La guerra, l’Italia e la “nuova Europa”
di Ludovico Incisa di Camerana

Non ha avuto del tutto torto il segretario della Difesa americano Donald Rumsfield quando ha parlato, a proposito della linea pacifista dell’asse franco-tedesco, di “vecchia Europa”, implicitamente pronosticando il suo superamento da parte di una “nuova Europa”. La nuova Europa si è già manifestata con l’adesione al Club degli Otto di altri dieci tra Stati candidati e aspiranti all’ingresso. Il tentativo di Parigi e Berlino di imporre la propia leadership all’Unione europea in contrapposizione agli Stati Uniti ha avuto un doppio effetto negativo incrinando nel contempo la solidarietà atlantica e la solidarietà europea. Indipendentemente da ogni doverosa ricucitura si apre nell’ambito isituzionale europeo una nuova fase in cui, a differenza del passato, l’equilibrio interno europeo non sarà più condizionato da un’egemonia quasi esclusiva franco-tedesca, dal timore reverenziale dimostrato per lungo tempo dagli altri membri dell’Unione europea di fronte alle decisioni di Parigi e di Berlino. 

Questo non significa negare l’importanza positiva per l’Europa di un’alleanza tra le due potenze che si erano contese aspramente il dominio del continente. E non si può non apprezzare il fatto che questa alleanza si sia mantenuta nonostante la presenza alla testa dei due Paesi di personaggi ideologicamente e caratterialmente in posizioni diverse da de Gaulle ed Adenauer a Giscard e Brandt, a Mitterrand e Kohl, fino all’attuale binomio tra il conservatore gollista Chirac e il socialdemocratico Schröder. Anzi, il legame si è ancora più rafforzato dimostrando il suo fondamento geo-politico, ossia la sua rispondenza agli interessi nazionali francesi e tedeschi e in ultima analisi, in assenza di alternative realistiche, all’interesse generale europeo. E’ giusto, pertanto, ora che si è giunti vicino al capolinea sottolineare i meriti di quello che è stato durante trent’anni di vita europea il “consolato” franco-tedesco e i demeriti di coloro che, non comprendendone la portata, a suo tempo decisiva, nell’evoluzione dell’impianto comunitario, fecero di tutto, come l’Italia, per contrastarlo in nome di un federalismo massimalista, costantemente smentito nei percorsi effettivamente prescelti. 

Conviene per evitare nuovi errori ricordare la storia cominciando dal principio. Tornato al potere nel 1958, un anno appena dopo la firma del trattato di Roma, il generale de Gaulle comprese che nell’Europa dei Sei i tre membri minori, l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo, si sarebbero serviti delle istituzioni comunitarie per esercitare sui loro indirizzi un’influenza superiore a quella corrispondente al proprio peso politico, economico, demografico, donde l’esigenza di promuovere con le potenze più grandi un circuito privilegiato capace di controllare vuoi l’evoluzione della Comunità vuoi i suoi rapporti con l’esterno. A tal fine venne realizzato un primo approccio, subito raccolto, con la Germania di Adenauer e un secondo approccio con l’Italia. In effetti nell’ottobre del 1962, il ministro degli Esteri francese Couve de Murville, in visita a Roma offrirà all’Italia di stipulare un accordo politico analogo al trattato che sarà firmato con la Germania qualche settimana dopo, il 22 gennaio 1963. 

La mancata adesione italiana, come ricorderà in seguito Couve, bloccherà la nascita di un’autentica cooperazione politica europea, dal momento che questa richiedeva la leadership congiunta delle tre maggiori potenze della Comunità dei Sei. Tuttavia l’asse Parigi-Bonn, se non riuscirà a imporre a Bruxelles una linea politica, ne condizionerà il lento e faticoso itinerario istituzionale. I partner più piccoli, con un’abile infiltrazione amministrativa nei gangli organizzativi comunitari, si creeranno nicchie mercantili privilegiate (basti pensare alla quota latte dell’Olanda). L’Italia, invece, non ci guadagnerà nulla; anzi come osserverà un economista inglese Andrew Shonfield nel 1972, al contrario dei membri minori, eserciterà sulle decisioni della Comunità un’influenza assai inferiore al suo peso specifico. Finirà insomma per seguire incespicando e brontolando il passo dell’asse Parigi-Bonn e pagando le spese delle concessioni pratiche e lucrose ottenute dai paesi del Nord. Né servirà a migliorare la posizione italiana lo strenuo appoggio all’ingresso nella Comunità dell’Inghilterra e successivamente quello offerto all’ingresso della Spagna. Al contrario i nuovi membri rafforzeranno l’asse Parigi-Bonn. L’Inghilterra se la caverà con un abilissimo doppio gioco tra gli Stati Uniti e il duetto franco-tedesco. La Spagna del socialista Gonzalez si subordinerà alla Francia di Mitterrand. 

La fine della Guerra Fredda e l’inizio dell’era della globalizzazione hanno completamente rimescolato l’assetto europeo, rivalutando – è vero – il ruolo geo-politico della Germania, ormai unificata, ma anche quello dell’Italia come paese centrale sia nei rapporti Est-Ovest, sia nei rapporti Nord-Sud. Il rapporto tra Parigi e Bonn, basato al tempo della Guerra Fredda nella complementarietà tra l’apporto militare della Francia e l’apporto economico della Germania, si è trovato di fronte alle necessità di aggiornare una formula superata: la potenza militare francese serve al massimo per operazioni di polizia paracoloniali, mentre alla potenza economica tedesca si è agganciato, con il ricupero della parte orientale, la palla al piede di un’economia arretrata e depressa. Inoltre l’asse franco-tedesco non è riuscito a gestire il dopo Guerra Fredda europeo, nonostante lo spazio concessogli dagli Stati Uniti, che durante la tensione Est-Ovest avevano tutelato l’Europa con il loro ombrello militare senza interferire sul suo assetto interno, anzi incoraggiando la sua integrazione come fattore di coesione e di sicurezza. 

Paradossalmente le carenze della leadership franco-tedesca, rivelate in pieno dall’impotenza diplomatica e militare dell’Europa davanti alle guerre di secessioni balcaniche, hanno restituito un ruolo europeo agli Stati Uniti e perfino alla Russia. L’asse Washington-Mosca si è dimostrato per la pace europea un miglior catalizzatore dell’asse Parigi-Berlino. Ad esso più che all’Onu, messa totalmente da parte, più che alle bombe su Belgrado, si deve la fine della guerra del Kosovo. Grazie al suo intervento militare, gli Stati Uniti e, grazie alla sua mediazione, la Russia hanno guadagnato il diritto di cittadinanza in Europa. Non basta: l’asse Parigi-Bonn (poi Berlino), ha rivelato un’incapacità analoga anche in campo economico e finanziario. Lo dimostra un patto di stabilità escogitato come una trappola per una presumibilmente scriteriata Italia, ma poi scattata proprio sui piedi della Francia e della Germania. Del resto nessuno osa supporre che la ripresa dell’economia europea, la nuova partenza dello sviluppo europeo possa partire da Francoforte o da Bruxelles invece che da New York. A questo punto, in uno scenario in movimento, allo stato fluido, l’asse franco-tedesco rimane fine a se stesso, con scarse possibilità di ottenere la delega degli altri soci europei. Lo riconosce l’ex ambasciatore francese a Roma, Gilles Martinet, che, dopo aver evocato l’irritazione degli ambienti italiani per l’ “egemonismo” franco-tedesco aggiunge: “ciò nonostante era allora possibile fare ammettere automaticamente l’accettazione delle proposte franco-tedesche, oggi questo non vale più”. Per quanto riguarda l’Italia se c’è stato un errore 40 anni fa a ricacciare l’inserimento nell’asse franco-tedesco oggi l’errore sarebbe continuare ad accettarlo supinamente.

In effetti il problema dell’Iraq è diventato l’ora della verità per la “vecchia Europa” e la cartina di tornasole della “nuova Europa”. Sotto l’ala di Parigi e Berlino è rimasto il Belgio. Il gruppo dei neutrali perpetui – Irlanda, Finlandia, Austria e Svezia – continua ad essere un peso morto per tutti, mentre si delinea un quadrilatero Gran Bretagna – Spagna – Italia – Polonia che con l’appoggio di Portogallo e Danimarca e di altri dodici Paesi candidati finirà per imporre una nuova visione dei rapporti euro-atlantici, a cominciare dalla revisione formale del rapporto Nato-Unione europea. Sarebbe infatti il caso di accorgersi che le due istituzioni sono strettamente collegate e che dopo il fallimento della Ced, la Nato, ossia l’esercito atlantico è stato l’unico esercito dell’Europa, l’unico strumento difensivo dei paesi europei contro l’Est ieri ed oggi contro ogni possibile minaccia.

Il dilemma americanismo–antiamericanismo è in fondo un puro esercizio di bizantinismo. Non si tratta per ogni paese europeo di essere più americano o meno americano degli altri. Non si tratta di fare un piacere o un dispiacere a Bush. Sono in gioco interessi nazionali precisi. Un Medio Oriente in mano a tirannie spietate, che scherzano con armi pericolose vicino ai pozzi di petrolio, va riportato dentro un sistema che ne assicuri la stabilità politica e sociale. La spirale conflittuale, avviata più di mezzo secolo fa dalla mancata accettazione da parte dei paesi arabi vicini dello Stato d’Israele, non può durare ancora a lungo all’epoca del terrorismo fondamentalista senza saldarsi con quest’ultimo portando la guerra all’interno dell’Occidente. E’ giunto, dunque, il momento di incoraggiare la trasformazione politica interna del Medio Oriente su basi moderne e rappresentative. 

Per l’Italia questa è egualmente l’occasione per ricuperare la posizione storica avuta a suo tempo nel Levante e perduta nel corso della prima metà del Novecento. I buoni rapporti stabiliti con Israele e la Turchia costituiscono delle premesse favorevoli in questo senso. Ed un contributo italiano articolato più sulla ricostruzione dell’Iraq che su una partecipazione diretta alle operazioni militari rispecchia un atteggiamento saggio e lungimirante. L’Italia si trova così al centro di una strategia destinata a valorizzare al massimo il suo potenziale geo-politico, senza rinnegare in alcun modo le scelte del passato anzi continuando nel solco delle due scelte fondamentali, quella atlantica e quella europea, che non possono essere disgiunte ma vanno semmai arricchite da nuovi spunti. Gli eventi confermano, insomma, la piena validità di una dottrina italiana di politica estera imperniata sempre nella costruzione di un’Europa più estesa e più organica, ma con un valido e robusto supporto esterno, gli Stati Uniti.

14 marzo 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)

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