“Armi chimiche? Saddam le ha ma non è detto che le usi” intervista ad Alessandro Politi di Pierpaolo La Rosa

Frecce, cerchi concentrici, linee tratteggiate. Le mappe dell’Irak, in questi giorni, disegnano il campo di battaglia nel quale si confrontano le truppe anglo-americane e quelle irachene. Una guerra di tipo nuovo rispetto a quelle vissute nel decennio scorso, sia per la strategia studiata che per la tecnologia impiegata. Che per gli obiettivi: questa volta si deve conquistare il territorio del nemico. Ne abbiamo parlato con Alessandro Politi, apprezzato analista strategico.

Sotto il profilo della tattica militare, che differenze ci sono tra la prima guerra del Golfo e quella che si sta combattendo in queste ore? 

Il conflitto del 1991 era lo sfondamento e l’avvolgimento da parte di divisioni pesanti di una difesa statica, precedentemente “ammorbidita” da un bombardamento aereo prolungato. Anche in questa riedizione la difesa irachena è largamente statica, ma concentrata in aree urbane che obiettivamente limitano l’efficacia del potere aereo statunitense. Dal punto di vista di Washington, è aumentato il contenuto informativo nella pianificazione e nell’esecuzione delle operazioni, il che ha portato alla concezione di una campagna fortemente diretta contro il morale dell’élite e delle truppe di Saddam. Le manovre sul terreno sono largamente convenzionali, ma quelle del generale statunitense Franks sono di sviluppo più ampio.

Le parole d’ordine dell’azione americana sono essenzialmente due: “choc” e, soprattutto, “flessibilità”. Termini che inquadrano alla perfezione la nuova dottrina portata avanti dal ministro della Difesa Usa, Donald Rumsfeld. In cosa consiste tale dottrina? E in che modo si è pervenuti ad essa?

Rumsfeld insiste, a ragione, nella necessità che la struttura militare, specie dell’esercito, sia molto più leggera, agile ed affilata rispetto a quella ereditata dalla Guerra Fredda. Il problema è semplice: con i bilanci per la difesa straordinariamente gonfiati dopo la tragedia dell’11 settembre, e con le relative spese a pioggia sostenute, la cosiddetta trasformazione della forza militare statunitense non sarà necessariamente accelerata.

Il comandante in capo delle operazioni, il generale Tommy Franks, parla di bombardamenti chirurgici, selettivi, effettuati grazie al formidabile aiuto del satellite. Esistono ancora dei margini di errore? E se sì, possono provocare quei tragici “effetti collaterali” di dodici anni fa?

I margini di errore sono difficilmente sopprimibili al di là di un certo limite, ma i successivi bombardamenti di Baghdad mostrano in maniera chiara che oggi siamo ben lontani dagli indiscriminati bombardamenti a tappeto del secondo conflitto mondiale, ed anche da quelli del Vietnam. In pratica, non c’è più il bombardamento a tappeto, a meno che non venga espressamente ordinato.

L’avanzata delle truppe di terra anglo–americane verso Baghdad ha incontrato difficoltà maggiori rispetto a quel che commentatori forse avventati avevano immaginato dopo il primo giorno. Quali i motivi?

Si è sottovalutata la capacità da parte irachena di imparare dalla guerra precedente, senza dimenticare naturalmente che anche l’inventiva viene stimolata da una situazione apparentemente senza via d’uscita.

Ritiene che il raìs di Baghdad possa utilizzare armi chimiche o batteriologiche per contrastare l’avanzata terrestre? Queste benedette armi di distruzione di massa ci sono oppure no?

Cominciamo dalla loro esistenza. Se esistono discrepanze nei conteggi degli ispettori delle Nazioni Unite, è ragionevole e prudente supporre che vi siano; ma da qui a dire che costituiscono una minaccia per la pace e la sicurezza mondiale, è una esagerazione così palese che non ha raccolto la maggioranza sia al Consiglio di Sicurezza che all’Assemblea Generale dell’Onu. Al massimo, questo tipo di armi rappresenta un rischio paragonabile a quello posto da Gheddafi e dai suoi arsenali chimici: vale a dire un rischio regionale limitato. Prova ne sia che Israele è da lungo tempo ben più inquieto degli sviluppi iraniani in materia, piuttosto che di quelli iracheni. Il resto - collegamenti con al Qaeda e volontà di cedere armi di distruzione di massa a gruppi terroristici - è un vero e proprio “teorema”, basato interamente su verità apodittiche che non sono sostenute da alcuna prova ragionevole. “Nemo theorema in patria”, direbbe il latino goliardico. Quanto ad un possibile utilizzo del regime, si tratta di un quesito tremendo ed inquietante. Da un lato, vi è il giustificato timore che Saddam Hussein possa impiegare armi chimiche perché, come ricorda quello stesso Sun Tzu studiato dal generale Franks, “un nemico in trappola combatte come una belva ferita”. Dall’altro, i precedenti storici del raìs indicano che quest’uso è probabile solo contro chi (iraniani e curdi) non abbia una capacità di ritorsione. Capacità di cui dispongono invece America, Israele e Regno Unito. Del resto, i discorsi pronunciati da Saddam negli ultimi tre mesi sono improntati ad un pessimismo di fondo circa una reale vittoria, e ad una fiducia in una rivincita nel tempo eseguita dai vendicatori della causa araba e musulmana, chiunque essi siano. Ciò mi fa pensare che, almeno in linea di principio, vi sia una inclinazione a non usare tali terribili armi.

Il compito più difficile è quello relativo alla conquista di Baghdad. A suo avviso, come si comporteranno gli anglo–americani? Se ci dovesse essere davvero una battaglia quartiere per quartiere, casa per casa, a quali pericoli andrebbero incontro i soldati alleati? 

Basta leggere le memorie non solo dei militari a Stalingrado, ma anche quelle dei reduci di Beirut o di Sarajevo, per capire quali sono i pericoli di un combattimento urbano. Se George W. Bush e Tony Blair avranno del tempo politico a disposizione, la cosa migliore è un vero e proprio assedio con una presa per fame. E’ un metodo lento, duro, che richiede spietatezza e pazienza, nonché la logistica per sfamare i vari profughi in uscita dalla città, ma che evita distruzioni inenarrabili, sofferenze inevitabili alla popolazione civile e perdite consistenti. 

Come giudica le parole del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, secondo cui nel nostro paese sono state scoperte molte basi di al Qaeda? C’è il pericolo che, con il proseguire del conflitto, movimenti fondamentalisti islamici possano compiere attentati in Italia, magari saldandosi a gruppi che si muovono nell’area dell’antagonismo o, addirittura, alle nuove Br? 

Credo sia utile attenersi alle dichiarazioni del ministro degli Interni, Giuseppe Pisanu: “Dopo l’11 settembre del 2001, le forze dell’ordine hanno concluso numerose indagini sulle reti terroristiche di matrice islamica presenti nel nostro paese, che hanno portato all’arresto di 55 persone (alcune delle quali già condannate) sospettate di svolgere un ruolo di fiancheggiamento, di sostegno logistico ed in alcuni casi di partecipazione diretta ai gruppi di fuoco”. Dunque: cellule sì, anche se quantificarle richiede un parametro e non tutte sono peraltro riconducibili ad al Qaeda. Sui legami tra diversi terrorismi, resta ancora valido quanto affermato sempre dal titolare del Viminale nell’audizione alla Camera del 27 gennaio scorso: “Dico subito che non sono finora emerse prove concrete di interazione tra gruppi islamici e organizzazioni eversive endogene. Ma questa ipotesi viene attentamente seguita dagli investigatori, anche sulla base di alcuni segnali provenienti dall’ambiente carcerario”. Quello che solo recentemente Pisanu ha sottolineato è l’aumento della minaccia terroristica internazionale, a prescindere dalla guerra. In una famosa cassetta audio, Osama bin Laden ha minacciato in modo esplicito i cittadini italiani; sarebbe perciò opportuno che i siti Internet dei dicasteri degli Esteri e degli Interni pubblichino un chiaro avviso ai viaggiatori in aree arabe e musulmane, ricordando loro che da quel momento non sono più “italiani brava gente”, ma bersagli legittimi agli occhi di qualunque fanatico.

28 marzo 2003

pplarosa@hotmail.com

 

stampa l'articolo