versione imperante sui media italiani in “colpisci e terrorizza”; quando invece il termine “awe”, secondo l’American Heritage Dictionary, indica un sentimento misto di reverenza, rispetto, timore e meraviglia ispirato dall’autorità, dal genio, dal sublime, dalla potenza – uno sbigottimento d’impotenza di fronte al maestoso e all’incomprensibilmente potente.

Lo “shock and awe” cerca di trasformare in realtà l’antico sogno di ogni stratega militare: annientare sin dal principio la volontà di combattere del nemico, che arriva ad arrendersi praticamente senza aver combattuto. Secondo Harlan Ullman e James Wade, autori sin dal 1996 dello studio realizzato per la National Defense University “Shock and Awe – Achieving Rapid Dominance”, gli Usa sono perfettamente in grado di utilizzare il proprio arsenale di armi dal forte potenziale distruttivo ma al contempo straordinariamente precise per trasformare il bombardamento aereo, accompagnato da raffinati interventi di guerra psicologica (nei confronti della leadership militare e della popolazione civile), in mezzo risolutivo che consente di piegare alla resa i vertici militari nemici, sbigottiti, attoniti, incapaci di reagire. Con le evidenti differenze, la riedizione in chiave moderna – e meno cruenta – dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. 

Una strategia che non hai mai convinto il generale Tommy Franks, comandante in capo delle forze anglo-americane. Che avrebbe preferito una strategia analoga a quella del 1991, con quattro o cinque divisioni corazzate lentamente in marcia verso Baghdad, dopo massicci bombardamenti; che ha rigettato la prima proposta di Rumsfeld, di un piano sul modello della guerra in Afghanistan con 60.000 uomini sostenuti dai guerriglieri locali, in azione solo dopo lo “shock and awe”; che ha infine accettato il compromesso che è stato posto in atto. Tra le proteste dei militari nei confronti dei civili che reggono il Pentagono: truppe ancora insufficienti, dispiegamento con incomprensibili ritardi, la corsa a folle velocità verso Baghdad.

Ed è la stessa concezione della guerra che ha in mente per il futuro il segretario Rumsfeld che può incontrare difficoltà – meno effettivi, più tecnologia; meno combattimenti, più politica; meno vittime, più sostegno del fronte interno. Difficoltà che nascono dall’impossibilità di prevedere gli effetti delle proprie azioni senza conoscere il nemico, la sua mentalità, la sua concezione del mondo. Soprattutto quando si continuano ad ignorare lezioni vecchie di secoli. “Il principe Fu Chai disse: Quando gli animali selvatici non hanno via di scampo, combattono disperatamente. Quanto ciò è più vero per gli uomini! Se sanno di non avere alternativa, combatteranno fino alla morte” (Sun Tzu, L’arte della guerra, quinto secolo avanti Cristo). 

28 marzo 2003

giuse.mancini@libero.it
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