Guerra e pace nel secolo americano
di Alessandro Gisotti

L’equazione americani uguale guerrafondai, tanto in voga negli ultimi tempi, è semplicistica e quindi errata. Costringere nei limiti angusti di una formula così grezza l’intera politica estera della repubblica stellata è, infatti, indice di scarsa conoscenza della storia dell’ultimo secolo. Oppure, molto più probabilmente, è il risultato dell’applicazione di categorie ideologiche alla dinamica di eventi e scelte politiche, che vorrebbero essere interpretate secondo una chiave di lettura dal sapore fortemente manicheo e perciò antistorica. E’ un’equazione debole soprattutto per il suo fermarsi ad un’osservazione epidermica dell’attore americano sul palcoscenico internazionale, tralasciando di valutare l’incidenza, che, sulle decisioni dell’amministrazione - e in primo luogo del presidente, nella sua veste di Commander in Chief - hanno avuto le spinte, tra loro antagoniste, dell’isolazionismo e dell’interventismo.

All’alba del Novecento – “secolo americano”, secondo la ben nota definizione di Henry Luce – gli Stati Uniti sono già la maggiore potenza economica mondiale. La loro forza non è militare, ma industriale. Un primato che gli Usa rafforzano sfruttando l’accelerazione del processo di interdipendenza commerciale, quella globalizzazione che qualcuno ancora pensa essere nata con Internet e Mc Donald. Quando scoppia la Prima Guerra Mondiale – inizialmente conflitto tra europei, loro sì guerrafondai – viene vanificata l’aspirazione americana di vivere in un mondo libero, prospero e governato pacificamente da nazioni rette da sistemi democratici. In quegli anni, l’inquilino della Casa Bianca è Woodrow Wilson, presidente imbevuto di un messianismo dalle radici profonde, jeffersoniane, che considera la democrazia una “missione”, l’America il suo “crociato”. Rendere il mondo “sicuro per la democrazia”, appunto. E’ all’insegna di questo motto che - nell’aprile del 1917 - Wilson infrange il neutralismo isolazionista d’inizio secolo, pronto peraltro a ricomparire, come un fiume carsico, al tacere dei cannoni. Tuttavia, l’America che entra in guerra è soprattutto una nazione ferita e indignata per gli ininterrotti affondamenti delle proprie navi passeggeri da parte dei sommergibili tedeschi, impegnati in una indiscriminata quanto scellerata guerra sottomarina. Vinta la guerra, l’America wilsoniana fallisce nel vincere la pace. L’idealismo permeante i “14 Punti” e l’afflato multilateralista alla base della “Società delle Nazioni” s’infrangono contro lo spesso muro dei nazionalismi europei. Tra il Nuovo e il Vecchio Continente, l’oceano diventa più largo.

Alla fine degli Anni Trenta, superata con lacrime e sangue la spaventosa crisi economico-finanziaria del 1929, l’America di Franklin Delano Roosvelt si ritrova in una situazione analoga a quella vissuta vent’anni prima. Le dittature – autarchiche e protezioniste – conquistano spazi in Europa ed Asia cercando approdi in Sud America. Il modello liberal-democratico americano è, di nuovo, minacciato mortalmente. Con il deflagrare della Seconda Guerra Mondiale, la lezione di Wilson torna così ad essere attuale. Roosvelt sceglie però una via indiretta d’intervento (sostegno alle nazioni che si oppongono alle forze dell’Asse), perché l’opinione pubblica osteggia l’ipotesi di un impegno in prima persona. Ancora una volta, come già in occasione della Grande Guerra, è un attacco proditorio, che si rivelerà suicida per l’autore, a trascinare l’America nel conflitto. Il 7 dicembre 1941, sotto le ceneri di Pearl Harbor, si ravviva la fiamma dell’interventismo democratico universale. Lo scontro è assoluto e non consente compromessi. Per tale ragione, la resa del nemico deve essere incondizionata. La vittoria della democrazia – liberale e capitalista – diviene la parola d’ordine della guerra americana. Un principio che detterà tempi e modi della politica estera di Washington nei decenni a venire.

Sulle macerie ancora fumanti della Seconda Guerra Mondiale, gli Usa cercheranno di erigere un nuovo sistema di equilibri. Come la Società delle Nazioni, la stessa Organizzazione delle Nazioni Unite è un’idea sostanzialmente americana. La Carta che ne sancisce la nascita viene firmata a San Francisco. Il suo cuore pulsante è a New York. La sua pietra angolare - la Dichiarazione dei diritti dell’uomo - viene alla luce grazie agli sforzi negoziali di Eleonor Roosvelt, moglie del presidente del New Deal. Il tentativo statunitense di dare una nuova spinta al processo di integrazione economica, linfa vitale per la propagazione delle democrazie, si infrange questa volta contro l’impenetrabile “cortina di ferro” innalzata dall’Unione Sovietica. 

La logica dei blocchi condiziona per quasi mezzo secolo le scelte della diplomazia a stelle e strisce e, di riflesso, il ricorso allo strumento militare. D’altro canto, la contrapposizione con il totalitarismo sovietico è sì assoluta, perfino antropologica (come nella lotta contro il nazismo), ma l’evoluzione degli armamenti fino alla potenza annichilente della bomba atomica non permette un confronto diretto, immediatamente percepito come letale per entrambi i sistemi. E’ la guerra fredda. Riscaldata, tuttavia, da una serie di conflitti regionali che, di tanto in tanto, scuotono l’equilibrio del terrore. Anche in tale contesto, però, all’uso della forza, l’America preferisce la forza del mercato. Dove i margini di manovra lo consentono, per esempio nell’Europa occidentale con il Piano Marshall, gli Stati Uniti ingaggiano un confronto sul piano economico con il Blocco socialista. Quando, invece, come nel caso della Corea, i comunisti – in questa circostanza non solo russi, ma anche cinesi – alzano il livello dello scontro, gli Stati Uniti sono pronti a reagire. Con l’invasione della Corea del Sud da parte delle truppe di Pyongyang – operazione “benedetta” da Stalin – si rafforza nell’amministrazione Truman la convinzione che nessun angolo della Terra possa più essere considerato periferico ai fini della lotta per la libertà contro la dittatura della falce e del martello. Convinzione corroborata nel 1956 dalla brutale occupazione sovietica dell’Ungheria. 

Proprio in quest’ottica va inquadrata la drammatica pagina della guerra del Vietnam, frutto amaro del colonialismo francese in disfacimento. Quando Parigi nel 1954 decide il ritiro dall’area, gli americani temono che la lunga mano di Pechino possa afferrare l’intera Indocina. L’idea di un’Asia completamente assoggettata al comunismo, nelle due versioni staliniana e maoista, è inaccettabile. Paradossalmente, sarà John F. Kennedy, il presidente della soluzione pacifica alla crisi di Cuba, ad iniziare la guerra contro i nordvietnamiti. La presenza militare americana nella regione viene ulteriormente rafforzata dal successore di JFK, Lyndon Johnson, che promette: “Non sarò il presidente che vedrà il Sudest asiatico finire come la Cina”. Avvitatosi su se stesso, il rovinoso conflitto lacera in profondità la coscienza del popolo americano. Non meno importanti sono le implicazioni sulla politica estera di Washington. Dopo oltre un decennio di sforzo bellico, nel 1975, l’incubo di Johnson si materializza: ritiratisi gli Americani, il paese viene riunificato nel nome di Ho Chi Minh, che si rivela ben presto il male piuttosto che la cura per il popolo vietnamita. 

La “sindrome” del Vitenam inciderà notevolmente sulle scelte future della Casa Bianca, ora più attenta ad ascoltare le istanze del Pentagono. Le conseguenze sono immediate. Durante la presidenza di Jimmy Carter, in controtendenza rispetto al ventennio precedente, gli Usa non rispondono più colpo su colpo ai sovietici lasciando loro campo libero, specie nell’Africa in via di decolonizzazione. Nell’Annus Horribilis 1979, poi, l’America assiste pressoché impotente all’attacco contro l’Afghanistan sferrato dall’Armata Rossa e alla rivoluzione khomeinista che in, Iran, spazza via il regime dello Shah, caposaldo statunitense nel quadrante strategico del Golfo Persico. Per la legge del pendolo della storia, tuttavia, al remissivo Carter succede l’iperattivo Ronald Reagan deciso ad amplificare il ruolo dell’America in funzione antisovietica. Il linguaggio utilizzato dal nuovo capo della Casa Bianca riecheggia, mutatis mutandis, le suggestioni wilsioniane. L’Urss è l’ “Impero del male”; gli Stati Uniti, lo Scudo della libertà e della democrazia. 

In realtà, l’America reaganiana interviene militarmente soltanto in situazioni a basso rischio, come nel caso dell’occupazione di Grenada a sostegno dell’opposizione al governo filocastrista e il bombardamento di Tripoli, ritenuta la succursale del terrorismo di matrice islamica. La strategia per annientare Mosca – strategia che si rivelerà vincente – mira, piuttosto, a portare l’economia socialista, già in debito d’ossigeno, ad un livello d’insostenibilità tale da determinare il cedimento strutturale dell’Unione Sovietica. In tale contesto, l’atto decisivo è il progetto “Guerre Stellari”, lanciato da Reagan nel 1983, possibile finanziariamente solo grazie al boom americano degli anni Ottanta. Ancora una volta, all’uso della forza, l’America predilige la forza del mercato.

Nel frangente in cui il Blocco socialista si dissolve, sbriciolandosi rapidamente pezzo dopo pezzo, gli Stati Uniti si trovano dunque per la prima volta nel Novecento a non avere più un Nemico al quale contrapporsi. Dopo il multipolarismo della prima metà del secolo e il bipolarismo della Guerra Fredda, il mondo si confronta con un nuovo assetto globale: l’unipolarismo americano. Implosa l’Unione Sovietica, gli Usa da superpotenza divengono iperpotenza. Una condizione di supremazia, che, per certi aspetti, ricorda Roma imperiale al suo apogeo (soverchiante forza militare, capacità di esportazione e “imposizione” del proprio modello politico, culturale ed economico). Ma proprio questa nuova fase, caratterizzata da una maggiore dinamicità di quei soggetti nazionali precedentemente fossilizzati nella logica dei blocchi contrapposti, presenta delle sfide inedite all’amministrazione americana. Anche in questo passaggio epocale, al tramonto come all’alba del secolo, gli Stati Uniti s’interrogano sull’opportunità o meno di proporsi come “il gendarme del mondo”. Questa volta, tuttavia, l’interdipendenza tra gli Stati e i sistemi economici è tale che l’America è “costretta” ad intervenire in aree e situazioni dove calcoli di interesse nazionale sconsiglierebbero un coinvolgimento diretto.

Nella nuova cornice internazionale, il primo test per l’iperpotenza è la Guerra del Golfo. Per quanto ci si possa sforzare nel sostenere una tesi diversa, il ricorso alla forza da parte degli Usa ha per obiettivo la liberazione del Kuwait invaso da Saddam Hussein nell’estate del 1990. Il che, ovviamente, non significa disconoscere la rilevanza strategica - per gli americani, invero, non di più che per gli europei - di una regione che non conosce pari in quanto a ricchezza di giacimenti petroliferi. Nel rispetto del mandato delle Nazioni Unite (risoluzione 678) gli Stati Uniti – appoggiati da una vasta coalizione di Stati occidentali ed arabi – lanciano l’operazione “Desert Storm”. In meno di tre mesi, il dittatore iracheno viene sconfitto, la legalità internazionale ripristinata. La dimostrazione di forza e sviluppo tecnologico della macchina bellica americana – specie nella componente della guerra aerea – è dirompente. Il vulnus vietnamita sembra essersi definitivamente rimarginato, anche se brucia, su quella cicatrice, la débacle americana sofferta nel 1993 in Somalia, nell’ambito della fallimentare missione dell’Onu “Restore Hope”.

All’insegna dei ricorsi storici, il Novecento si chiude come si era aperto, con l’America - questa volta clintoniana - chiamata a dirimere un conflitto tutto europeo. Per di più in quello stesso esplosivo labirinto balcanico, dove tutto aveva avuto origine nel lontano, eppure così vicino, 28 giugno 1914. L’impegno militare statunitense, prima in Bosnia e poi in Kosovo, accende drammaticamente i riflettori sull’incapacità dell’Europa di risolvere le crisi nate nel cortile di casa propria. Quasi un Gulliver economico, l’Unione Europea si dimostra, invece, un nano politico e uno gnomo militare. Le conseguenze sulle aspirazioni del Vecchio Continente di giocare alla pari con gli Stati Uniti sullo scacchiere internazionale sono enormi. Non solo, l’intervento Usa nella ex-Jugoslavia implicherà anche un ripensamento dell’orizzonte d’azione della Nato. Per cinquant’anni organismo difensivo regionale contrapposto al Patto di Varsavia, l’Alleanza Atlantica diviene ora un mezzo potente al servizio di principi universali come l’ingerenza umanitaria o la lotta al terrorismo. Sintomaticamente, quando nel 1993 la guerra interetnica in Bosnia ha ormai assunto una dimensione insopportabile per il sentire comune europeo, il segretario generale dell’Onu, Boutros Boutros-Ghali, non si rivolge alle istituzioni di Bruxelles - ininfluenti, quando non immobili di fronte alla mattanza che si consuma al di là dell’Adriatico - ma a Manfred Woerner, suo omologo nella Nato. La debolezza europea è, d’altro canto, efficacemente sintetizzata nella scelta del luogo dove, nel 1995, si svolgono i negoziati di pace: Dayton, Ohio, Stati Uniti d’America.

Quattro anni dopo, l’Europa deve nuovamente fare i conti con la polveriera dei Balcani. A nulla valgono le risoluzioni dell’Onu, che intimano alle milizie di Milosevic di por fine alle violenze contro la popolazione kosovara. Falliti i tentativi negoziali a Rambouillet, si rafforza così l’idea della necessità della “guerra morale”. L’opinione pubblica americana non guarda, però, di buon occhio l’ennesima operazione “fuori area” volta a districare il bandolo della matassa europea. Sulla scelta americana peserà, non poco, la forte pressione su Washington della “Vecchia Europa”. Alla fine, la guerra si farà con l’opposizione della sola Grecia. Se quindi politicamente l’Unione Europea si mostrerà compatta in questa occasione, tuttavia la “guerra umanitaria” sarà possibile solo grazie agli americani, che copriranno l’80 per cento dello sforzo militare. Un intervento, quello in Kosovo, condotto sotto il vessillo della Nato al di fuori delle Nazioni Unite, che non vengono investite della questione. Gli americani e gli europei sanno infatti che, al Consiglio di Sicurezza, la Russia opporrebbe il veto ad una risoluzione-ultimatum a Belgrado, tradizionalmente vicina alle posizioni di Mosca.

L’11 settembre 2001 catapulta bruscamente l’America nella nuova era della guerra globale al terrorismo. A dieci anni dal crollo dell’Unione Sovietica, l’America vede emergere un altro Nemico. Impalpabile, sfuggente ed irrazionale, il terrorismo islamico - probabilmente sottovalutato, nonostante le avvisaglie degli anni Novanta - trascina gli Stati Uniti nella guerra asimmetrica. Che è in parte invisibile, agli antipodi della guerra classica tra nazioni. Washington è obbligata a cambiare nuovamente le proprie priorità strategiche. All’indomani del terribile e infame attacco a New York e Washington, i giornali di tutto il mondo titolano: “E’ la Terza Guerra Mondiale”. Nelle cancellerie dei paesi amici, non meno che in quelli ostili agli Stati Uniti, si teme che l’America ferita possa reagire unilateralmente sprigionando tutta la sua micidiale potenza bellica. C’è la consapevolezza che, in poche ore, gli Usa sarebbero in grado di incenerire le tre capitali dell’ “Asse del Male”. Il presidente americano Bush sceglie, invece, saggiamente la strada della reazione multilaterale e lavora con pazienza per costruire una coalizione, che, per numero di adesioni, non ha precedenti nella storia dell’umanità. L’attacco all’Afghanistan, lanciato dopo aver chiesto inutilmente al regime di Kabul la consegna dello “sceicco della morte”, è condotta con il supporto praticamente unanime della comunità internazionale. E’ il primo passo nella lunga e complessa lotta al terrorismo, che ha già ridisegnato gli assetti della geo-politica planetaria. “Con noi, o contro di noi”, è l’imperativo categorico di Bush in questa nuova stagione dagli esiti imprevedibili. Con la Libertà o con il Terrore. L’America del nuovo secolo torna a guardare il mondo con gli occhi di Wilson. 

14 marzo 2003

gisotti@iol.it
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