Tommy Franks, l’anti-Schwarzkopf di Mesopotamia
di Stefano Magni

Grande generale, almeno fisicamente grande (è alto quasi due metri), Tommy Franks è l’attuale comandante del Centcom, cioè colui che dirige sul campo le operazioni nella nuova guerra del Golfo. Non va confuso con Frederick Franks jr., il generale del VII Corpo d’Armata che annientò la Guardia Repubblicana di Saddam nel 1991, a cui Tom Clancy dedicò il libro-intervista “Dentro la tempesta”. Il nuovo Franks, soprattutto, non vuole nemmeno essere paragonato al suo predecessore, Schwarzkopf, benché fra i due comandanti del Centcom scorra ottimo sangue. “Franks non è Schwarzkopf” ha ironizzato lo stesso Franks rispondendo alle critiche dei suoi detrattori, che lo considerano troppo invisibile agli occhi dei media, troppo restio a rilasciare dichiarazioni e ad organizzare briefing… in poche parole troppo conservatore per combattere una guerra moderna. 

Poco loquace e poco carismatico con i media, in una delle sue prime conferenze stampa, di fronte a decine di giornalisti perplessi, ricordò la sua prima lettura: “Era un libro su Giulio Cesare. Ne ricordo solo alcune parti. Il libro diceva che Giulio Cesare era un generale. Faceva dei lunghi discorsi. Alla fine lo hanno ucciso”. Da qui la sua fama di non-comunicatore, di rude soldato, senza compromessi, un “muddy-boots soldiers”. Fama confermata dal suo ottimo rapporto con i soldati semplici, con cui è sempre in contatto e da cui riceve (almeno, stando a numerose testimonianze) fiducia illimitata. “E’ come tutti i comandanti sul campo dovrebbero essere” scrive, per esempio, un marine “quando lo senti parlare, non hai dubbi che quello che vuole ottenere avrà successo. I suoi discorsi ispirano fiducia”. Franks è partito dal basso, dalla gavetta. Tenente di artiglieria, nel 1967 partecipò alla guerra del Vietnam, dove fu ferito tre volte e si guadagnò le prime decorazioni. Solo dopo l’esperienza in Vietnam completò i suoi studi, in economia, per poi proseguire con una rapida carriera militare in cui alternò esperienze sul campo in Germania, a ruoli di ispezione e addestramento negli Stati Uniti. Nel 1991, durante Desert Storm, era assistente al comando della prima Divisione di Cavalleria, dopo ulteriori specializzazioni nel suo campo (artiglieria) fu trasferito in Corea per poi tornare nel Golfo come comandante del Centcom, responsabile di tutte le operazioni statunitensi dal Maghreb all’Asia Centrale.

Il suo nuovo incarico al Centcom, fin da subito, può essere apparso a Franks come un ritorno ai tempi del Vietnam. La guerra in Afghanistan, contro i Talebani, è stata fortemente penetrata dalla politica, fin nella sua pianificazione. Obiettivi e limiti sono stati fissati dai politici, con lo scopo di non distruggere il paese e facilitare ricostruzione e invio di aiuti umanitari. Altre agenzie, come l’Fbi e la Cia, sono intervenute direttamente nelle operazioni. Il coordinamento con le forze sul campo, fornite dall’Alleanza del Nord, è stato il risultato di un’operazione diplomatica più che militare. Franks, dal canto suo, ha diretto le operazioni nel modo più convenzionale possibile, impiegando l’aviazione come forza di alleggerimento delle roccaforti talebane e permettendo lo sfondamento dei mujaheddin, limitando al massimo la forza e la consistenza dei raid aerei. Tutto ciò ha attirato le ire di molti ufficiali dell’aviazione, che hanno fatto notare come la vittoria in Afghanistan non sia stata sfruttata a sufficienza, proprio perché gli aerei hanno dovuto operare “ad ali legate”.

In Iraq si stanno riproponendo lo stesso scenario e le stesse critiche, sempre da parte dei vertici delle forze aeree statunitensi. Anche nel caso dell’Iraq, gli obiettivi dei raid aerei e missilistici sono stati limitati al minimo indispensabile (escludendo, per esempio, centrali elettriche e telecomunicazioni), per ragioni puramente politiche: facilitare la ricostruzione dell’Iraq e far capire al popolo irakeno che “l’obiettivo non siete voi, ma Saddam” come ha dichiarato il generale McIrney. Le critiche informali dei vertici dell’aviazione Usa ricadono, però, sia in questo caso come nel precedente caso dell’Afghanistan, su Franks più che sui politici a Washington. Anche perché è Franks, in qualità di comandante sul campo, che deve pronunciare l’ultima parola sulla scelta degli obiettivi.

Contrariamente a Schwarzkopf e a tutti gli ufficiali che si formarono sulla dottrina Air-Land Battle degli anni ’80, Franks sembra non riporre così tanta fiducia nel potere aereo e, in questo modo, si adatta più che bene ai vincoli imposti da Washington. Per ottenere un successo rapido e poco sanguinoso (anche per gli irakeni), Tommy Franks ha aderito agli insegnamenti della nuova dottrina Shock and Awe (concettualmente traducibile con “sorprendi e stordisci”), elaborata nella metà degli anni ’90. La nuova dottrina prevede un largo uso della disinformazione, per creare panico e disorientamento fra le forze nemiche, un uso selettivo di armi ad alta precisione per scardinare la catena di comando nemica, rapidi movimenti delle truppe di terra (appoggiate dalle forze speciali) per occupare nel più breve tempo possibile, aree strategiche in più punti differenti del territorio nemico. Il non-comunicatore Franks, insomma, si trova a dover applicare una dottrina in cui il fattore psicologico e comunicativo, conta tanto quanto quello prettamente militare. Solo nelle prossime settimane si potrà vedere se la nuova dottrina, sperimentata per la prima volta sul campo, avrà successo. E si potrà vedere se Franks, nonostante le critiche, sia in grado di applicarla al meglio. 

28 marzo 2003

stefano.magni@fastwebnet.it

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