Belgrado sotto shock per l’assassinio del premier Djindjic
di Giuseppe Mancini


La Serbia, la violenza, il caos. Dopo esser scampato ad un altro attentato, lo scorso 21 febbraio, il primo ministro serbo Zoran Djindjic è stato ucciso ieri, martedì 12 marzo, dal fuoco dei cecchini, proprio davanti alla sede del governo nel centro di Belgrado. Sui mandanti, molti gli indiziati. La mafia? Gli ultranazionalisti? Gli orfani di Milosevic? Oppure qualche coalizione di queste forze contigue che si oppongono, con ogni mezzo, alle riforme e alla ricostruzione della Serbia. Perché era Djindjic che, più di ogni altro, spingeva per la nuova Serbia: lontana dagli intrallazzi tra affari, criminalità e potere politico; libera dalle tentazioni nazionaliste dell’era Milosevic, a cui il presidente jugoslavo Vojislav Kostunica non era di cero estraneo; fortemente ancorata all’Occidente, dotata di un sistema politico liberal-democratico e di un’autentica economia di mercato. La Serbia da buco nero a cardine di stabilità nei Balcani, leader del processo di integrazione europea. La Serbia finalmente senza Milosevic, la cui estradizione all’Aja è stata fortissimamente voluta proprio da Djindjic.

Il rischio, oggi, è una crisi generalizzata. Perché, nonostante le facili speranze e i buoni propositi, la transizione dall’autocrazia criminofila di Milosevic alla democrazia si è rilevata impresa quasi impossibile: osteggiata dai settori dell’élite politica e economica più compromessi col vecchio regime, letteralmente bloccata dalla crisi istituzionale legata al futuro del Kossovo e dei resti della Federazione jugoslava. La recente trasformazione della Federazione in una fragilissima unione di Serbia e Montenegro è nei fatti il primo passo verso l’ineluttabile separazione da Pogdorica; segnando, di conseguenza, le sorti indipendentiste di Pristina, magari corrette da aggiustamenti territoriali che restituiscano a Belgrado almeno la culla della loro cultura nazionale. Soprattutto, la supposta democrazia serba era stata svuotata di ogni significato reale dalla lotta per il potere tra gli ex alleati Kostunica e Djindjic: lotta senza quartiere in cui, manovrando in modo da rendere impossibile l’elezione di Kostunica alla presidenza serba, Djindjic aveva conquistato il potere assoluto, regalando a Kostunica l’irrilevanza politica.

Ultimo di numerosissimi episodi di violenza politica, l’assassinio del premier serbo è un tragico monito per chi ritiene che per costruire un sistema politico liberal-democratico basti cacciar via i tiranni, rimettere in piedi ciò che è stato distrutto, chiamare il popolo alle urne. Ci vuole invece tempo, coraggio, abilità, umiltà. Djindjic si è dimostrato straordinariamente abile e coraggioso, ma non ha avuto né pazienza, né umiltà: ha cercato sponde, sotterranee alleanze, sporchi giochi di palazzo, ammantando la propria smisurata sete di poter con slogan per arruffianarsi l’attenzione e l’appoggio, anche economico, dei paesi occidentali, in primo luogo europei. Rimane Kostunica, leader nazionalista, eccessivamente nazionalista e inspiegabilmente nostalgico: un leader che guarda al futuro senza troppo coraggio, che si muove con sufficiente abilità. Non è il leader ideale: ma non si capisce chi altri potrebbe assicurare alla Serbia un minimo di stabilità interna, impedendo che vada in pezzi il processo di integrazione europea dell’area balcanica che con mille difficoltà è stato messo in moto. Oggi più che mai, immersa nella violenza e sull’orlo del caos, la Serbia ha bisogno dell’appoggio fattivo e convinto degli Stati occidentali, di quelli più lungimiranti. Che si possano aprire interessanti spiragli per il nostro paese?

14 marzo 2003

giuse.mancini@libero.it

14 marzo 2003

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