L’America e noi
di Alessandro Gisotti

L’America non è un luogo, è uno stato d’animo. Viene in mente questa bella definizione di Mario Soldati volgendo lo sguardo agli avvenimenti che stiamo vivendo in questo drammatico inizio di secolo. Ciò che l’America rappresenta, infatti, le sue scelte e le sue assenze, le sue vittorie e le sue sconfitte, i suoi errori e i suoi successi sono sempre, quasi inevitabilmente, oggetto di un referendum planetario segnato più dall’emozione che dalla ragione. Una tendenza che abbiamo visto confermata, per certi versi amplificata, nelle ultime settimane. Milioni di persone, in tutto il mondo, delle età più diverse, dalle convinzioni politiche più distanti sono scese in piazza per protestare contro la guerra all’Irak. Una mobilitazione così imponente da indurre il “New York Times” a segnalare la nascita di un’altra superpotenza, l’opinione pubblica. Un fenomeno positivo. Manifestare pacificamente contro la guerra, infatti, non è solamente legittimo, ma auspicabile, giacché inserisce un elemento vigoroso nel confronto delle idee su un tema esistenziale, che scuote le coscienze, qual è appunto il ricorso alla forza, seppur contro un efferato tiranno. 

Tutt’altra questione è strumentalizzare la pace, un valore di tutti, trasformandola in un “ismo”, un’ideologia di una parte contro un’altra. Ben altra cosa, insomma, è la metamorfosi del pacifismo in antiamericanismo. Un pericolo reale nel Vecchio Continente. Lo ha detto a chiare lettere anche il presidente della Commissione europea, Romano Prodi, che certo non può essere annoverato tra i neoconservatori del partito repubblicano statunitense. Una piaga antica, d’altro canto, e al tempo stesso un male miope perché non vede un fatto evidente. Non accetta una lezione che il “secolo breve” alle nostre spalle ci insegna: il progresso dell’umanità si costruisce non contro, ma assieme agli Stati Uniti. Pensare di isolare l’America, di creare un cordone sanitario attorno ad essa ricorda l’aneddoto di quei cinque soldati a mani nude, che circondando un carroarmato nemico intimavano al suo equipaggio di arrendersi. La presa d’atto della superiorità strategica americana non implica, peraltro, il subire passivamente ogni decisione dell’iperpotenza, giacché il servilismo paga solo nel breve periodo. Significa, però, riconoscere che, ci piaccia o meno, gli Stati Uniti sono la democrazia occidentale espressa alla massima potenza. Dove la potenza, ovviamente, non è solo militare. Vuol dire ricordarsi sempre che quanto è di più caro a noi europei – le libertà della persona, i diritti umani, la democrazia, il libero mercato – lo abbiamo conquistato e rafforzato non contro l’America, ma con l’America. Basterebbe, poi, aprire l’elenco telefonico di New York – con i suoi signor Rossi, monsieur Dupont ed herr Schmidt - per capire che americani ed europei non sono tanto amici quanto, piuttosto, membri della stessa famiglia. Risulta incomprensibile, allora, la posizione di chi auspica uno strappo non ricucibile all’interno dello stesso popolo, che vive sulle due sponde dell’Atlantico. Una scellerata fuga in avanti, che, superando il ben noto schema, tratteggiato da Samuel Huntington, prefigurerebbe una frattura all’interno della medesima civiltà. 

Non bisogna nasconderlo, la Seconda Guerra del Golfo scaturisce quanto meno con tempi e modi controversi. E’ un conflitto ancora in cerca di legittimazione, ha scritto qualcuno. Ma è davvero difficile seguire il ragionamento di chi, rifiutando categoricamente l’equazione Saddam Hussein uguale Hitler, non prova, invece, imbarazzo agitando cartelloni raffiguranti Bush con le sembianze del Fuhrer. E’ altrettanto difficile accettare la tesi di quanti affermano che la guerra degli Stati Uniti all’Irak è, sic et simpliciter, una guerra per il petrolio. Perché allora dovrebbero avere l’onesta intellettuale di ammettere che è per il petrolio che Russia e Francia – partner commerciali privilegiati del regime iracheno – non vogliono la guerra. E come non trovare stridente l’arruolamento nel campo pacifista degli inquilini dell’Eliseo e del Cremlino. Chirac, quello dei test nucleari a Mururoa. Putin, quello della guerra in Cecenia.

Ancora una volta, abbiamo visto in questi giorni la bandiera di una nazione bruciata e dileggiata. Un atto codardo, ma soprattutto un gesto idiota. Il vessillo a stelle e strisce non rappresenta solo George Bush e Donald Rumsfeld. Sotto l’ombra rassicurante di quella bandiera, infatti, c’è anche il “pacifista” americano Noam Chomsky e l’americano “antimperialista” Gore Vidal. E’ comparsa anche qualche bandiera americana con cinquanta croci uncinate al posto delle stelle. La si è intravista nelle vie di Roma, Parigi e Berlino, dove migliaia di persone hanno espresso il proprio dissenso radicale nei confronti dell’America. Se lo hanno potuto fare liberamente è grazie ad altre migliaia di uomini. Quelle migliaia di giovani americani, che, sessant’anni fa, per cancellare dalla faccia dell’Europa l’orrore delle croci uncinate sono morti sulle spiagge di Anzio, della Normandia e in mille altri luoghi di una terra non loro. Sessant’anni fa. Non mille.

28 marzo 2003

gisotti@iol.it
stampa l'articolo